VITE IMMAGINARIE E ALTRE VITE
Premessa
Questo saggio è la rielaborazione di un precedente scritto pubblicato anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti. Lo spunto da cui nacque fu la lettura di due libri di un autore a me allora del tutto sconosciuto: Marcel Schwob. Li lessi in pochi giorni e il fascino che esercitarono su di me non è venuto meno nel tempo. La lettura mi aveva pure un poco sconcertato perché mi trovai nel mezzo di sollecitazioni molteplici: il richiamo ai classici da un lato e una poetica del tutto avulsa dai canoni che si stavano affermando nell’Europa del tempo. C’era poi qualcosa in lui che mi rimandava a Cesare Pavese: entrambi avevano a che fare con il mito e in un primo tempo i loro percorsi mi sembrarono simili. Successivamente e grazie anche alla lettura delle opere di Furio Jesi, mi sono reso conto delle differenze fra i due approcci, che mi inducono oggi a modificare in parte il saggio di allora.
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Mimare la vita
Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo e Mauricio Babilonia, per esempio, sono stati nell’immaginario collettivo, più importanti di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge, anche se al momento della loro nascita sembrano del tutto fuori tempo e fuori luogo.
Le vite immaginarie di Marcel Schwob, fanno parte di quest’ultima categoria. L’opera fu scritta a fine ‘800, quando cominciava a profilarsi la crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.
Le vite immaginarie sono un’opera con lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca europea e non; tuttavia le sue radici profonde affondano nella classicità. Nel titolo riecheggiano le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:
… Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi …1
Allo stesso modo I mimi, una seconda importante opera meno celebre della prima, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che tuttavia potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.
La vita di Marcel Schwob, invece, sembra riflettere drammaticamente quella dei personaggi della sua opera maggiore. Chi è infatti lo scrittore? Un raffinato letterato che s’inventa narratore? Oppure il contrario e cioè il giornalista scrupoloso e quasi pedante del Mercure de France con l’hobby della letteratura? Il viaggiatore virtuale che forse avrebbe voluto essere, oppure l’uomo malato che decide di partire (su consiglio del suo medico!) per un viaggio diretto a Samoa dal quale tornerà deluso e senza avere raggiunto la meta che lo aveva spinto ad intraprenderlo: rendere un devoto omaggio alla tomba di Stevenson?
Marcel Schwob nasce in una famiglia rabbini e di medici il 25 agosto del 1867: la madre è una Cahun, la cui discendenza annovera, fra gli antenati, Caym de Sainte-Menehoul, che prese parte alla seconda Crociata. Il bambino Marcel cresce in un ambiente cosmopolita, contornato da governanti inglesi e precettori tedeschi. Di suo ci mette un talento straordinario e una volontà di apprendere che ne farà un erudito precocissimo e di rango assoluto; con la differenza, però, rispetto ad altri eruditi, di essere scrittore vero. Eccelle negli studi e si dedica alla traduzione; ma ciò che cambia la sua vita e inaugura la sua stagione più creativa è l’incontro con l’opera di Robert Luis Stevenson, ma anche questo in fondo fa parte delle sue stranezze perché il modo in cui Stevenson lo ha ispirato sfugge alla comprensione immediata. Ci vorrà ancora qualche tempo, infatti, prima che tale incontro produca i suoi frutti. Nel mezzo, un’altra scelta bizzarra e sbagliata, come gli è capitato diverse volte nella vita: sceglie, in anticipo rispetto all’età, il servizio militare. Niente più della carriera militare poteva essere lontana da Schwob, a parte la sua ricerca di una vita avventurosa. Tormentato fin da bambino da una generica febbre cerebrale di natura sconosciuta per la medicina di allora, vive in un continuo stato di malattia, accentuato anche dagli aspetti ipocondriaci della sua personalità, che contribuiranno non poco ad accentuare la sua precaria salute, che lo porterà a una morte precoce.
La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: la verità di una vita sta nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare:
al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale2..
Affermazione sorprendente, perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte: ricercare l’universalità. In realtà la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune di allora. Con l’avvento della società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma come difesa della varietà.
Canone e anticanone
Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe.
I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quella degli scrittori più celebrati del ‘900.
Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione prossima della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.
Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o il plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e con questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.
Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjean subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni di inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure, come Deledda in Italia, si resterà nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista. Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.
La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiano alla struttura profonda rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.
Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico di ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto – se sono maschi – e il premio è la gloria. Se sono femmine è l’amore con le sue vicissitudini al centro, oppure con Cassandra e Ipazia, la saggezza mai riconosciuta. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro, quella che più risente dell’influenza di Stevenson.
Il mito secondo Pavese
Pavese, d’altro canto, cerca, nelle pieghe del mito, le risposte al mistero della vita. Si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:
Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata, Orfeo gli risponde:
Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla. 3
Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:
È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre4..
Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:
Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.
La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:
… o scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte”5.. E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora.
Nel dialogo con Bacca, l’Orfeo che parla è troppo moderno per essere vero e in buona sostanza ribadisce la necessità del suo gesto, che avrebbe impedito a Euridice di morire due volte. In Pavese, il tentativo di conciliare la modernità con il mito porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo – tenetevela voi la festa risponde Orfeo a Bacca – per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. La festa di cui parla Bacca nel dialogo allude a questo. Pavese invece si rifà al mito in senso ontologico, ma traduce l’impossibilità di una esperienza comunitaria nella modernità, nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti.
Nel saggio su Pavese, Furio Jesi ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo proprio intorno a tale tematica ma parte anche dal modo in cui Pavese concepisce la natura:
Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura … Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.
Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza:
di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6
Jesi vede nell’opera pavesiana un parallelismo fra il suo modo di concepire la natura e il funzionamento della macchina mitologica: il linguaggio immanente e oggettivo che Jesi attribuisce a Pavese equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto.
Il maestro e gli allievi
Schwob diventerà il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges:
Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.
Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve molto.
Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. Del mito inteso come narrazione fantastica o immaginaria come preferirebbe dire Schwob non si può fare a meno, ogni epoca produce le proprie narrazioni mitologiche e questo avviene anche nella modernità. Schwob nelle sue opere salvaguarda questo bene prezioso in un tempo che sembra non volerne più sapere, ma non cade nel tranello di recuperare il mito in senso ontologico. Il suo aspetto moderno, nonostante la sua sostanziale anti modernità, sta proprio nel riprendere i miti come puro oggetto di narrazione. In sostanza, per dirla con Furio Jesi, al centro di Schwob non c’è il Mito ma la macchina mitologica che continua a produrre le sue narrazioni. È quello che accade, infine, nell’opera forse più immaginaria della narrativa europea contemporanea: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Belga, ma culturalmente francese e aristocratica come Schwob, nelle pagine del suo romanzo si respira la medesima aria, ci si sente a casa e al tempo stesso proiettati in un tempo e in luogo lontani eppure così attuali.
C’era un’altra strada possibile da percorrere, oltre a quella intrapresa da Schwob? C’era e c’è e la indica ancora una volta Jesi: la ricerca, nella modernità, di riti collettivi e festivi, che pur di carattere laico, conservano il senso di una ritualità collettiva. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine, ma possiamo già estendere ad altre manifestazioni la stessa caratteristica: dalle cerimonie collettive di commemorazione dei morti per aids, ai balli di massa dei movimenti femministi. Tale propensione, del tutto estranea a Schwob, avrebbe potuto forse riguardare Pavese se oltre al suo mondo contadino avesse guadato al movimento operaio come soggetto storico. Perché Pavese non lo fece nonostante la sua adesione al Partito Comunista? Il problema è che in Pavese non bisogna cercare una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, una specialmente ne I mari del sud, dove la cifra epica del testo appare del tutto nuova.
1 Marcel Schwob, Vite immaginare, Prefazione di Cristiana Lardo, Adelphi, pag. 9.
2 Ivi, p.14
3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.
4 Ivi, p. 77
5 Ivi, p.79
6 122-23.