RILKE – BRODSKJ – ORFEO
Premessa
Orfeo non era fra i miei miti più frequentati fino a che non ho letto un saggio di Brodskj, dedicato a una poesia di Rilke, un altro autore rispetto al quale mi ero sempre tenuto un po’ a distanza finché non l’ho incontrato in quella straordinaria avventura epistolare a tre – Settimo sogno – su cui ho già scritto in questo blog un saggio a cui rimando.1 La diffidenza rispetto a Rilke come a Orfeo riguardava più che altro la riproposizione dell’orfismo nel pieno della modernità. Era stato Apollinaire ad annunciare la nascita del cubismo orfico nel 1912. Dell’impresa facevano parte Delaunay, il gruppo di pittori del Blaue Reiter, Duchamp e addirittura i futuristi italiani e Léger! Secondo Apollinaire il carattere orfico del gruppo sarebbe consistito nel fare riferimento alla parte irrazionale dello spirito, con sconfinamenti nel magico. I testi in auge durante quegli anni erano, in poesia, Coup de dés di Mallarmé e per quanto riguarda la teoria o la filosofia, un libro scritto a sei mani da Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sebastien Voirol La poesia dell’oralità, dove si parla fra le altre cose del simultaneismo orfico. Con tutto ciò, a dire il vero, Rilke non ha nulla a che fare, anche se il nome di Orfeo è presente dall’inizio alla fine della sua opera. Peraltro, a un secolo di distanza, è pure arduo capire cosa potessero avere in comune Leger e i futuristi italiani (e anche quelli russi), se non una generica e comune attenzione alla civiltà industriale. Tuttavia, mentre Leger e i russi esaltavano l’operaio e lo mettevano al centro della fabbrica, i futuristi italiani vedevano solo nel macchinismo, nella velocità e nella tecnologia il cuore del processo. Allo stesso modo, l’associazione fra orfismo e poesia sonora stabilita dal simultaneismo è assai risibile: scambiare il ta ta ta ta ta futurista per una formula magico rituale orfica indica soltanto una grande confusione e superficialità, trattandosi semplicemente dell’imitazione del suono di una sequenza di spari. Tornando a Rilke, il suo orfismo andava cercato altrove e cioè negli aspetti esoterici della sua ricerca e il suo legame con i miti, come avevano messo in luce tutti gli studiosi che si erano occupati di lui, sia nella prima parte del ‘900 sia nella seconda: Furio Jesi fu lo studioso che più se ne occupò in Italia proprio in quegli anni. Tuttavia, Rilke rimane anche oggi una presenza sfuggente e infatti il suo curioso destino è sempre stato quello di essere molto osannato e al tempo stesso preso con le molle, tenuto un po’ a distanza, considerato oscuro; oppure oggetto di aneddoti che costituivano un alone di mistero intorno a lui. Questo saggio per la sua lunghezza sarà diviso in due parti. Nella prima mi occuperò prima di tutto del saggio di Brodskj, nella seconda del mito di Orfeo.
Parte prima: Il saggio di Brodskj
Il titolo del saggio di Brodskj, Novant’anni dopo, è tanto impegnativo da diventare rivelatore dell’importanza che il suo autore attribuisce al poemetto di Rilke, la cui stranezza si evidenzia a partire dal titolo: Orfeo, Euridice. Ermes
La virgola separa i due primi nomi, poi il segno di interpunzione: nulla dopo il terzo nome.1 L’interpretazione che Brodskj ne dà è semplice e convincente: Orfeo ed Euridice, in quanto appartenenti al mondo degli umani, sono esseri finiti, mentre Ermete essendo un dio è aperto all’infinità. Con questo titolo, tuttavia, Rilke sembra volerci dire anche qualcosa d’altro e cioè che non ha alcuna intenzione di attualizzare il mito, ma di tornarvi in senso letterale, senza porsi particolari interrogativi, per cui fin dall’inizio vuole farci intendere che non dobbiamo attenderci alcuna sorpresa: lui, come noi, sa già come andrà a finire. Questo poemetto è del 1904 ed è stata scritto quando Rilke non era ancora diventato tale. Spesso ci dimentichiamo che un poeta o uno scrittore non sono gli stessi prima e dopo certe opere: vale per Dante con la Commedia, per Leopardi con L’infinito; vale in misura minore anche per Rilke. In quell’anno egli è un giovane poeta come tanti altri, ramingo per l’Europa: un flaneur un po’ fuori tempo massimo che prende per la coda uno dei vezzi più comuni agli artisti e intellettuali centro e nordeuropei del ‘700 e dell’800: il Grand Tour. Il motivo ispiratore occasionale del testo sembra essere stato un bassorilievo visto in un museo di Napoli, in cui sono scolpite tre figure ripiegate su se stesse: Orfeo, Euridice ed Ermete. Non è chiaro in quale occasione o passaggio delle lettere o altro, Rilke abbia accennato a tale bassorilievo. Forse Brodskj ne parla come di un proprio ricordo, perché pure lui non indica la fonte e a leggere il testo pare persino che abbia dato credito a qualcosa che gli è stato raccontato. Tutto questo, a ben vedere, è molto rilkiano perché il poeta boemo era noto per cancellare o lasciare nel vago le fonti delle sue ispirazioni e persino le sue letture. Le lettere spedite a Lou Salomé dall’Italia proprio in quel periodo non aiutano, così come non aiutano in altri casi. Peraltro, Brodskj nega che esista un rapporto di qualche importanza fra il bassorilievo e la poesia e inizia la sua analisi con una lunga premessa con la quale vuole escludere qualsiasi riferimento personale alla base di questo testo. Tuttavia nel parlare di una fuga dalla biografia, egli usa un’espressione assai ambigua e in molte altre parti della sua acutissima analisi del testo rilkiano, gli accenni a possibili elementi biografici non mancheranno; il che fa supporre, se mai, una ritrosia a parlarne, ma anche l’impossibilità di negarli. Del resto, se sono così labili le tracce di questo bassorilievo, perché mai dedicarvi tanto spazio per poi negarne l’importanza? Bisogna considerare che Brodskj, anche in altri saggi, insiste sulla necessità di non ricercare elementi biografici o altro in un testo poetico, dichiarando più volte (cito a memoria) che quando la metafora è riuscita non occorre altro. Vero, ma fino a un certo punto: la sua insistenza eccessiva sembra fatta apposta per suggerire il contrario e l’espressione fuga dalla biografia può essere letta come il segno evidente di un motivo ispiratore molto forte e assai personale, tanto personale che si potrebbe addirittura pensare alla faccenda del bassorilievo come a una voluta opera di depistaggio messa in atto da Rilke medesimo.
Il poemetto inizia quando Orfeo, già disceso nell’Ade, sta risalendo insieme a Euridice e a Ermes che li accompagna:
Era la prodigiosa miniera delle anime./Come vene d’argento silenziose/scorrevano il suo buio. Tra radici/ sgorgava il sangue che affluisce agli uomini/e greve come porfido appariva nel buio./Di rosso altro non c’era.//Rupi c’erano, selve incorporee e ponti sul vuoto/e quell’enorme, grigio, cieco stagno,/sospeso sopra il suo lontano fondo/come cielo piovoso su un paesaggio./E in mezzo a prati miti di pazienza,/pallida striscia, un unico sentiero era visibile/come una lunga tela distesa ad imbiancare.//E per quest’unico sentiero essi venivano.2
Siamo dunque in medias res, ma il mito non inizia da quel momento, se non altro per la banale considerazione che Euridice prima di essere morta è stata viva e nell’Ade non c’è andata di sua volontà. L’affermarsi di un’interpretazione, oppure il riferirsi solo a parti di un mito ha certamente le sue ragioni; ciononostante, non va dimenticato che si tratta pur sempre di visioni parziali che, se non vengono più sottoposte da lungo tempo a un vaglio critico, rischiano di diventare altrettanti stereotipi. Inoltre, il mito è stato più e più volte rivisitato, riattualizzato, setacciato, interpretato da altri scrittori, musicisti, pittori. Per rimanere solo al ‘900 italiano basterà ricordare Pavese nei Dialoghi con Leucò. La ricchezza e la complessità di questo mito, mettono chiunque ne voglia parlare e scrivere di fronte a un compito assai arduo. Inoltre, sebbene il momento in cui Orfeo si volta sia uno dei passaggi chiave, rimane pur vero che ce ne sono altri, per esempio l’inizio della storia e ciò che provoca la morte di Euridice; ma ancor più stupisce che Rilke, a differenza di quasi tutti coloro che nella storia se ne sono occupati, non sembra dare particolare rilevanza neppure a quel momento. Lo abbiamo visto a cominciare dal titolo, ma sarà ancora più evidente in alcuni versi su cui anche Brodskj si sofferma a lungo:
Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,/i due. Se per un attimo/gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare/non fosse la rovina dell’intera sua opera/prima del compimento)/li vedrebbe i silenziosi due che lo seguivano:…
L’accenno alla necessità di non voltarsi è messa fra parentesi, come se fosse scontato per l’uditorio che legge il suo testo; lo è, tutti sappiamo – lo ripeto – come va a finire la storia, ma si mette fra parentesi anche ciò che non è rilevante, come nota anche Brodskj, seppure dando un’interpretazione della mossa compiuta da Rilke diversa. Invece, credo che chiunque abbia udito questa narrazione la prima volta (nel mio caso fu in un’aula scolastica), arrivato alla fine si sia chiesto perché mai Orfeo si fosse voltato, visto che era la sola cosa che non doveva fare! Tuttavia, sembra che a Rilke tale domanda non interessi e in fondo anche il bassorilievo di Napoli non se ne cura: esso infatti riproduce le tre figure nel momento in cui si avviano per il sentiero di risalita. Di questo bassorilievo, peraltro, esistono diverse copie e anche altri miti vengono raffigurati in queste tavolette che sono anche l’imitazione di pezzi antichi e autentici ritrovati a Pompei: uno famosissimo è quello che riproduce l’immagine di una fanciulla che diventerà la Gradiva, un altro personaggio che all’inizio del ‘900 ha occupato le fantasie di Jensen e specialmente di Freud. L’immagine di Euridice ricorda assai quella della Gradiva e tutto questo rimanda a un immaginario popolare e al tempo stesso ingenuamente classicista. Brodskj vede nel segno grafico della parentesi entro la quale il poeta boemo accenna al divieto di voltarsi imposto a Orfeo dagli dei, un segno di attenzione nei confronti del lettore e forse di ironia: un ricordargli la storia, in sostanza. Anch’egli afferma subito dopo che ciò che si mette fra parentesi è anche qualcosa cui non si dà importanza ma nell’economia della sua critica Brodskj privilegia la versione di un avvertimento fornito al lettore. Credo invece che la ragione forte sia la prima: Rilke mette fra parentesi l’accenno al divieto perché per lui non è quello il motivo che lo ha spinto a scrivere il suo testo. Inoltre: è davvero realistico pensare che un lettore di Rilke nel 1904 e negli anni successivi, avesse bisogno di ricordare il divieto? La parentesi serve a Rilke per ribadire che non è quello per lui il momento topico del mito. Per giungere al passaggio che gli sta a cuore, il poeta ha ancora bisogno di tempo, deve girare un po’ al largo, caratterizzare tutti i personaggi, ma specialmente deve ritardare il momento in cui il testo lo porterà ad attraversare un passaggio particolarmente difficile; i versi che precedono servono anche a tenere quel momento, finché si può, lontano da sé. La parte centrale del poemetto ha questo scopo e Brodskj l’analizza puntualmente mettendo in evidenza la bellezza e le immagini davvero uniche di questa poesia, specialmente quando descrive Euridice, come si muove, le sue espressioni, il suo corpo. Il momento topico arriva con questi versi che seguono e che introducono un elemento di differenziazione che è proprio l’apporto che Rilke dà alla rilettura del mito. Insieme a essi riporto anche quelli immediatamente precedenti, che completano la descrizione di Euridice:
…/Era già sciolta come lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra/e divisa come un retaggio in cento/E quando all’improvviso/il dio la fermò e con dolore/pronunciò le parole Si è voltato! – lei non comprese e disse piano: Chi?/
Il monosillabo sussurrato da Euridice a Ermete risuona a lungo nelle orecchie di un lettore, anche di quello silenzioso; sebbene sussurrato sembra aprirsi in chi legge in un urlo senza fine. Anche Brodskj sottolinea l’importanza di questo passaggio che fa balzare sulla sedia, ma l’interpretazione che ne dà non mi convince e suona come un indoramento della pillola. Riconosce che in esso emerge qualcosa di personale e profondo che Rilke tradurrebbe nell’esperienza dell’estraniamento romantico, di cui, il chi sussurrato da Euridice sarebbe la metafora riuscita. Per spiegarlo meglio Brodskj ricorre a un aneddoto: immagina che un uomo (e uso il termine in senso parziale perché a mio avviso Brodskj aveva in mente un soggetto maschile forse perché penso che una donna non si comporterebbe così), passando per caso davanti alla casa di una ex che sia stata importante nella sua vita, venga preso dalla tentazione di suonare il citofono e di presentarsi con il proprio nome e di udire dall’altra parte la persona che fu la nostra compagna risponderci – dopo un momento di smarrimento – con un laconico: Chi? Brodskj afferma che se ci capitasse un’esperienza del genere capiremmo di essere stati sostituiti. Non concordo. Rilke in questo passaggio mette in scena ben altro e non ha in mente un accadimento in fondo così minore, anche se non abbiamo indizi ma solo supposizioni su quale sia il retroterra personale sullo sfondo del poemetto. Se ci capitasse un’esperienza come quella descritta da Brodskj, se mai, verremmo colpiti nel nostro narcisismo secondario e basta; ma se quel chi fosse l’eco di qualcosa di più profondo e fosse risuonato nelle orecchie di Rilke perché legato a un’ossessione che lo ha costantemente accompagnato per tutta vita – la ricerca spasmodica delle sue origini – quel chi avrebbe un altro significato: non capiremmo semplicemente di essere stati sostituiti, ma di essere morti per l’altro o l’altra che abbiamo interpellato, di non esserci più, addirittura di non esserci – forse – mai stati. Rilke mette veramente in scena qualcosa di nuovo e di diverso, che afferra allo stomaco e al cuore, nonostante che la scelta, felicissima sul piano poetico, abbia tuttavia anche degli aspetti paradossali, se ci fermassimo al teatrino. Perché Rilke sa che Euridice è già morta, lo ha descritto con accenti di straordinario struggimento e bellezza in versi precedenti questi e sui quali Brodskj ha scritto pagine mirabili cui nulla vi è da aggiungere. Perché allora fare parlare una defunta che per di più si rivolge a un dio, cosa che è vietata dal pantheon classico? La spiegazione che Rilke può farlo perché è un moderno e addirittura forse già un post moderno non convince per nulla. Non vi è in questo testo niente di postmoderno, la sua grandezza è dovuta in buona parte proprio a tale assenza. Rilke può farlo perché non rilegge il mito secondo il canone letterale e tradizionale delle sue interpretazioni correnti, ma vi introduce un elemento del tutto nuovo: il dolore che mette in scena non è quello di chi ha subito una perdita, o è stato sostituito, ma quello inspiegabile e definitivo di chi è stato perduto o non riconosciuto e nemmeno accolto nel mondo. La poesia però non finisce qui e non poneva finire qui: sarebbe stato concluderla con un colpo di teatro, con una battuta geniale ma – questa sì – postmoderna; ma ciò presupporrebbe un’intenzionalità diversa, parodiare il mito, che non era l’intento di Rilke. Perciò la poesia necessita di uno scioglimento che avviene con questi versi:
/Ma lassù scuro all’uscita chiara,/stava qualcuno, irriconoscibile./Stava e guardava un tratto del sentiero/in mezzo ai prati dove il dio del messaggio/si voltava in silenzio, mesto in viso,/e si avviava a seguire la figura/che già ripercorreva quel sentiero,/con il passo frenato dalle bende,/incerta mite e senza impazienza./
Il tono è dolente, il tutto finisce in una lunga scia che si attenua e ricorda certi struggenti finali wagneriani. Appare però un nuovo personaggio, che Rilke nei suoi versi decide di non nominare direttamente, ma solo tramite l’aggettivo irriconoscibile. In realtà è riconoscibilissimo e lo sa anche il poeta. Brodskj si chiede se avesse potuto nominarlo direttamente: in teoria sì, ma c’erano almeno tre buone ragioni per non farlo. Prima di tutto una citazione diretta sarebbe suonata troppo didascalica; in secondo luogo perché il lettore può capire da solo di chi si tratta. Per la terza ragione bisogna passare attraverso una domanda che la precede e cioè chiedersi se Rilke non avrebbe fatto meglio a non nominarlo del tutto. La risposta sta nel primo verso della parte finale, ma lassù all’uscita chiara. Rilke si è già congedato dalla scena e considera il finale come il compiersi oggettivo e impassibile del fato, da un lato; dall’altro, egli vede le cose dal punto di vista di Orfeo, ma non nel senso di un’immedesimazione diretta, diciamo psicologica nel personaggio, ma semplicemente oggettiva e realistica. Tornando alla luce dall’Ade, Orfeo ne è abbagliato e non può vedere il qualcuno scuro che sta in alto – Crono – il dio che sintonizza gli orologi che scandiscono un tempo diverso per i vivi e i morti. Orfeo ed Euridice andavano fin dall’inizio in due direzioni opposte, era solo un’illusione di Orfeo che tutti e due stessero davvero andando verso la luce e la vita e quando Crono ha fatto scattare il meccanismo del tempo, si sono trovati l’uno di fronte all’altra; oppure – come ipotizza Brodskj, Crono li ha fatti voltare tutti due contemporaneamente. A conclusione di questa parte ricordo di nuovo l’inizio del saggio di Brodskj e il suo titolo impegnativo: Novant’anni dopo. La spiegazione di tale scelta è il poeta russo medesimo a darcela e a leggerla essa suona un’ovvia conseguenza del titolo stesso:
“Era il 1904 quando Rainer Maria Rilke scrisse Orfeo. Euridice. Ermes, e qualcuno può domandarsi se la più grande opera di questo secolo non fu creata novant’anni fa.” (ndr: il saggio di Brodskj fu scritto nel 1994)
L’iperbole usata da Brodskj è accettabile, anche perché il poeta non ignora di certo quanto sia difficile stabilire delle graduatorie in questo campo, ma essa può essere accolta senz’altro non solo come iperbole ma anche nella sua parziale verità. Tuttavia, nell’affermazione di cui sopra vi è una seconda parte nascosta, che Brodskj non credo avrebbe sottoscritto una volta resa esplicita e la cui responsabilità dunque è tutta mia. Il titolo del saggio, che il poeta russo lo volesse o meno, contiene un po’ di veleno nella coda e avendo a che fare con un mito in cui una parte rilevante ce l’ha anche il morso di una serpe, forse la cosa vale la pena di notarla. Dire che questa è la più grande poesia del ‘900, significa anche affermare che quanto Rilke ha scritto dopo e cioè le Elegie duinesi e il Sonetti a Orfeo, sono opere inferiori rispetto a questa. Faccio mia senza riserve tale ipotesi. Orfeo, Euridice. Ermes chiude a mio giudizio la stagione del Rilke poeta e ne apre un’altra: quella del letterato erudito e grande illusionista. Tuttavia, poiché un poeta può rimanere ed essere decisivo anche per avere scritto una sola poesia, Rilke, grazie a questo testo, merita anche l’iperbole di Brodskj, forse con una leggera aggiunta: è la più grande poesia del ‘900 secondo i canoni di una poetica. Del resto il poeta boemo, in uno dei non frequenti momenti in cui ha lasciato delle vere tracce di sé e non dei depistaggi, ha ammonito il lettore e il critico della sua poesia con queste parole che cito a memoria: Guardate che io sono l’ultimo di una lunga schiera. La schiera cui allude è quella dei poeti orfici, ma nel dirlo Rilke dimostra anche di avere avuto quanto meno la consapevolezza che essere l’ultimo potrebbe anche voler dire, oltre che esserlo in ordine di tempo, che la miniera è stata scavata a lungo, che l’oro rimasto è poco, che non si può pensare che l’orfismo possa rinascere nella sua pienezza, che le poetiche sono necessarie come punto di partenza, ma che in definitiva un poeta è tale se poi è capace o meno di apportarvi del nuovo; altrimenti si cade nella ripetizione. È quanto avviene dopo, specialmente nei Sonetti a Orfeo, che sono, rispetto al poemetto del 1904, pura letteratura erudita, o addirittura come scrisse Giovanni Papini in un articolo del Corriere della Sera del 1954: “trappolerie più pretenziose che preziose.”
1 Il saggio s’intitola Rilke – Cvetaeva – Pasternak e si trova nella rubrica Amori letterari del blog.
1 Josip Brodskj. Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1995, pp. 207-67.
2 Il testo in questione si trova nel libro di Brodskj, in coda al suo saggio, ma è reperibile facilmente anche in rete.