LA BEFFA

Il terzo racconto tratto dal libro Figure.

Faust si avvicinò al bancone: aveva appena concluso il patto e si sentiva su di giri:

“Mi dia un Glenn Grant” gridò al cameriere.

Sorseggiando il suo whiskey pensava a Margherita. Al suo fianco, un uomo rideva e parlava fra sé dicendo frasi sconnesse. A prima vista Faust lo scambiò per un ubriaco, ma guardandolo bene in volto vide nei suoi occhi la luce di una felicità che sentiva essere molto simile alla sua. Gli sorrise e l’altro ricambiò:

“Non mi prenda per matto, sono soltanto felice; sto aspettando una dea.”

“Oh, ma se si tratta di questo la capisco benissimo; anch’io ho un appuntamento.”

“Davvero? Ma allora è una sera fortunata, perché non festeggiamo insieme?”

E in men che non si dica ordinarono altri due whiskey. Nella concitazione del momento dalla tasca dello sconosciuto cadde un foglio di carta, piegato a metà. Accortosene, Faust si chinò per raccoglierlo e vide che nel mezzo c’era una minuscola fotografia …

”Ma questa è Margherita!” esclamò con voce strozzata e tolta dalla sua tasca la stessa fotografia la mostrò all’altro.

“Ma io gli ho venduto l’anima a quel diavolo di un Mefistofele!”

“Se è per questo anch’io!” mormorò Faust con un filo di voce.

“Macché anima, avete perso solo un po’ di soldi.”

I due si voltarono esterrefatti verso l’uomo che aveva parlato, che continuò:

“Scusate la mia intromissione, ma urlavate tanto!..”

“Scusateci voi, ma come fate …” 

“Non vi ha forse detto che l’avrebbe portata qui in taxi? E non vi ha forse chiesto di

pagare in anticipo le spese di trasporto?”

“Sì” risposero i due, imbarazzati e confusi.

“Ma quello era Mefistofele, come potevamo sapere?”

“E quali credenziali vi ha dato? L’avete mai visto un diavolo? Che aspetto ha un demonio? Un  tempo riconoscerlo era facile, ma oggi, cari miei, più guardinghi bisogna essere! Occorre discernimento, sapere porre le domande appropriate e se non se ne è capaci …” e così dicendo scosse il capo ed allargò le braccia.

I due, imbarazzati e contrariati, non sapevano che dire; guardavano lo sconosciuto e ogni tanto si gettavano occhiate perplesse.

“Invece di inseguire dee e margherite, demoni e fantasmi, dovreste liberarvi dell’unico dio che avete: la solitudine! Guardatevi intorno, ci sono giovani donne, volti felici! E voi passate la sera a specchiarvi nei vostri bicchieri. Avanti, siate più attenti a ciò che esiste!”

I due si strinsero nelle spalle, rassegnati alla piega che aveva preso la loro avventura; poi si avvicinarono a un tavolo dove sedevano due giovani donne. Sorrisero un po’ impacciati, ma le due ricambiarono allegre; allora si fecero coraggio e le invitarono a ballare. Prima che musica iniziasse Faust cercò con lo sguardo lo sconosciuto con cui avevano parlato, ma non lo vide più. 

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LE ESTRANEITÀ ELETTIVE

Quelli che seguono sono altri due racconti della raccolta Figure.

LE ESTRANEITÀ ELETTIVE. PRIMA PARTE.

Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, spedì ben 90.000 lettere alle amiche bambine ed intrattenne con la stessa Alice Liddell Heargraves una discreta corrispondenza, per altro ben nota. Recentemente, tuttavia, è stata ritrovata fra le carte del reverendo, una missiva indirizzata proprio ad Alice; tale lettera, che porta la data del 1 gennaio 1898, non fu mai spedita.

Alice carissima, ho davanti a me le fotografie che ti feci e ho qui alla mia destra il libro che porta il tuo nome: in quale di questi vi è più verità? Dimenticai per lungo tempo le fotografie in un cassetto e ritrovandole compresi che nascondevano un segreto. Io ti amavo, Alice, senza esserne consapevole. Ora lo sono, ma la mia vita ha raggiunto da tempo quel punto più alto da cui s’intravede soltanto la discesa e le mie stesse parole ed emozioni hanno assunto quelle forme consolidate e sicure che mi impediscono di parlarti come si conviene a una donna di cui si è innamorati. Fu soltanto un equivoco, dunque, a spingermi a scrivere i racconti che tu certo ricorderai, ma sapiente fu la mano che guidò la mia perché – se mi perdoni l’immodestia – il libro è degno dell’attenzione di cui comincia, finalmente, ad essere circondato.

Come sono ingenue, invece, queste fotografie! E quanto mi sbagliai pensando che in esse vi fosse dell’arte! Sono state scattate da un dilettante che ti costrinse ad assumere pose ridicole e un poco imbarazzanti, il cui significato recondito – peraltro – era allora ignoto a entrambi. Esse si sono vendicate di me a mia insaputa e ora mi stanno davanti come la prova ridicola di una colpa che non ebbi il tempo né la cognizione di commettere.

La vita mi ha lasciato, in cambio dell’auto inganno, agi e promesse di fama imperitura, seppure offuscata da sospetti infamanti; spero non abbia riservato a te l’altra metà dell’inganno ma che tu possa, invece, aver trovato quello che a me fu dato di scoprire troppo tardi.

Tuo affezionatissimo Charles Lutwidge Dodgson.

LE ESTRANEITÀ ELETTIVE: SECONDA PARTE.

Alice Liddell tenne un diario di cui solo recentemente si è venuti in possesso. Per gentile concessione dell’editore che ne sta curando la pubblicazione, anticipiamo una pagina di questo sorprendente documento.

10 Aprile 1902. Caro Lewis Carroll, dal giorno in cui lasciaste la nostra casa, ho pensato assiduamente a voi. Mia madre, allontanandovi da me, pensò di mettermi  al riparo da chissà quali abissi di perdizione. In realtà fece di voi un  gigante che crebbe tanto da occupare uno spazio considerevole nella mia vita interiore. Molto tempo è passato, ma soltanto ora (e me ne vergogno un po’), ho trovato la determinazione necessaria per rivolgermi a voi e svelarvi qualche segreto della mia vita.

Viaggio molto e sono diventata quella che agli occhi dei benpensanti pare una creatura inquietante e vagamente mostruosa: una donna emancipata. Mio marito non  ha retto e così sono stata costretta a lasciare la famiglia: non è stato facile per una donna di 50 anni ricominciare tutto daccapo! Dopo essermi dedicata allo studio della matematica la mia vita ha subito una svolta decisiva nel 1899. Da allora, infatti, seguo le teorie del Dott. Freud e dopo essere stata sua allieva, mi sono trasferita a Vienna dove ho iniziato a praticare io stessa la psicanalisi; disciplina che sono decisa ad introdurre anche nella nostra disgraziata Inghilterra. Dicono che abbia un talento particolare per questa professione; un poco – credo – lo devo anche a voi. Foste per me un secondo padre e forse fu proprio per avere sopportato un peso doppio rispetto alla generalità degli esseri umani, che si sviluppò in me una capacità quasi istintiva di penetrare i segreti pensieri e le angosce altrui. Tuttavia, ora che la mia vita volge verso la seconda metà e avverto l’urgenza di fare qualche bilancio, esso mi soddisfa ben poco. La mia ricchezza ed i miei agi crescono insieme alla folla di coloro che mi sono grati, ma sul risvolto di questa pagina dorata vedo precipitare la mia vita nella solitudine e la capacità di comprendere me stessa decrescere proporzionalmente ai miei successi. E così il saldo finisce per essere un numero  negativo che si scompone in cifre sempre più piccole  come  se, un pezzo dopo l’altro, parti di me si staccassero dal mio stesso corpo disperdendosi sull’uno o l’altro dei miei pazienti. Sento dire in giro che la capacità di comprendere tutto degli altri e nulla di se stessi e di coloro che sono più vicini, sia la malattia professionale degli psicanalisti. Ho letto Alice nel paese delle meraviglie, ma non mi ha fatto una grande impressione; questo, però, è un segreto fra me ed il diario che non turberà la fama crescente di cui il libro è circondato. Sono troppo vivide in me le immagini di voi che inventavate e raccontavate quelle storie! Al confronto, il romanzo mi sembra una pallida e sfocata trasposizione; tuttavia, a mia figlia piacque molto.

Apprendo dai giornali che mi scattaste altre fotografie oltre a quelle che già possiedo. Francamente non le ricordo e mi sembra alquanto strano; perché mai me le avreste fatte, poi? Non sarà l’ennesima invenzione giornalistica?

Vostra aff.ma Alice

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TI AMO

Edvard Munch, Amore e Psiche, 1907

ATTO UNICO

Personaggi: A e B.

La scena è un’ampia sala con annessa cucina. A e B entrano e iniziano i preparativi di un pranzo o cena, in silenzio. Dopo un po’ si sorridono scambiandosi un rapido bacio.

A:Ti amo.

B: Perché mi dici questo? In tono leggermente apprensivo.

A: Perché ti amo.

B:  Mi togli il fiato dicendolo così, adesso.

Intanto proseguono nei preparativi, tagliano della verdura, a volte insieme a volte disgiunti e continueranno a farlo durante l’intera rappresentazione.

A: Non capisco.

B: sono parole forti: che responsabilità sentirselo dire, dopo così poco tempo, non mi dai modo di difendermi.

A: è un mio atto di libertà poterlo dire, mi fa sentire bene.

B: vedi dunque che non c’entra nulla con l’amore? Ti fa sentire bene, ma mette in ansia me, è una piccola frase, ma talmente grande, che t’investe e pone nella condizione di non sapere cosa dire, a parte chi – solo per ansia – ti risponde anch’io (enfasi comica), come il cane di Pavlov. E poi non è un gesto, sono parole e le parole valgono di più.

A: diciamo che è un atto gratuito, allora; ma affermando che le parole valgono di più riconosci che non se ne può fare a meno.

B: Il linguaggio amoroso è il vero problema, le sue trappole, i suoi stereotipi. Del resto basta leggere gli epistolari di grandi scrittori e scrittrici: una noia mortale, se li paragoni ai dialoghi nelle loro opere.

A: Ma certo! Perché quando scrivono dei loro amori sono persone come tutti noi, esseri umani comuni con le loro debolezze, le loro ingenuità e persino stupidità.

B: Ma allora mi dai ragione! Se persino loro, così straordinari, così capaci di suscitare emozioni sulla carta, quando scrivono di sé e per sé sembrano dei cretini, pensa a noi che comuni lo siamo, che mai e poi mai potremmo pensare di avvicinarci alle loro altezze.

A: Ma l’amore è comune, persino banale e cretino a volte, un’operetta.

B: Sì, un’operetta che per futili ragioni rischia spesso di trasformarsi in una tragedia.

A: Oh, piantala con il tuo cinismo prèt a porter.

B: E dai era solo una battuta. Si scambiano di nuovo un bacio.

A: e poi esageri con gli epistolari, proprio tutti sono pieni di sciocchezze?       .

B: Forse tutti no, ma in questo momento me ne viene in mente uno solo: quello fra Abelardo ed Eloisa.

A: Dino e Sibilla no?

B: Ma dai, un profluvio di paroloni, una volontà di esagerare che si sovrappone al testo, tanto che a volte persino la sintassi diventa claudicante. Sono forzate quelle lettere, devono esibire l’amore!

A: In effetti non hai tutti i torti e la mia era una provocazione: ma perché proprio Eloisa e Abelardo?  

B: Nelle loro lettere, per come le ricordo, c’è lo sgomento della scoperta, il candore di una prima volta.

A: Perché quella magia non potrebbe ripetersi?

B: In astratto è possibile, ma nel loro caso lo era per le condizioni in cui avvenne l’incontro: straordinario, troppo straordinario. Ecco, forse soltanto gli incontri straordinari possono generare qualcosa di buono sul piano artistico. L’amore è sempre straordinario per chi lo vive, ma non come materia artistica.

A: Perché nel loro caso sì?

B: Due religiosi, un uomo e una donna che improvvisamente scoprono, ma anche s’interrogano, sull’eros e la sua natura, ne discutono la compatibilità o meno con il cristianesimo.

A: La pagarono cara entrambi, lui specialmente se non ricordo male.

B: Beh in un certo senso sì per la crudeltà con cui infierirono, ma anche lei pagò un prezzo altissimo. La cosa stupefacente è però il tempo che ci misero a condannarli. Un tempo incredibile se pensi alla loro condizione sacerdotale, non identica, ma insomma entrambi religiosi lo erano. Ci si aspetterebbe che in quattro e quattr’otto se ne fossero liberati e invece no.

A: E come te lo spieghi?

B: Mah, la mia è un’ipotesi, ma non l’ho mai ripensata più di tanto, ne parlo ora con te. Erano tempi in cui i dottori della chiesa riscoprivano la cultura greca, Aristotele, Platone: pensa a Tommaso d’Aquino.

A: Sì, ma cosa c’entrano loro due?

B: Ci arrivo. La riscoperta della cultura classica, della logica, della filosofia, aveva riaperto le porte su quel mondo dopo secoli di oblio e censura più o meno esplicita. Perché non riscoprire che vi era una via alla sapienza che passava dall’eros? Qualcuno forse si chiese se insieme alla logica aristotelica ci fosse qualcosa d’altro da recuperare da quel mondo.

A: Mi stai dicendo che di riscoperta in riscoperta si poteva andare lontano.

B: Più o meno sì, naturalmente la mia è un’ipotesi, ma come giustificare altrimenti il tempo che ci hanno messo a condannarli? Se fosse accaduto dopo sarebbero andati per le spicce.

A: o avrebbero coperto tutto.

B: Certo ed è un motivo d’interesse in più. Niente ipocrisia nel loro caso o doppia morale. Tutto è stato discusso alla luce del sole fino alla fine, naturalmente senza dimenticare i tempi. Non sto dicendo che fu un dibattito pubblico come i nostri televisivi, ma che per l’epoca tutto avvenne alla luce del sole.

A: E la conclusione fu terribile.

B: sì, ma anche la crudeltà di infierire sul corpo di Abelardo, se ci pensi, è comprensibile se la leggi in chiave di paura. Ne ebbero davvero tanta di paura e fu l’ultima volta in cui s’interrogarono sull’eros, forse perché capirono che era meglio non farlo. Meglio metterci una pietra sopra una volta per tutte.

A: Certo, non poteva che essere così. Riscoprire tutto il mondo greco voleva dire rimettere in circolo anche l’omosessualità e questo era davvero troppo per un gruppo maschile misogino e omofobico dove tutti sono vestiti da donna e si definiscono spose di Cristo! Un corto circuito vero e proprio!

Ridono entrambi.

B: E poi non sottovalutare Paolo.

A: di Tarso?

B: certo, il buon Saulo, persecutore di cristiani e omosessuale lui stesso. Due cose troppo pesanti per essere portate sulle spalle dopo la conversione. Come tutti gli ultimi arrivati era un fanatico e se ci metti l’omosessualità si raddoppia tutto: aveva troppo da farsi perdonare, altro che peccato originale!

A: accidenti, è interessante quello che dici, ma molto forte!

B: Ci conosciamo ancora poco, ma anche tu ne hai da dire di cose, ho letto sai quello che scrivi.

Si sorridono e si scambiano di nuovo un rapido bacio.

A: Da quel momento in poi sappiamo come è andata a finire, eros fuorigioco, cancellato, rimosso.

B: e le donne addirittura nemiche, il peccato e tutto il resto. L’epistolario di Eloisa e Abelardo per fortuna ci è arrivato, qualcuno non se l’è sentita di bruciarlo, sebbene facesse davvero paura.

A: Tu però, proprio ora, hai detto l’epistolario e non solo il gesto di amarsi: dunque anche per te le parole sono importanti. Non è che ne hai paura del linguaggio amoroso? O del linguaggio in quanto tale?   Sorridendo maliziosamente.

Sorride anche B e insieme mettono della verdura che hanno tagliato in una grande padella.

B: Ho paura degli stereotipi. Forse si può dire solo alla fine una frase del tipo ti ho amato o amata: è dopo che lo si sa.

A: quando è troppo tardi.

B: In che senso.

A: detto come lo hai espresso ora sembra che sia da poter dire solo in punto di morte.

B: o sul punto di lasciarsi.

A: Non è un po’ una morte anche quella?

B: Senza esagerare, dai. Sì, partire è un po’ morire e anche lasciare lo è, ma non esageriamo con le metafore, la vita continua anche dopo un amore finito, lo sappiamo anche noi.

A: essere lasciati se mai.

Accendono il fuoco sotto la padella delle verdure, uno dei due prende altro dal frigorifero.

B: Come? Vuoi dire entrambi?

A: Sì, a volte lasciare è più difficile che esserlo.

B: sì questo lo credo anch’io.

Prendono una tovaglia da un cassetto e la distendono sulla tavola, in silenzio. A aggrotta la fronte, B osserva poi riprende a parlare.

B: Stai pensando a qualcosa che non vuoi dirmi.

A: È vero, ma te lo dico subito. Pensavo agli indiani.

B sta portando due piatti in tavola ma si blocca di colpo.

B: Gli indiani? Che c’entrano?

A si avvicina, sorride, prende i due piatti e li depone sul tavolo: si scambiano un rapido bacio.

A: Non gli indiani dell’India ma quelli d’America, i popoli originari del nuovo mondo. Sai come si salutavano loro?

B: No.

A: Noi diciamo comunemente come va, come stai … loro, quando due s’incontravano chiedevano: Come sto?

B segue con attenzione aggrottando la fronte, intanto prende altri due piatti e li porta in tavola, poi si siede.

B: Forse comincio a capire. Solo chi mi vede può dire come sto?

A: Sì, questo intendevano; chi guarda vede tutto, almeno rispetto a te vede anche quello che tu non vedi, come lo dici, per esempio, lo sguardo, l’occhio, il volto tirato oppure solare, il colore della pelle, se qualcosa nell’inflessione della voce comunica allegria oppure disperazione o indifferenza.

B sorride poi:

B: Beh ci sono anche gli specchi.

A rimane un attimo con le posate in mano a pensare.

A: Forse non è la stessa cosa.

B: certo che non lo è e adesso ti racconto anch’io una leggenda, non ricordo se indiana o proveniente da altre culture.

A: guarda che non è una leggenda il modo di salutarsi, ci sono evidenze.

B: e dai, mi vuoi dire che la storia è fatta solo di evidenze?

Ridono entrambi, poi sistemano le posate in silenzio e vanno ai fornelli, controllano che tutto proceda e ritornano al tavolo.

B: la leggenda è questa. Se a notte, nel buio più totale ti metti davanti a uno specchio e ti guardi intensamente, ti sembra all’inizio di non vedere nulla, poi emerge la tua fisionomia come una pellicola che s’impressiona, però i tratti sono deformati e mutanti: se resisti e continui a guardare vedrai il volto del diavolo.

A: gli ortodossi dicono qualcosa di simile, che continuando a guardare un’icona a lungo nel buio, a un certo punto tu credi che sia l’icona a fissarti e non tu lei: certo loro non pensavano al diavolo. La tua leggenda però mi ha fatto venire in mente anche un dramma di Canetti.

Entrambi in silenzio si recano di nuovo a fornelli, poi A ritorna al tavolo e sistema per bene i bicchieri, i tovaglioli.

B: Canetti ha scritto anche per il teatro?

A: sì è la parte meno conosciuta della sua opera e forse una ragione c’è: non credo siano drammi rappresentabili, ma in questo degli specchi ha un’intuizione formidabile.

B segue il discorso continuando a occuparsi delle pentole ai fornelli.

A: Nel dramma, Canetti  immagina che gli specchi siano stati aboliti, nessuno può averne in casa e se non ricordo male il loro possesso è punito addirittura con sanzioni molto pesanti. Però il governo ha istituito delle case d’appuntamento, come i vecchi bordelli. Si entra, si paga, si accede a una stanza dove ci sono diversi tipi di specchi: naturalmente che visita sceglie anche quanto tempo restare.   

B scoppia a ridere, anche A si associa alla risata.

B: Canetti mi sorprende sempre.

A: Sì ha ragione, però adesso non so più bene dove siamo rimasti.

B si volta verso A dopo avere spento tutti i fornelli.

B: Siamo rimasti che qui è tutto pronto.

A si alza e va al frigorifero da cui prende una bottiglia di vino.

A: E che ci attende anche un grande vino.

B porta una pentola sul tavolo e ve la deposita, A stappa la bottiglia di Champagne. Si siedono e B riempie i bicchieri. Deposita la bottiglia e guarda A intensamente:

B: Ti amo?

A: Ti amo?

Sorridono poi i due bicchieri si toccano. Buio in sala.

Giovanni Busi detto Cariani (1485 ca./ 1547), Ritratto di due giovani uomini