RILKE – BRODSKJ – ORFEO

Bassorilievo napoletano: Orfeo, Euridice, Eermete

Premessa

Orfeo non era fra i miei miti più frequentati fino a che non ho letto un saggio di Brodskj, dedicato a una poesia di Rilke, un altro autore rispetto al quale mi ero sempre tenuto un po’ a distanza finché non l’ho incontrato in quella straordinaria avventura epistolare a tre – Settimo sogno –  su cui ho già scritto in questo blog un saggio a cui rimando.1 La diffidenza rispetto a Rilke come a Orfeo riguardava più che altro la riproposizione dell’orfismo nel pieno della modernità. Era stato Apollinaire ad annunciare la nascita del cubismo orfico nel 1912. Dell’impresa facevano parte Delaunay, il gruppo di pittori del Blaue Reiter, Duchamp e addirittura i futuristi italiani e Léger! Secondo Apollinaire il carattere orfico del gruppo sarebbe consistito nel fare riferimento alla parte irrazionale dello spirito, con sconfinamenti nel magico. I testi in auge durante quegli anni erano, in poesia, Coup de dés di Mallarmé e per quanto riguarda la teoria o la filosofia, un libro scritto a sei mani da Henri Martin Barzun, Fernand Divoire e Sebastien Voirol La poesia dell’oralità, dove si parla fra le altre cose del simultaneismo orfico. Con tutto ciò, a dire il vero, Rilke non ha nulla a che fare, anche se il nome di Orfeo è presente dall’inizio alla fine della sua opera. Peraltro, a un secolo di distanza, è pure arduo capire cosa potessero avere in comune Leger e i futuristi italiani (e anche quelli russi), se non una generica e comune attenzione alla civiltà industriale. Tuttavia, mentre Leger e i russi esaltavano l’operaio e lo mettevano al centro della fabbrica, i futuristi italiani vedevano solo nel macchinismo, nella velocità e nella tecnologia il cuore del processo. Allo stesso modo, l’associazione fra orfismo e poesia sonora stabilita dal simultaneismo è assai risibile: scambiare il ta ta ta ta ta futurista per una formula magico rituale orfica indica soltanto una grande confusione e superficialità, trattandosi semplicemente dell’imitazione del suono di una sequenza di spari. Tornando a Rilke, il suo orfismo andava cercato altrove e cioè negli aspetti esoterici della sua ricerca e il suo legame con i miti, come avevano messo in luce tutti gli studiosi che si erano occupati di lui, sia nella prima parte del ‘900 sia nella seconda: Furio Jesi fu lo studioso che più se ne occupò in Italia proprio in quegli anni. Tuttavia, Rilke rimane anche oggi una presenza sfuggente e infatti il suo curioso destino è sempre stato quello di essere molto osannato e al tempo stesso preso con le molle, tenuto un po’ a distanza, considerato oscuro; oppure oggetto di aneddoti che costituivano un alone di mistero intorno a lui. Questo saggio per la sua lunghezza sarà diviso in due parti. Nella prima mi occuperò prima di tutto del saggio di Brodskj, nella seconda del mito di Orfeo.

Parte prima: Il saggio di Brodskj

Il titolo del saggio di Brodskj, Novant’anni dopo, è tanto impegnativo da diventare rivelatore dell’importanza che il suo autore attribuisce al poemetto di Rilke, la cui stranezza si evidenzia a partire dal titolo: Orfeo, Euridice. Ermes

La virgola separa i due primi nomi, poi il segno di interpunzione: nulla dopo il terzo nome.1 L’interpretazione che Brodskj ne dà è semplice e convincente: Orfeo ed Euridice, in quanto appartenenti al mondo degli umani, sono esseri finiti, mentre Ermete essendo un dio è aperto all’infinità. Con questo titolo, tuttavia, Rilke sembra volerci dire anche qualcosa d’altro e cioè che non ha alcuna intenzione di attualizzare il mito, ma di tornarvi in senso letterale, senza porsi particolari interrogativi, per cui fin dall’inizio vuole farci intendere che non dobbiamo attenderci alcuna sorpresa: lui, come noi, sa già come andrà a finire. Questo poemetto è del 1904 ed è stata scritto quando Rilke non era ancora diventato tale. Spesso ci dimentichiamo che un poeta o uno scrittore non sono gli stessi prima e dopo certe opere: vale per Dante con la Commedia, per Leopardi con L’infinito; vale in misura minore anche per Rilke. In quell’anno egli è un giovane poeta come tanti altri, ramingo per l’Europa: un flaneur un po’ fuori tempo massimo che prende per la coda uno dei vezzi più comuni agli artisti e intellettuali centro e nordeuropei del ‘700 e dell’800: il Grand Tour. Il motivo ispiratore occasionale del testo sembra essere stato un bassorilievo visto in un museo di Napoli, in cui sono scolpite tre figure ripiegate su se stesse: Orfeo, Euridice ed Ermete. Non è chiaro in quale occasione o passaggio delle lettere o altro, Rilke abbia accennato a tale bassorilievo. Forse Brodskj ne parla come di un proprio ricordo, perché pure lui non indica la fonte e a leggere il testo pare persino che abbia dato credito a qualcosa che gli è stato raccontato. Tutto questo, a ben vedere, è molto rilkiano perché il poeta boemo era noto per cancellare o lasciare nel vago le fonti delle sue ispirazioni e persino le sue letture. Le lettere spedite a Lou Salomé dall’Italia proprio in quel periodo non aiutano, così come non aiutano in altri casi. Peraltro, Brodskj nega che esista un rapporto di qualche importanza fra il bassorilievo e la poesia e inizia la sua analisi con una lunga premessa con la quale vuole escludere qualsiasi riferimento personale alla base di questo testo. Tuttavia nel parlare di una fuga dalla biografia, egli usa un’espressione assai ambigua e in molte altre parti della sua acutissima analisi del testo rilkiano, gli accenni a possibili elementi biografici non mancheranno; il che fa supporre, se mai, una ritrosia a parlarne, ma anche l’impossibilità di negarli. Del resto, se sono così labili le tracce di questo bassorilievo, perché mai dedicarvi tanto spazio per poi negarne l’importanza? Bisogna considerare che Brodskj, anche in altri saggi, insiste sulla necessità di non ricercare elementi biografici o altro in un testo poetico, dichiarando più volte (cito a memoria) che quando la metafora è riuscita non occorre altro. Vero, ma fino a un certo punto: la sua insistenza eccessiva sembra fatta apposta per suggerire il contrario e l’espressione fuga dalla biografia può essere letta come il segno evidente di un motivo ispiratore molto forte e assai personale, tanto personale che si potrebbe addirittura pensare alla faccenda del bassorilievo come a una voluta opera di depistaggio messa in atto da Rilke medesimo.

Il poemetto inizia quando Orfeo, già disceso nell’Ade, sta risalendo insieme a Euridice e a Ermes che li accompagna:

Era la prodigiosa miniera delle anime./Come vene d’argento silenziose/scorrevano il suo buio. Tra radici/ sgorgava il sangue che affluisce agli uomini/e greve come porfido appariva nel buio./Di rosso altro non c’era.//Rupi c’erano, selve incorporee e ponti sul vuoto/e quell’enorme, grigio, cieco stagno,/sospeso sopra il suo lontano fondo/come cielo piovoso su un paesaggio./E in mezzo a prati miti di pazienza,/pallida striscia, un unico sentiero era visibile/come una lunga tela distesa ad imbiancare.//E per quest’unico sentiero essi venivano.2

Siamo dunque in medias res, ma il mito non inizia da quel momento, se non altro per la banale considerazione che Euridice prima di essere morta è stata viva e nell’Ade non c’è andata di sua volontà. L’affermarsi di un’interpretazione, oppure il riferirsi solo a parti di un mito ha certamente le sue ragioni; ciononostante, non va dimenticato che si tratta pur sempre di visioni parziali che, se non vengono più sottoposte da lungo tempo a un vaglio critico, rischiano di diventare altrettanti stereotipi. Inoltre, il mito è stato più e più volte rivisitato, riattualizzato, setacciato, interpretato da altri scrittori, musicisti, pittori. Per rimanere solo al ‘900 italiano basterà ricordare Pavese nei Dialoghi con Leucò. La ricchezza e la complessità di questo mito, mettono chiunque ne voglia parlare e scrivere di fronte a un compito assai arduo. Inoltre, sebbene il momento in cui Orfeo si volta sia uno dei passaggi chiave, rimane pur vero che ce ne sono altri, per esempio l’inizio della storia e ciò che provoca la morte di Euridice; ma ancor più stupisce che Rilke, a differenza di quasi tutti coloro che nella storia se ne sono occupati, non sembra dare particolare rilevanza neppure a quel momento. Lo abbiamo visto a cominciare dal titolo, ma sarà ancora più evidente in alcuni versi su cui anche Brodskj si sofferma a lungo:

Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,/i due. Se per un attimo/gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare/non fosse la rovina dell’intera sua opera/prima del compimento)/li vedrebbe i silenziosi due che lo seguivano:…

L’accenno alla necessità di non voltarsi è messa fra parentesi, come se fosse scontato per l’uditorio che legge il suo testo; lo è, tutti sappiamo – lo ripeto – come va a finire la storia, ma si mette fra parentesi anche ciò che non è rilevante, come nota anche Brodskj, seppure dando un’interpretazione della mossa compiuta da Rilke diversa. Invece, credo che chiunque abbia udito questa narrazione la prima volta (nel mio caso fu in un’aula scolastica), arrivato alla fine si sia chiesto perché mai Orfeo si fosse voltato, visto che era la sola cosa che non doveva fare! Tuttavia, sembra che a Rilke tale domanda non interessi e in fondo anche il bassorilievo di Napoli non se ne cura: esso infatti riproduce le tre figure nel momento in cui si avviano per il sentiero di risalita. Di questo bassorilievo, peraltro, esistono diverse copie e anche altri miti vengono raffigurati in queste tavolette che sono anche l’imitazione di pezzi antichi e autentici ritrovati a Pompei: uno famosissimo è quello che riproduce l’immagine di una fanciulla che diventerà la Gradiva, un altro personaggio che all’inizio del ‘900 ha occupato le fantasie di Jensen e specialmente di Freud. L’immagine di Euridice ricorda assai quella della Gradiva e tutto questo rimanda a un immaginario popolare e al tempo stesso ingenuamente classicista. Brodskj vede nel segno grafico della parentesi entro la quale il poeta boemo accenna al divieto di voltarsi imposto a Orfeo dagli dei, un segno di attenzione nei confronti del lettore e forse di ironia: un ricordargli la storia, in sostanza. Anch’egli afferma subito dopo che ciò che si mette fra parentesi è anche qualcosa cui non si dà importanza ma nell’economia della sua critica Brodskj privilegia la versione di un avvertimento fornito al lettore. Credo invece che la ragione forte sia la prima: Rilke mette fra parentesi l’accenno al divieto perché per lui non è quello il motivo che lo ha spinto a scrivere il suo testo. Inoltre: è davvero realistico pensare che un lettore di Rilke nel 1904 e negli anni successivi, avesse bisogno di ricordare il divieto? La parentesi serve a Rilke per ribadire che non è quello per lui il momento topico del mito. Per giungere al passaggio che gli sta a cuore, il poeta ha ancora bisogno di tempo, deve girare un po’ al largo, caratterizzare tutti i personaggi, ma specialmente deve ritardare il momento in cui il testo lo porterà ad attraversare un passaggio particolarmente difficile; i versi che precedono servono anche a tenere quel momento, finché si può, lontano da sé. La parte centrale del poemetto ha questo scopo e Brodskj l’analizza puntualmente mettendo in evidenza la bellezza e le immagini davvero uniche di questa poesia, specialmente quando descrive Euridice, come si muove, le sue espressioni, il suo corpo. Il momento topico arriva con questi versi che seguono e che introducono un elemento di differenziazione che è proprio l’apporto che Rilke dà alla rilettura del mito. Insieme a essi riporto anche quelli immediatamente precedenti, che completano la descrizione di Euridice:

…/Era già sciolta come lunga chioma/e già dispersa come pioggia in terra/e divisa come un retaggio in cento/E quando all’improvviso/il dio la fermò e con dolore/pronunciò le parole Si è voltato! – lei non comprese e disse piano: Chi?/

Il monosillabo sussurrato da Euridice a Ermete risuona a lungo nelle orecchie di un lettore, anche di quello silenzioso; sebbene sussurrato sembra aprirsi in chi legge in un urlo senza fine. Anche Brodskj sottolinea l’importanza di questo passaggio che fa balzare sulla sedia, ma l’interpretazione che ne dà non mi convince e suona come un indoramento della pillola. Riconosce che in esso emerge qualcosa di personale e profondo che Rilke tradurrebbe nell’esperienza dell’estraniamento romantico, di cui, il chi sussurrato da Euridice sarebbe la metafora riuscita. Per spiegarlo meglio Brodskj ricorre a un aneddoto: immagina che un uomo (e uso il termine in senso parziale perché a mio avviso Brodskj aveva in mente un soggetto maschile forse perché penso che una donna non si comporterebbe così), passando per caso davanti alla casa di una ex che sia stata importante nella sua vita, venga preso dalla tentazione di suonare il citofono e di presentarsi con il proprio nome e di udire dall’altra parte la persona che fu la nostra compagna risponderci – dopo un momento di smarrimento – con un laconico: Chi? Brodskj afferma che se ci capitasse un’esperienza del genere capiremmo di essere stati sostituiti. Non concordo. Rilke in questo passaggio mette in scena ben altro e non ha in mente un accadimento in fondo così minore, anche se non abbiamo indizi ma solo supposizioni su quale sia il retroterra personale sullo sfondo del poemetto. Se ci capitasse un’esperienza come quella descritta da Brodskj, se mai, verremmo colpiti nel nostro narcisismo secondario e basta; ma se quel chi fosse l’eco di qualcosa di più profondo e fosse risuonato nelle orecchie di Rilke perché legato a un’ossessione che lo ha costantemente accompagnato per tutta vita – la ricerca spasmodica delle sue origini – quel chi avrebbe un altro significato: non capiremmo semplicemente di essere stati sostituiti, ma di essere morti per l’altro o l’altra che abbiamo interpellato, di non esserci più, addirittura di non esserci – forse – mai stati. Rilke mette veramente in scena qualcosa di nuovo e di diverso, che afferra allo stomaco e al cuore, nonostante che la scelta, felicissima sul piano poetico, abbia tuttavia anche degli aspetti paradossali, se ci fermassimo al teatrino. Perché Rilke sa che Euridice è già morta, lo ha descritto con accenti di straordinario struggimento e bellezza in versi precedenti questi e sui quali Brodskj ha scritto pagine mirabili cui nulla vi è da aggiungere. Perché allora fare parlare una defunta che per di più si rivolge a un dio, cosa che è vietata dal pantheon classico? La spiegazione che Rilke può farlo perché è un moderno e addirittura forse già un post moderno non convince per nulla. Non vi è in questo testo niente di postmoderno, la sua grandezza è dovuta in buona parte proprio a tale assenza. Rilke può farlo perché non rilegge il mito secondo il canone letterale e tradizionale delle sue interpretazioni correnti, ma vi introduce un elemento del tutto nuovo: il dolore che mette in scena non è quello di chi ha subito una perdita, o è stato sostituito, ma quello inspiegabile e definitivo di chi è stato perduto o non riconosciuto e nemmeno accolto nel mondo. La poesia però non finisce qui e non poneva finire qui: sarebbe stato concluderla con un colpo di teatro, con una battuta geniale ma – questa sì – postmoderna; ma ciò presupporrebbe un’intenzionalità diversa, parodiare il mito, che non era l’intento di Rilke. Perciò la poesia necessita di uno scioglimento che avviene con questi versi:

/Ma lassù scuro all’uscita chiara,/stava qualcuno, irriconoscibile./Stava e guardava un tratto del sentiero/in mezzo ai prati dove il dio del messaggio/si voltava in silenzio, mesto in viso,/e si avviava a seguire la figura/che già ripercorreva quel sentiero,/con il passo frenato dalle bende,/incerta mite e senza impazienza./

Il tono è dolente, il tutto finisce in una lunga scia che si attenua e ricorda certi struggenti finali wagneriani. Appare però un nuovo personaggio, che Rilke nei suoi versi decide di non nominare direttamente, ma solo tramite l’aggettivo irriconoscibile. In realtà è riconoscibilissimo e lo sa anche il poeta. Brodskj si chiede se avesse potuto nominarlo direttamente: in teoria sì, ma c’erano almeno tre buone ragioni per non farlo. Prima di tutto una citazione diretta sarebbe suonata troppo didascalica; in secondo luogo perché il lettore può capire da solo di chi si tratta. Per la terza ragione bisogna passare attraverso una domanda che la precede e cioè chiedersi se Rilke non avrebbe fatto meglio a non nominarlo del tutto. La risposta sta nel primo verso della parte finale, ma lassù all’uscita chiara. Rilke si è già congedato dalla scena e considera il finale come il compiersi oggettivo e impassibile del fato, da un lato; dall’altro, egli vede le cose dal punto di vista di Orfeo, ma non nel senso di un’immedesimazione diretta, diciamo psicologica nel personaggio, ma semplicemente oggettiva e realistica. Tornando alla luce dall’Ade, Orfeo ne è abbagliato e non può vedere il qualcuno scuro che sta in alto – Crono – il dio che sintonizza gli orologi che scandiscono un tempo diverso per i vivi e i morti. Orfeo ed Euridice andavano fin dall’inizio in due direzioni opposte, era solo un’illusione di Orfeo che tutti e due stessero davvero andando verso la luce e la vita e quando Crono ha fatto scattare il meccanismo del tempo, si sono trovati l’uno di fronte all’altra; oppure – come ipotizza Brodskj, Crono li ha fatti voltare tutti due contemporaneamente. A conclusione di questa parte ricordo di nuovo l’inizio del saggio di Brodskj e il suo titolo impegnativo: Novant’anni dopo. La spiegazione di tale scelta è il poeta russo medesimo a darcela e a leggerla essa suona un’ovvia conseguenza del titolo stesso:

Era il 1904 quando Rainer Maria Rilke scrisse Orfeo. Euridice. Ermes, e qualcuno può domandarsi se la più grande opera di questo secolo non fu creata novant’anni fa.” (ndr: il saggio di Brodskj fu scritto nel 1994)

L’iperbole usata da Brodskj è accettabile, anche perché il poeta non ignora di certo quanto sia difficile stabilire delle graduatorie in questo campo, ma essa può essere accolta senz’altro non solo come iperbole ma anche nella sua parziale verità. Tuttavia, nell’affermazione di cui sopra vi è una seconda parte nascosta, che Brodskj non credo avrebbe sottoscritto una volta resa esplicita e la cui responsabilità dunque è tutta mia. Il titolo del saggio, che il poeta russo lo volesse o meno, contiene un po’ di veleno nella coda e avendo a che fare con un mito in cui una parte rilevante ce l’ha anche il morso di una serpe, forse la cosa vale la pena di notarla. Dire che questa è la più grande poesia del ‘900, significa anche affermare che quanto Rilke ha scritto dopo e cioè le Elegie duinesi e il Sonetti a Orfeo, sono opere inferiori rispetto a questa. Faccio mia senza riserve tale ipotesi. Orfeo, Euridice. Ermes chiude a mio giudizio la stagione del Rilke poeta e ne apre un’altra: quella del letterato erudito e grande illusionista. Tuttavia, poiché un poeta può rimanere ed essere decisivo anche per avere scritto una sola poesia, Rilke, grazie a questo testo, merita anche l’iperbole di Brodskj, forse con una leggera aggiunta: è la più grande poesia del ‘900 secondo i canoni di una poetica. Del resto il poeta boemo, in uno dei non frequenti momenti in cui ha lasciato delle vere tracce di sé e non dei depistaggi, ha ammonito il lettore e il critico della sua poesia con queste parole che cito a memoria: Guardate che io sono l’ultimo di una lunga schiera. La schiera cui allude è quella dei poeti orfici, ma nel dirlo Rilke dimostra anche di avere avuto quanto meno la consapevolezza che essere l’ultimo potrebbe anche voler dire, oltre che esserlo in ordine di tempo, che la miniera è stata scavata a lungo, che l’oro rimasto è poco, che non si può pensare che l’orfismo possa rinascere nella sua pienezza, che le poetiche sono necessarie come punto di partenza, ma che in definitiva un poeta è tale se poi è capace o meno di apportarvi del nuovo; altrimenti si cade nella ripetizione. È quanto avviene dopo, specialmente nei Sonetti a Orfeo, che sono, rispetto al poemetto del 1904, pura letteratura erudita, o addirittura come scrisse Giovanni Papini in un articolo del Corriere della Sera del 1954: “trappolerie più pretenziose che preziose.”


1 Il saggio s’intitola Rilke – Cvetaeva – Pasternak e si trova nella rubrica Amori letterari del blog.

1 Josip Brodskj. Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1995, pp. 207-67.

2 Il testo in questione si trova nel libro di Brodskj, in coda al suo saggio, ma è reperibile facilmente anche in rete.

RILKE – CVETAEVA – PASTERNAK

Rilke ritratto da Leonid Pasterenak

Introduzione

Il settimo sogno è un originale canzoniere amoroso in forma prosastica ed epistolare, in cui la commistione fra amour passion e amour de loinh è la cifra stilistica che lo contraddistingue e che rimanda all’analisi che Denis de Rougemont fa dell’archetipo che secondo lui è alla radice della concezione occidentale del sentimento amoroso: Tristano e Isotta.1 La forma particolare e originale del legame a tre fra Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke sta nel fatto che non si sono mai incontrati e che la loro tormentata e tormentosa relazione vive tutta sulla carta scritta, nel loro pensiero e sfera emotiva.2 Questo è il teatrino, a volte drammatico, a volte comico e in qualche caso miserevole, che peraltro contraddistingue la grande maggioranza degli epistolari amorosi che coinvolgono le vite di scrittori e artisti, tanto bravi e straordinari quando mettono i loro personaggi al centro di dialoghi e situazioni, tanto banalmente comuni quando diventano loro stessi i personaggi. Va da sé, inoltre, che esso è scritto da tre personalità fuori dall’ordinario. In ognuno di loro vi è qualcosa di abnorme: prima di tutto il perseguimento di un ideale romantico in cui arte e vita sono fusi insieme. A tale modello si sottrarrà Pasternak nel tempo della sua seconda vita artistica, Rilke morirà prima di poterlo fare, Cvetaeva vi soccomberà. Anche il 1926 ha la sua importanza, perché fu un anno emblematico nelle vite dei tre protagonisti. Rilke morì il 29 dicembre di quell’anno, Pasternak rinunciò definitivamente al progetto di raggiungere Cvetaeva in Francia; quest’ultima avrebbe poco dopo chiuso la sua stagione poetica. Il 1926, tuttavia, fu un anno cruciale anche per l’Urss e l’intera Europa, anche se gli effetti delle svolte in atto si sarebbero manifestati in modo tragico alcuni anni dopo. In Italia, il Fascismo si era ormai consolidato al potere dopo la crisi seguita all’assassinio di Matteotti e il varo delle leggi fascistissime nel biennio 1925-26. In Germania, la possibilità di una rivoluzione proletaria nella quale avevano sperato i bolscevichi al potere, era tramontata per la seconda volta nel 1923, mentre in Urss finiva il decennio eroico della Rivoluzione Bolscevica. Nell’anno successivo, quello del decennale, Stalin trionferà sui suoi oppositori interni al partito. Rivisti oggi sullo sfondo di queste vicende, i 4 mesi febbrili durante i quali l’epistolario prende forma appaiono come un tramonto boreale nel cuore di un’Europa che andava a rapidi passi in altre direzioni e verso nuove e più immani tragedie.

Le lettere del 1926

Premessa.

Da queste occorre partire e cercherò di farlo come se l’insieme di questa corrispondenza fosse una sorta di partitura teatrale che ha un prologo, uno sviluppo tematico che avviene in due momenti, separati da due intermezzi; infine l’epilogo tragico. Il tutto avviene in un arco di tempo talmente breve e concentrato, da poter dire che in fondo e del tutto casualmente, persino le unità di tempo e azione vengono rispettate; in un certo senso anche l’unità di luogo, visto che il mancato incontro finisce per proiettare nei testi medesimi il luogo per eccellenza in cui tutto avviene. 

Il prologo

Il 12 aprile, dopo l’esortazione ricevuta da suo padre Leonid, mentore occulto di questa triangolazione così particolare, Boris Pasternak scrive a Rilke una lettera piena di ammirazione.  Fra le altre cose, lo scrittore, che sa delle difficoltà in cui si dibatte Marina Cvetaeva a Parigi, lo mette al corrente della stima profonda che anche la poeta russa nutre per lui e lo invita a mandarle una copia delle Elegie duinesi. Infine, gli suggerisce di rispondergli tramite lei stessa oppure il padre Leonid. L’intento di Pasternak è duplice e molto concreto: dal momento che non esistevano rapporti diplomatici fra l’Urss e la Svizzera (dove Rilke risiedeva), la corrispondenza diretta era assai difficile: con Marina si sarebbe aperto dunque un secondo canale di facile comunicazione, dal momento che fra Urss e Francia esistevano normali rapporti diplomatici. In un’altra lettera, indirizzata questa volta a Marina, Boris dice di essere finalmente in grado di partire e di volerla raggiungere in Francia per poi recarsi insieme da Rilke. Il 3 maggio quest’ultimo scrive a Cvetaeva una lettera molto deferente, nella quale parla anche di Pasternak in termini lusinghieri. Cvetaeva risponde a Rilke il 9 maggio e a Pasternak (che le aveva inviato nel frattempo altre due lettere in data 20 aprile e 5 maggio), il 22. L’esaltazione di Pasternak per Cvetaeva cresce: è una passione che a volte si rivolge maggiormente alla poeta altre volte alla donna, in uno scambio fiammeggiante, confuso e simbiotico fra vita e arte. A questa esplosione di sentimenti lei non oppone un rifiuto, ma un atteggiamento che tende a lasciarli decantare. La lettera del 3 maggio di Rilke a Cvetaeva, è uno scritto assai deferente e formale nella sua prima parte. Si rivolge alla poeta con il Voi e, esaudendo la richiesta di Pasternak, le invia due copie delle sue ultime pubblicazioni, aggiungendo poi che presto ne invierà altre due per Pasternak : “se la censura li lascerà passare.

Poi aggiunge:

Sono così commosso dalla forza delle sue parole (di Pasternak ndr.), che oggi non riesco a scrivere più nulla, ma mandate il foglio qui accluso da parte mia, al Vostro amico di Mosca. In segno di saluto.”3

La lettera prosegue ricordando il suo viaggio in Russia di molti anni prima e l’amicizia con Leonid Pasternak. Poi accenna al suo soggiorno a Parigi durante l’anno precedente, dove alcuni amici gli avevano mostrato le poesie di Boris. Subito dopo, però, il tono usato da Rilke cambia repentinamente e tale mutazione pone fine al prologo.

Arte e vita

Ma perché – mi chiedo, perché non mi è riuscito allora d’incontraVi, Marina Ivanova Cvetaieva? Adesso, dopo la lettera di Boris Pasternak, credo che quell’incontro avrebbe potuto dare a entrambi, una profondissima, segreta, felicità. Potremo mai rimediare?”

La curatrice italiana del testo, Serena Vitale individua nell’aggettivo segreta e nella prontezza con cui Cvetaieva ne afferra il significato il “tragico leitmotiv dei loro rapporto.”4  

La lettera di risposta del 9 maggio è divisa a sua volta in due parti. Nella prima Cvetaieva, come aveva fatto anche Pasternak, dichiara immediatamente il suo debito letterario nei confronti di Rilke: 

Rainer Maria Rilke posso chiamarVi così? Ma Voi, poesia fatta carne, dovreste sapere…  che il Vostro nome non fa rima con la modernità… Viene dal passato o dal futuro, o da lontano...”

Dopo altre espressioni entusiastiche nei suoi confronti, scrive:

Non parlo dell’uomo Rilke (l’uomo è ciò cui siamo condannati!), ma del Rilke spirito che è anche più del poeta, è lui che io chiamo Rilke.”5

La lettera prosegue su questo tono fino al punto in cui affronta di petto il tema del loro mancato incontro:

Perché non sono venuta da Voi? Perché vi amo più di ogni altra cosa al mondo. È semplicissimo. E perché voi non mi conoscete. … E ancora, per voi sarò sempre una russa, …. C’è qui tutta la complessità della nostra troppo originale nazione: tutto ciò che in noi – il nostro Io – gli europei considerano russo… Lo stesso succede da noi con i cinesi, i giapponesi …” 6

La frase, di cui avevo già citato l’ultima parte, vista nel contesto della corrispondenza, assume altre valenze rispetto a quelle già indicate. Rilke, nella sua lettera, si attribuiva la responsabilità del mancato incontro: era una forma di gentilezza e di cavalleria, oppure lo pensava veramente? Fatto sta che, al contrario, Cvetaeva attribuisce a una propria scelta e al suo carattere russo il loro mancato incontro; sembra quasi che lei voglia metterlo in guardia rispetto a una complessità che forse all’altro sfugge. Infine, come va inteso quel Vi amo dopo ciò che aveva scritto prima rispetto all’uomo Rilke contrapposto al poeta e allo spirito? Dobbiamo prenderlo alla lettera oppure leggerlo come un esempio del romantico intrecciarsi fra amour passion e amour de loinh, o una metafora rivolta al poeta e non all’uomo?

In ogni caso, se Rilke avesse pensato a un incontro segreto fra loro due, la frase che segue sembra chiudere le porte a una tale possibilità:

Rainer Maria, nulla è perduto: l’anno prossimo (1927) arriverà Boris e verremo da voi, ovunque voi siate…

Tutto chiaro? Neppure per sogno perché alla fine di questa lettera ecco cosa scrive Cvetaeva:

Ho letto la tua lettera sulla riva dell’oceano e l’oceano leggeva con me….  Non ti disturba che lui l’abbia letta? Non ci saranno altri. Sono troppo gelosa (Gelosia – di te.).”7

La gelosia si riferisce solo al poeta o anche all’uomo? Perché ribadire una cosa che dovrebbe essere ovvia e cioè che nessun altro, se non l’oceano, leggerà le lettere che si scambiano loro due? Gli vuole far sapere, fra le righe, che non ne parlerà con Pasternàk? Le contraddizioni e i cambi di registro sono continui e, a volte, anche la sintassi sembra colta da un accesso di furore. Tale tumultuoso avvicendarsi di sentimenti che cozzano gli uni con gli altri, peraltro, è tipico di tutto il carteggio. La risposta di Rilke è del 10 maggio e questo fa sorgere il dubbio iniziale che egli abbia scritto prima di avere ricevuto quella di Marina, che è stata iniziata il giorno 9, ma completata il 10 e spedita quel giorno. Le apparenze ancora una volta ingannano, ma è anche evidente che uno dei due ha sbagliato a scrivere la data. Ecco come Rilke inizia la sua lettera del 10:

Marina, possibile che un attimo fa non foste qui? Oppure: dove ero io? Perché oggi … è soltanto il 10 maggio ed è strano che voi abbiate scritto questa data prima delle ultime righe della Vostra lettera… Voi pensate di avere ricevuto i miei libri il 10 (aprendo la porta come sfogliando le pagine) … ma proprio questo stesso giorno, il decimo di maggio, questo eterno giorno delle spirito, io ti ho accolto Marina, con tutta l’anima ,… sconvolta da te e dalla tua apparizione, quasi che il tuo oceano, che insieme a te leggeva, mi si fosse rovesciato addosso in un enorme flusso del cuore.

Non è davvero facile raccapezzarsi nel mezzo di questo linguaggio, ma due cose sembrano evidenti: Rilke aveva già letto la lettera di Cvetaieva, visto il suo accenno all’oceano, anche se rimane incerta la data di spedizione perché non può essere stata spedita e arrivata nel medesimo giorno: in questo profluvio di alti sentimenti sembra a volte che le lettere arrivino prima di essere state scritte! Nessun accenno a quel ti amo di Marina; anzi tutta la lettera si sintonizza sul tono usato da Cvetaieva. Siamo dentro la metafora, si sta parlando di un rapporto fra anime secondo i canoni più stringenti dell’amour de loinh. Serena Vitale ha ragione quando individua lo scorrere di un tragico leit motiv fra le righe di tutta la loro corrispondenza, ma forse tale tragicità sta in altro. Avviandosi alla conclusione, infatti, ecco come Rilke ritorna su un argomento toccato da Cvetaieva:

Ma stiamo parlando non dell’uomo Rilke e io stesso oggi sono in rotta con lui e con il suo corpo, con il quale prima riuscivo sempre a raggiungere un accordo così totale che spesso non capivo più chi di noi due fosse il poeta: …ma adesso l’anima è vestita in un modo e il corpo in un altro”.8

Quest’ultima parte della lettera, ancora una volta a tono, chiarisce forse definitivamente, che non vi è nessuna delusione dell’uomo Rilke il quale ha capito benissimo il significato di quel ti amo, almeno fino a questo punto della corrispondenza: ma le cose sono destinate a cambiare. Forse, nelle sue parole però, vi è qualcosa d’altro. Quando parla del proprio corpo con il quale si sente in rotta sta usando una metafora, oppure sta cercando di comunicarle qualcosa di più drammatico? Nella debordante lettera successiva, del 12 maggio, Cvetaieva parla d’altro e per un lungo tratto non è facile capire se le sia già arrivata la risposta di lui; lo si vedrà solo alla fine. Lo scritto è un lungo, disordinato e velocissimo viaggio nella poesia di Rilke, nel quale giudizi fulminanti si alternano a divagazioni non sempre facili da seguire, come quando scrive:

tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)

Il centro del suo interesse, in questo scritto, sono proprio i Sonetti a Orfeo, più che non le Elegie:

Sono due notti che sprofondo nel tuo Orfeo...”

Dalla parte finale, si evince tuttavia che Cvetaieva non ha ancora ricevuto la lettera di lui perché si riferisce alla dedica contenuta in una lettera precedente.

Ci sfioriamo, con cosa? Con le ali...”

Commentando questo passaggio della dedica la poeta russa scrive:

Rainer, Rainer, tu mi hai detto questo senza conoscermi, come un cieco (veggente!). Le migliori frecce sono cieche… è arrivata adesso la tua lettera. Per la mia è ora di partire.

La freccia cui si allude non sarà per caso quella di Cupido? Lasciamo per il momento la cosa in sospeso. Il 13 maggio Cvetaieva scrive un’altra lettera, nella quale affronta tutti i temi che Rilke aveva ripreso qui e là in quella del dieci. Essa inizia con una citazione tratta da una delle elegie e subito dopo così prosegue:

E dunque: in modo assolutamente umano e con molta modestia: l’uomo Rilke. Ho scritto e mi si inceppava la lingua. Amo il poeta e non l’uomo. (Adesso sarai tu leggendo a incepparti.) Suona in modo estetico, cioè privo di anima, non spirituale,  (gli esteti sono quelli che non hanno anima ma solo cinque sensi… affilati…Posso scegliere io? Quando amo non posso e non voglio scegliere… Tu sei l’Assoluto. Finché non mi innamorerò di te (finché non ti conoscerò), giacché non ho nessun rapporto con te (non conosco la tua merce!) … No, Rainer, non sono una collezionista, amo l’uomo Rilke, giacché è lui che porta il poeta. Quando dico l’uomo Rilke, penso a quello che vive, che pubblica i suoi libri… penso alla moltitudine dei rapporti umani. Parlando dell’uomo Rilke penso a quella cosa per cui per me non c’è posto. Per questo tutto quanto ho detto dell’uomo e del poeta è puro rifiuto, rinuncia, perché non voglio che tu pensi che io voglia intromettermi nella tua vita… Il rifiuto per non dover poi soffrire.9

In questa lettera ci sono anche dei passaggi imbarazzanti: cosa significa la parola merce in tale contesto? Certi altri sembrano viziati da fraintendimenti assai seri (Rilke l’ha forse accusata, di essere una collezionista (di uomini immagino volesse dire. ndr)? L’ambivalenza viene riproposta continuamente a ogni paragrafo e la conclusione di una parte di questa lunga lettera suona così:

Caro, io sono molto obbediente. Se mi dirai: non scrivere, le tue lettere mi agitano, servo molto a me stesso – io capirò e sopporterò tutto”.10

Cosa ci fosse nelle precedenti lettere di Rilke che potesse farle scrivere una frase come questa non è chiaro; oppure è lei ad avere paura di continuare il carteggio e ancor più dei suoi sentimenti che stanno cambiando? Da questo momento in poi la lettera parla d’altro, con salti velocissimi da un argomento all’altro, senza una logica apparente che li tenga insieme. Sarebbe sbagliato tuttavia, notare solo questo perché, se si mettono l’una accanto all’altra tali affermazioni rapide e perentorie con altre di differenti lettere, il ritratto che Marina vuole dare di sé  ne esce ben delineato nei suoi tratti essenziali. Il suo parlare distratto e lontano da quella che comunemente si definisce realtà è in lei costante, così come l’affastellare, in una medesima frase, elementi disparati e casuali. Josip Brodskj in un saggio scritto su di lei dal titolo Nota in calce a una poesia ne fa un ritratto quanto mai acuto, in cui afferma fra l’altro:

… Per Cvetaeva la realtà è sempre un punto di partenza, mai di arrivo … Perciò si possono, specialmente in una lettera, affastellare gli elementi più disparati perché accomunati da un sentimento di sprezzatura nei loro confronti, che non concede alcuna rilevanza alle loro differenze.”11

Su questa osservazione di Brodskj, si chiude questo primo momento di sviluppo, cui seguono due intermezzi.

Primo intermezzo: l’amante

E Pasternak? Lo abbiamo lasciato in attesa delle risposte di Rilke, che non arrivano, e anche di altre lettere di Cvetaeva (e non arrivano pure quelle). Il 18 maggio, finalmente, riceve il famoso biglietto dedicato a lui e che il poeta boemo aveva messo nella lettera indirizzata a Marina e questo lo riempie di gioia: lo conserverà gelosamente per tutta la vita. Il 19 scrive a Cvetaeva.

Ieri ho ricevuto la tua trascrizione delle sue parole: il tangibile silenzio della tua mano. Non sapevo che una scrittura prediletta, tacendosi, potesse sollevare una simile musica funebre.”

La sensibilità di Pasternak è qui notevole, sebbene non dica all’inizio qual è il nucleo della sua delusione. Nel finale emerge il punto dolente: 

Io avevo pensato, se la sua risposta sarà acclusa alla lettera con la tua decisione, obbedirò soltanto alla mia impazienza, non a te né all’altra mia volontà. Ed è veramente bello che in quel momento voi due foste separati. Ma il fatto che tu ti sia separata da lui una seconda volta che insieme a lui sei arrivata non tu ma solo la tua mano, mi ha sconvolto e spaventato. Tranquillizzami… Marina.” 12

Contorto di certo, ma decifrabile. In sostanza Pasternak ha il sospetto che fra Cvetaeva e Rilke sia nata una corrispondenza che lo mette da parte. Cosa significa però quell’accenno al fatto che anche lei si sia separata da lui (da Rilke) una seconda volta? La lettera che Cvetaeva gli spedisce il 22,13 a prima vista, sembra una risposta a quella di lui del 19, ma le cose non stanno così e questo sarà fonte di equivoci a non finire. Nella prima parte, lo scritto è pieno di osservazioni come sempre rapidissime sui versi di Pasternak, poi continua con riflessioni che toccano i medesimi argomenti che Boris aveva trattato nella sua del 19. Tuttavia, poiché non è una risposta a quella di lui ma una riflessione autonoma, le argomentazioni di Marina assumono, agli occhi di Boris, dei significati in parte diversi rispetto a quelli che noi lettori onniscienti siamo nella condizione di capire meglio. Dopo avere ricordato quello che Pasternak le aveva scritto in una lettera di molto precedente: “Che cosa faremmo noi due se ci incontrassimo? Andremmo da Rilke“, Cvetaeva scrive:

“… Ma io ti dirò che Rilke è troppo preso, che non gli serve niente, nessuno… Rilke è un eremita, … Rilke ha superato Eckermann, non ha bisogno di intermediari fra Dio e il suo secondo Faust… Da lui sento soffiare su di me l’estremo gelo di chi possiede, e nei cui possedimenti, io, e a priori rientro...” Ohibò!14

Questo gruppo di lettere, a partire da quella del 19, è importantissimo perché solleveranno una montagna di fraintendimenti. Tuttavia, se pensiamo alla delusione profonda di Pasternak e alla sensazione di essere stato messo da parte, seppure non del tutto volontariamente, egli non si sbaglia affatto! La sua deduzione è indipendente dagli equivoci e dai fraintendimenti; questi ultimi, se mai, sono un’aggravante che aggroviglia ancora di più il suo vissuto e lo fa dubitare della limpidezza di Marina. Anche chi legge può avere qualche sospetto sulle reali intenzioni di Cvetaeva: si è davvero separata da Rilke una seconda volta, oppure sta cercando di convincere Pasternak a non cercare la relazione con il poeta perché vuole averne lei l’esclusiva?

Ho la vaga sensazione che tu mi stia allontanando da lui. E poiché io tenevo tutto insieme, questo significa che tu ti stai allontanando da me, anche se non nomini direttamente il tuo movimento.”

Seguono ampie dissertazioni letterarie, ma nella parte finale, ritorna sul tema dolente del rapporto fra loro tre in questo modo:

A Rilke adesso non scrivo. Lo amo non meno di te, mi dispiace che tu non lo sappiaCome mai non ti è venuto in mente di trascrivermi le dediche che ti ha fatto sui libri e in genere come è andata, ma anche delle lettere. C’eri tu al centro dell’esplosione, e di colpo ti sei fatta da parte.”15

Le gelosie che provoca l’amour de loinh sono terribili perché affollate di fantasmi! Il 23 maggio Cvetaieva risponde finalmente alla lettera di Pasternak del 19. Inizia con una lunga serie di divagazioni famigliari, poi il punto dolente emerge improvviso e rapido prima di approfondirsi:

Boris ti scrivo lettere sbagliate.”

Seguono altre divagazione e poi un discorso sul mare che lei non ama, che sembra essere una metafora letteraria per dire altro.  Verso la fine arriva al punto:

A Rilke non scrivo, è una tortura troppo grande. Mi fa perdere il filo mi distrae dalle poesie. Come trattare uno che è diventato il tesoro dei Nibelunghi? A lui non serve. E a me fa male. Non sono meno grande di lui (nel futuro) ma sono più giovane.”

Il 25 maggio, dopo avere ricevuto la lettera di Pasternàk, ne scrive subito un’altra in cui lo rimprovera di mettere se stesso davanti a tutto, ma non nega affatto la corrispondenza a due che c’è stata fra lei e Rilke; ma una frase nel finale che sembra escludere ogni nuovo contatto:

Di Rilke. Ti ho già scritto di lui. A lui non scrivo Adesso ho la pace della perdita totale – del suo volto divino – del rifiuto…”16

Si può pensare, leggendo la frase di cui sopra, che lei stia davvero ingannando Boris, tacendogli che la corrispondenza fra lei e Rilke non si è mai interrotta, ma ancora una volta i fatti smentiranno tale interpretazione. Nel momento in cui lei scrive della perdita totale e del rifiuto, Marina è convinta di quello che scrive, ma era caduta in un colossale equivoco, come si vedrà. Pasternak, peraltro, ha nel frattempo del tutto metabolizzato l’impossibilità di una relazione a tre: da un amore travolgente, nel giro di pochi giorni, si passa all’indifferenza. Come in Tristano e Isotta, quando i due non si cercano più, senza che se ne capisca fino in fondo la ragione:

Ti ringrazio calorosamente per tutto. Cancellami per qualche tempo dalla tua coscienza – per un paio di settimane ma non per più di un mese… Tra l’altro fino ad oggi non ho ringraziato Rilke per la sua benedizione. Dovrò rimandare anche questo...”17

Secondo intermezzo: l’equivoco.

Nella lettera del 17 maggio. Rilke aveva scritto a un certo punto:

Marina cara, tutto ciò riguarda me. Scusami… se di colpo smetterò di informarti di ciò che mi succede, tu devi scrivermi lo stesso ogni volta che avrai voglia di volare.”

La lettera si conclude così:

A non spedirti la mia foto del passaporto non mi ha costretto la vanità, ma la coscienza di quanto questa istantanea fosse casuale (anche una fotografia deve essere un Assoluto, perbacco! ndr), però l’ho messa accanto alla tua: abituarsi alla vicinanza dapprima sulla fotografia, d’accordo?”18

Potenza dell’amour de loinh!

Secondo Serena Vitale, con la quale concordo, Cvetaeva aveva letto nella prima delle frasi citate qui sopra un rifiuto da parte di Rilke. Cvetaeva aveva davvero inteso questo, ma si trattava di un equivoco del tutto ingiustificato, che a sua volta aveva alimentato, almeno in parte, tutto il polverone di fraintendimenti con Pasternak. Nella medesima lettera, infatti, Rilke le aveva pure detto di avere posto le due fotografie l’una accanto all’altra perché si abituassero alla vicinanza prima … – di che cosa se non di un incontro reale fra loro due? Credo che la spiegazione logica della frase usata da Rilke in quella lettera sia un’altra. Egli non era più sicuro di poterle scriverle perché le sue forze stavano venendo meno. Non c’era nessun rifiuto da parte sua; forse, soltanto un certo disagio nel comprendere che Cvetaeva non stava affatto capendo la situazione in cui lui si trovava. Dopo un silenzio di due settimane, lei torna a scrivergli il 3 giugno. Il tono è quello di sempre, pieno di entusiasmo e frasi amorose, di ambivalenze e di contraddizioni che diventano addirittura ingovernabili, tanto è l’ardore di questa lettera. In essa, fra l’altro, accenna a quello che lei ritiene essere un rifiuto da parte sua. Questa volta però, l’8 giugno, Rilke le risponde per le rime e sembra finalmente volere uscire dalla metafora in cui lui stesso – peraltro – si è chiuso per una vita intera. Abbandonerà finalmente il mondo degli dei per tornare fra gli esseri umani?

E così una mia parola gettata lì per caso che tu hai eretto davanti me, ha gettato questa enorme ombra e così ti sei allontanata da me…. Quella frase scritta da me non veniva dall’uomo di cui tu hai parlato a Boris… Troppo preso –  ah no Marina, libertà e leggerezza e solo l’imprevedibilità della risposta… E da qualche tempo probabilmente a causa delle mie condizioni fisiche io ho paura che qualcuna delle persone da me amate si aspetti da me una frase fortunata o la stessa perfezione del discorso… Oggi ti ho scritto una lunga poesia, seduto su un muro tiepido fra le vigne… Vedi, sono tornato.”19

Era tutto un equivoco, nessun rifiuto da parte di Rilke e la poesia cui allude è nientemeno che l’ultima delle Elegie, che le regala con una dedica. Leggendo questo passaggio, però, si può capire che quando Marina scriveva a Boris che Rilke non aveva più bisogno di nulla, non gli stava mentendo per gelosia e per volere soltanto per se stessa un rapporto con Rainer: lei era davvero convinta di essere stata rifiutata da Rilke! Il problema è che talvolta, la maledetta realtà si prende le sue rivincite sulle visioni oniriche e sulle suggestioni dell’amour de loinh! Lei incassa il colpo e gli risponde soltanto il 14 giugno: è una lettera di scuse, di grande amarezza, in cui mette di mezzo Pasternak quasi per discolparsi. Eppure, questa del 14 è la lettera in cui Cvetaeva riesce a dire di sé qualcosa che non le riuscirà di dire in molte altre occasioni.

Io siamo molte persone… forse innumerevolmente molte (moltitudine insaziabile) E una non deve sapere nulla dell’altra, disturba. Quando sono con mio figlio la cosa che ti scrive e ti ama non deve starmi accanto.

Alla fine, però, Cvetaeva sembra volere abbandonare davvero la metafora. Descrivendo le fotografie che ha ricevuto da lui ne individua una in cui vede questo:

“… Un uomo che parte e che per l’ultima volta …guarda il suo giardino Un uomo che  si lascia cadere fra le mani tutto il paesaggio (Rainer portami con te!)...”

Il ti amo che ritorna alla fine della lettera, sembra questa volta rivolto all’uomo. Rilke, dopo l’ultima lettera di Cvetaeva, le risponde con lentezza e lei di nuovo se ne adombra. In una nuova lettera a Rilke del 6 luglio, Cvetaeva parla di letteratura. Soltanto alla fine ritorna su loro due e forse indirettamente risponde a una frase di lui, quando aveva scritto che non sempre riesce a essere all’altezza di quanto ci si aspetta da lui:

Ma tu sei ancora anche un poeta, e dal poeta si attende de l’inedit …”20

Rilke risponderà il 28 luglio, molto tempo dopo, ma bisogna considerare che nel frattempo si era recato alla stazione di cura di Ragaz, dove lo attendevano i coniugi Thurm und Taxis. La lettera inizia con meravigliosa Marina e sembra fugare ogni dubbio. Riferendosi a Boris ammette che sia stato lui a indirizzarla verso di sé, ma poi “Sei apparsa tu pura e forte...”

Il prosieguo, dopo alcune osservazioni di carattere letterario, parla di nuovo di sé e della condizione in cui si trova. Dice di essere stato costretto ad andare a Ragaz per:

vedere i miei più vecchi e unici amici (Per quanto tempo ancora? Sono infatti di molti anni più vecchi di me…)

Quell’accenno alla tarda età degli amici e quel Per quanto tempo ancora è riferito a loro oppure è un modo metaforico di alludere alla sua di condizione? Marina risponde il 2 agosto e ribadisce in termini sempre più espliciti di volerlo raggiungere in nome di quel “nuovo io che può realizzarsi soltanto con te…, in te…” 21

Il 14 agosto lei gli scrive una nuova lettera dalla quale si evince che non ha ricevuto la sua del 28 luglio. Rilke le scrive il 19 agosto una lettera di grande amarezza. Le dice di essere meno sicuro di lei che si potranno incontrare, ma non le dice il perché. Le scrive pure che ha cercato sulla cartina quella piccola città dove lei gli aveva proposto d’incontrarsi. Lo vuole o non lo vuole? L’ambivalenza dei sentimenti è forte anche in lui, anche perché nella parte centrale della lettera emerge improvvisamente una preoccupazione che fin qui non era apparsa:

Il silenzio di Boris mi inquieta e mi amareggia: è possibile che la mia comparsa abbia sbarrato il passo al suo violento desiderio di te? E malgrado io capisca bene che cosa tu intendi quando parli delle due «non patrie» (che si escludono a vicenda), penso che tu sia severa e quasi crudele nei suoi confronti (e severa nei miei), esigendo che io non abbia mai e in nessun luogo altra Russia all’infuori di te! Protesto contro qualsiasi esclusione (essa ha radici nell’amore ma crescendo diventa di legno), mi prenderai così, anche così? “22

Rilke si rende conto per la prima volta della potenziale ambivalenza e anche ambiguità della situazione che si è creata fra loro tre, ma poi di nuovo, con il discorso delle due non patrie sembra riportare tutto nell’ambito letterario. Questa volta è lui che si sente escluso dal rapporto con Pasternàk e attribuisce a lei tale esclusione. Forse sarebbe bastato accorgersene prima e dirlo direttamente a lui, a Boris! Attribuire solo alla severità di Marina l’accaduto è troppo semplice perché implica una sicura e razionale volontà di raggiungere quello scopo; ma dovrebbe essere chiaro che in realtà non vi era in atto da parte di alcuno dei tre un’intenzione del genere. Il fatto è che vivendo dentro la metafora, prima o poi si fa di sé medesimi una metafora! In ogni caso, sembra ormai tardi per qualsiasi cosa. Forse alla fine uscirà la parola decisiva, quando Rilke, riferendosi alla possibilità di un incontro con Marina scrive:

Non rimandare fino all’inverno”23

ma purtroppo ancora una volta siamo nella metafora perché si tratta della citazione di un verso! Il 22 agosto Marina gli risponde dicendogli che se si vogliono davvero incontrare è lui che deve agire e lo invita a venire nella località che gli aveva indicato. Nella lettera, però, c’è un passaggio che la rende di nuovo ambivalente e indecifrabile:

Quanto più ci si allontana da me, tanto più si entra in me. Io non vivo in me stessa vivo fuori di me. Non vivo sulle mie labbra e chi mi bacia mi perde...”24

Rilke non le risponderà. Andrà a trovare (ed è il suo ultimo viaggio) Paul Valery a Ouchy, ma non si recherà al 3 di Boulevard de Grancy dove lei lo aspettava. L’ultima cartolina è di nuovo di Cvetaeva, il 7 novembre, con una vista su Bellevue a Parigi e dice semplicemente:

Caro Rainer! Io vivo qui. Mi ami ancora?”25

Rilke non le risponderà più, scriverà invece al vecchio amico Leonid Pasternak. Perché è arrabbiato con lei? No. La lettera spedita al padre di Boris, infatti, non l’ha scritta lui, ma la sua segretaria: egli sta salutando tutti gli amici, forse non è più in grado di farlo personalmente e quindi per pudore e per non farle capire cosa sta succedendo, non le dice nulla.

L’epilogo

Il 31 dicembre Cvetaeva scrive a Pasternak una lettera che inizia così:

Boris, Rainer Maria Rilke è morto.”26

Abituati come siamo al linguaggio barocco, questa lapidaria espressione suona come un urlo di dolore e di sgomento: è l’incipit di chi non si aspetta la notizia. I dettagli sulla sua morte, Rilke li affida ancora a Leonid Pasternak tramite la propria segretaria, Marina continua rivolgendosi a lui come se fosse ancora vivo. Boris non risponde alla lettera di Marina sulla morte del poeta. Un mese dopo, anche Cvetaeva riceverà una lettera dalla segretaria di Rilke, allegata a una copia del libro sulla Mitologia greca che il poeta aveva comperato per lei. Pasternàk risponderà alle reiterate lettere di Cvetaeva solo a febbraio e il tono, pur affranto e nonostante scriva che ora entrambi sono orfani, è segnato da una palpabile distanza. Per Pasternàk era la relazione fra loro tre la cosa più importante, ma forse vi è anche dell’altro. Continuarla solo con lei non avrebbe forse fatto risorgere i fantasmi di un possibile incontro reale di cui lui ormai aveva solo paura? Nella lettera del 9 febbraio,27 Cvetaeva sottolinea il tono burocratico della risposta di Pasternak e poi continua a parlare di poesia come se niente fosse. È una lettera lunghissima allegata alla quale c’è una sua poesia scritta nel giugno del ’26 e intitolata Tentativo di stanza. Infine, Cvetaeva accenna anche al requiem per Rilke che ha intenzione di scrivere e che avrà per titolo Novogodnee (Anno nuovo).28 Marina Cvetaeva cercherà di mantenere viva la corrispondenza e la relazione con Pasternak e non soltanto per ragioni letterarie. In fondo, seppure da lontano, lei li amava entrambi quei due uomini e in una lettera del ’30 scriverà a Pasternak una frase quasi analoga a quella che aveva scritto a Rilke nel ‘26 e cioè che Boris era la sola persona con cui avrebbe potuto ricostruire il proprio io sparso e disgregato in tanti pezzi. Pasternak non le risponderà più. Con Novogodnee, che Brodskj considera il vertice della poesia di Maria Cvetaeva,29 si chiude anche la sua stagione poetica: successivamente si dedicherà solo alla riflessione critica, mentre Pasternak inizierà una fase del tutto nuova del suo percorso artistico.

Ritratto di Mira Nakhman, 1913.

1 Denis De Rougemont, L’amore e l’occidente, Rizzoli, Milano 1998.

2 Cvetaieva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere (1926), a cura di Konstantin Azadovskji, Elena ed Eugenji Pasternak. Edizione italiana a cura di Serena Vitale, Editori Riuniti, Roma, 1980.

3 Op.cit. Pag 19 e seguenti.

4 Ivi.

5 Op. cit. pp. 45-6.

6 Ivi.

7 Op. cit. pp. 47-8.

8 Op. cit. pag. 50-52.

9 Op.cit. pp. 52-57.

10 Ivi.

11 Iosif Brodskji, Il canto del pendolo, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1987, pag. 238.

12 Op.cit. pp.65-70.

13 Op.cit. pp.71-74.

14 Ivi.

15 Op. cit. pag. 83.

16 Op. cit. pp. 81-84

17 Op. cit. pag. 78.

18  Op. cit. pp..60-64

19 Op. cit. pp. 93-4.

20 Op. cit. pag 136.

21 Op. cit. pp.153-56.

22 op. cit. pag. 160-1.

23 Ivi.

24 Op. cit. pp.162-3.

25 Op. cit. pag 165.

26 Op. cit. pp. 168-9

27 Op. cit. pag. 177.

28 Op. cit. pp. 177-88; l’intenzione di Cevetieva si trova scritta proprio nelle ultime righe della lettera.

29 Il testo di  Nuovo anno è pubblicato in Italia in diverse edizioni. Quella che ho scelto è compresa nella raccolta Marina Cvetaeva, A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di Marilena Rea, con testo a fronte, Passigli Editori, 2012, pp. 44-57. Prediligo tale edizione perché raccoglie altre liriche e testi dedicati a Rilke, così da offrire un quadro più ampio del modo con cui Cvetaeva si è rapportata a lui durante tutta la vita.