WALLACE STEVENS: IL BARDO DELLA MENTE
Premessa
Lo studio che segue, dedicato al poeta statunitense Wallace Stevens, è il più lungo fra quelli già pubblicati in questo blog e dedicati a Marianne Moore e William Blake. A quello su Stevens seguirà infine il saggio su Eliot. Tutti insieme potrebbero formare un libro, ma essendo l’anglistica e l’americanistica italiane un mondo molto bloccato e inaccessibile a un outsider come me, ho deciso che non perderò ulteriore tempo nella ricerca inutile di un editore. Il saggio in questione, come i precedenti, può essere stampato da chi legge. Chiedo soltanto di essere citato qualora lo utilizziate per vostri scritti o riflessioni. Vista la lunghezza ho deciso di pubblicarlo per parti che saranno introdotte da una brevissima premessa come questa.
Introduzione
La fortuna di Wallace Stevens è cresciuta lentamente nel tempo. Schivo e aristocratico, egli mantenne rapporti cordiali, ma distaccati, con l’ambiente letterario e tale atteggiamento, in una società sovraesposta come quella statunitense, dove tutto tende a diventare spettacolo, fa di lui un raro esempio di mimetismo, seppure non così estremo come quello cui ricorsero i suoi contemporanei Jerome Salinger e Marianne Moore, con la quale il poeta intrattenne un interessante epistolario, rimasto per lungo tempo sconosciuto.
Quanto alla sua notorietà in Italia, dobbiamo considerare che vi è stato un asse privilegiato di lettura della poesia anglo-statunitense nel nostro paese, intorno al binomio Pound-Eliot. Tale coppia ha talmente dominato la scena che, per il pubblico che va oltre la cerchia degli specialisti, soltanto alcune altre opere si sono imposte; più qualche movimento letterario, ma per ragioni spesso estranee, almeno in parte, alla letteratura. È stato così per l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (anche per merito di Fabrizio De Andrè e di Fernanda Pivano), per la Beat Generation, per la letteratura afro-americana o per la coppia maledetta Silvia Plath-Anne Sexton. In un simile contesto non stupisce che poeti come Stevens e Moore, abbiano faticato a diventare visibili.
Le prime traduzioni di Stevens si trovano in antologie: nel 1949 in Poeti americani 1662-1945 di G. Baldini e in Poesia americana contemporanea di Carlo Izzo. Nel 1953, Renato Poggioli scrisse l’introduzione a Mattino domenicale che Einaudi avrebbe pubblicato l’anno successivo. Nello stesso libro, la nota critica di Guido Carboni costituisce un primo momento di riflessione sull’opera più simbolista scritta dal poeta. Tuttavia, pur importante, quel libro non suscitò un grande interesse e anche negli ambienti universitari italiani la sua opera rimase ai margini. I due maggiori critici italiani che si sono dedicati a lui, oltre ai già citati, sono Glauco Cambon e Massimo Bacigalupo, ma anche con loro si rimane all’interno di una cerchia ristretta di estimatori. Lo scenario cominciò a cambiare durante gli anni ’80, sia per Stevens, sia – in misura minore – per Marianne Moore grazie alla pubblicazione da parte di Adelphi, per la traduzione e la cura di Lina Angioletti, della sua opera omnia. Di Stevens, nel 1987 uscivano le Note sulla finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, per Arsenale editrice. L’edizione comprende anche un saggio assai importante della curatrice. Tale svolta culminò con la pubblicazione nel 1992 di Aurore d’autunno, sempre a cura e traduzione di Nadia Fusini e, nel 1994, di Harmonium nella collana I Millenni di Einaudi, a cura di Massimo Bacigalupo.1
Successivamente a questo periodo fortunato, Stevens è ritornato in un relativo oblio. Nel 2014, tuttavia, è stata pubblicata da Adelphi una nuova edizione delle Aurore d’autunno, sempre a cura e traduzione di Nadia Fusini, contenente anche alcune preziose lettere, aforismi e prese di posizione del poeta, tutte assai interessanti.
Uno dei grandi meriti di Stevens sta in questo: nel momento in cui l’inglese s’affermava sempre di più come lingua veicolare mondiale, subendo così un processo d’impoverimento sia nel restringimento del lessico, sia nella semplificazione delle strutture sintattiche, la sua lingua ampia e generosa ha dato un contributo fondamentale nel mantenerne la ricchezza, sottraendola a un destino di pura comunicazione: un merito analogo va riconosciuto a Marianne Moore e naturalmente a Eliot e a Pound.
L’importanza del poeta di Reading, tuttavia, travalica questo orizzonte. Se vi sono poeti importantissimi per la cultura e la lingua a cui appartengono e soltanto per quella, altri lo sono per un universo più ampio. Alcuni, pochissimi, riescono a superare tutti i confini e a imporsi come poeti trasversali alle lingue e alle culture. Stevens sta dentro questa esigua schiera e per rendersene conto basta scorrere l’indice del Wallace Stevens Journal, una meritoria impresa editoriale. L’interesse verso la sua poesia è vivissimo ovunque, la sua importanza – ancora relativamente poco cresciuta in senso verticale e cioè per numero di lettori – si è amplificata in senso orizzontale e nello spazio, tanto da coprire il mondo intero. Egli è uno dei pochissimi poeti del secolo scorso capaci di parlare a generazioni diverse e a latitudini così diverse. Per noi che apparteniamo non solo alla cultura italiana ma a quella occidentale in senso lato, la poesia di Stevens apre nuove prospettive, sia per la varietà di stili, metriche e figure retoriche di cui è pervasa, sia che si allarghi l’orizzonte fino ad abbracciare il valore conoscitivo e non soltanto estetico che la grande poesia possiede.
Sebbene l’appartenenza a un continente giovane come le Americhe non basti a spiegare la vastità degli orizzonti di Stevens, pur tuttavia essa ha il suo peso e lo si può riscontrare anche in altri autori, diversissimi da lui, ma che condividono con lui l’appartenenza a quel mondo di vasti spazi disabitati e popoli giovani. Jorge Luis Borges, parlando del rapporto con la tradizione, afferma che per un argentino essa coincide in un certo senso con la letteratura mondiale, non avendone una propria radicata in un lungo passato. Qualcosa di analogo lo afferma anche un altro poeta, assai diverso da Stevens: Derek Walcott. Ciò non significa negare le radici statunitensi di Stevens, che sono assai robuste, ma di vederle in un contesto in cui è normale per un americano (del nord come del sud), attingere ovunque quando si parla di tradizione: quello che muta è il modo in cui servirsene e Stevens, per esempio, lo fece in modo assai diverso rispetto a Pound e a Eliot.
Un fiore di serra vagamente profumato
Wallace Stevens nasce nel 1879 a Reading in Pensylvania e cioè in quella parte degli Stati Uniti d’America più legata alle origini inglesi e in senso lato europee.
I suoi studi di legge sono regolari, si laurea ad Harvard ed esercita l’avvocatura a New York dal 1916. Nel 1919 si trasferisce ad Hartford dove trascorrerà l’intera vita, a parte qualche viaggio, e dove morirà nel 1955; quest’ultima città, insieme a New York è il suo vero habitat.
Il periodo newyorchese fu decisivo per la sua formazione, nonostante la brevità della permanenza. A New York, peraltro, Stevens sarà sempre di casa, perché Hartford si trova a poca distanza dalla metropoli e il poeta ha sempre apprezzato la preziosa opportunità di poter vivere in un’appartata cittadina di provincia, ma vicina alla rutilante frenesia newyorchese.
Fu nella città atlantica (che non dobbiamo considerare, come oggi noi la viviamo e cioè come la capitale dell’Occidente, ma solo come una grande metropoli statunitense), che egli entrò in contatto con il mondo artistico e con la sua prima grande passione: la pittura. Anche dopo averla abbandonata, Stevens si considerò sempre un poeta della vista, come dirà anche nelle sue lezioni di poetica e l’arte pittorica ha una parte rilevante in tutto il suo percorso.
A New York frequenta il Greenwich Village e si traveste da dandy ironico, incline a prendersi in giro. Entra in contatto con l’espressionismo, l’avanguardia e con quell’atmosfera da bohème un po’ inventata e importata dalla Francia. Fin dagli esordi la sua presenza nel mondo artistico sembra distratta, ma sufficientemente attenta da fargli comprendere che l’ambiente del Greenwich non risponde alle sue esigenze d’autore. Nello stesso tempo studia profondamente il teatro giapponese, manifestando da subito una curiosità che si spinge oltre i confini della cultura occidentale.
Come poeta esordisce tardi e su rivista: precisamente nel 1914 quando ha già 35 anni. La sua prima raccolta pubblicata è Harmonium, nel 1923; dopo di essa un lungo silenzio che verrà rotto nel 1936 con la pubblicazione di Ideas of order. Un’ultima data vorrei ricordare: il 1919, anno in cui pubblica sulla rivista Poetry un testo decisivo per comprendere da quale nucleo tematico e problematico prende avvio la sua poesia: Anecdote of the jar.
In quale contesto letterario e culturale esordisce il poeta Stevens?
Gli intellettuali statunitensi più in vista di quegli anni sembrano appartenere tutti a un’unica schiera: si sentono orfani dell’Inghilterra, dell’Europa intera o dell’Africa, se sono di colore. Tendenzialmente ripudiano tutti, in modi più o meno netti, le loro radici statunitensi: o perché le sentono già tradite (è il caso di Pound), oppure perché si sentono sradicati in una nazione che non possiede una storia e tanto meno una storia culturale. Quanto ai neri, mai entrati nell’American dream, molti di loro sognano di ritornare nelle terre d’origine: l’intellettuale e militante politico di colore più autorevole in quegli anni, Du Bois, pensa che il ritorno in Africa sia il destino naturale della popolazione di colore. Un episodio illuminante può chiarire quanto sto dicendo ben più che le mie stesse parole. Quando nel 1916, il Governo degli Usa scelse momentaneamente la neutralità piuttosto che entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra, Henry James rifiutò la nazionalità americana e optò per quella inglese. In sostanza, dopo ben oltre cento anni dalla proclamazione dell’Indipendenza, il più grande romanziere statunitense del suo tempo si sentiva più inglese che statunitense! James è solo la punta dell’iceberg: Eliot, nato nel Missouri, scelse l’Inghilterra come patria letteraria d’adozione e lì nasceranno i suoi capolavori a cominciare dalla Waste Land, pubblicata nel 1922. Insieme a lui Pound, con l’aspirazione a una poesia universale, poi Hemingway perennemente in fuga dagli Usa e forse anche da se stesso. Infine l’ossessione erotico sentimentale di Henry Miller, che lo portò nei bordelli di Parigi come si ritorna a una grande madre. Tornando al discorso precedente sulla tradizione, o meglio sulle tradizioni, questa schiera sembra perseguire piuttosto un ritorno anche fisico alle origini europee, una sorta di nomadismo sradicato, una versione planetaria del flaneur urbano.
Opposta alla schiera degli orfani ce n’era un’altra in formazione ma ancora silente. Sarebbe esplosa più tardi e il suo esponente di primo piano sarebbe stato William Carlos Williams. È la schiera dei nativi, che rivendicano, a differenza dei primi, la loro appartenenza alla cultura statunitense. I maggiori interpreti, a parte Williams, sono perlopiù romanzieri: William Faulkner, John Dos Passos, John Steinbeck. Molti di loro, e non è un caso, vengono dal sud, perché in fondo è proprio nella terra dei Confederati sconfitti che gli umori profondi della società americana si sono formati: fra schiavismo e scontri razziali, ma anche nella lontananza culturale da New York, da Washington e dallo stato federale. Alcuni film memorabili – a parte Via col vento – hanno rappresentato assai bene tali atmosfere.2
Da quel crogiolo nasceranno opere come l’Urlo e Furore, di William Faulkner. Alcuni di quei romanzieri, specie durante la Guerra Fredda, saranno violentemente anti comunisti, tranne Steinbeck. Con il passare degli anni la schiera dei nativi si amplierà comprendendo anche autori neri come Gwendoleen Brooks e Countee Culllen; più vicini a noi nel tempo, la premio Nobel Tony Morrison, James Baldwin e Audre Lorde, sebbene – in questi ultimi due casi – sono i ghetti urbani del nord il setting delle loro opere.
Stevens era lontano sia dai nativi sia dai nomadici. Il suo esordio tardivo da un punto di vista editoriale è dovuto anche a questo sentirsi fuori posto. Per un poeta, l’habitat in cui depositare i propri versi è molto importante e l’isolamento può essere un’arma a doppio taglio. Nel caso del poeta di Hartford credo sia stata un’evenienza molto felice. Possiamo immaginare cosa volesse dire per un autore di lingua inglese pubblicare nel ‘23 la sua prima opera, un anno dopo l’uscita de La terra desolata di Eliot! Il rischio era quello di essere tacciati da epigoni, se troppo vicini a un poeta che era già considerato un maestro; oppure da ribelli sciocchi se troppo lontani da lui. Passare inosservato fu la forza di Stevens. Quando la critica cominciò ad accorgersi della sua opera, la raccolta Harmonium aveva già avuto il suo tempo per essere digerita e il poeta se n’era già andato per la propria strada. Stevens cominciava a essere visto, ma con una certa circospezione. Ho intitolato questa parte dell’introduzione alla sua opera con una battuta molto significativa che circolava su di lui. Proprio così veniva definito il poeta di Hartford: un fiore di serra vagamente profumato. 3
1 Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzioni di Massimo Bacigalupo, Giovanni Giudici, Glauco Cambon, Renato Poggioli, I Millenni, Einaudi editore, Torino 1994.
2 Ci sono molti film ambientati in quel mondo, alcuni dei quali tratti da romanzi classici come per esempio Il Buio oltre la siepe. Ne voglio ricordare solo uno, Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (Fried Green Tomatoes) diretto da Jon Avnet e anch’esso basato, ma in modo molto disinvolto, dal romanzo di Fannie Flag. Proprio perché non si tratta di un classico, con tutto l’alone anche mitico che circonda alcuni film e romanzi, questa pellicola del 1991, ambientata negli anni ’30, rappresenta molto bene il crogiolo sudista, dove l’aggettivo vuole indicare un complesso di umori e di sentimenti, piuttosto che una dimensione territoriale legata alla Guerra di Secessione.
3 L’espressione viene citata da Carboni, alla pagina 161 della sua nota critica alla ristampa di Mattino domenicale del 1988 per le edizioni Einaudi. Fu Harold Bloom a usarla, ma solo per riferirsi alla critica in generale; non di certo a sé medesimo, che di Stevens fu da subito un estimatore convinto: “l’immagine che di Stevens aveva l’accademia era quella di una sorta di squisito fiore di serra, vagamente profumato.”