VITE IMMAGINARIE E ALTRE VITE

Premessa

Questo saggio è la rielaborazione di un precedente scritto pubblicato anni fa sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti. Lo spunto da cui nacque fu la lettura di due libri di un autore a me allora del tutto sconosciuto: Marcel Schwob. Li lessi in pochi giorni e il fascino che esercitarono su di me non è venuto meno nel tempo. La lettura mi aveva pure un poco sconcertato perché mi trovai nel mezzo di sollecitazioni molteplici: il richiamo ai classici da un lato e una poetica del tutto avulsa dai canoni che si stavano affermando nell’Europa del tempo. C’era poi qualcosa in lui che mi rimandava a Cesare Pavese: entrambi avevano a che fare con il mito e in un primo tempo i loro percorsi mi sembrarono simili. Successivamente e grazie anche alla lettura delle opere di Furio Jesi, mi sono reso conto delle differenze fra i due approcci, che mi inducono oggi a modificare in parte il saggio di allora.

***

Mimare la vita

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo e Mauricio Babilonia, per esempio, sono stati nell’immaginario collettivo, più importanti di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge, anche se al momento della loro nascita sembrano del tutto fuori tempo e fuori luogo.

Le vite immaginarie di Marcel Schwob, fanno parte di quest’ultima categoria. L’opera fu scritta a fine ‘800, quando cominciava a profilarsi la crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera con lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca europea e non; tuttavia le sue radici profonde affondano nella classicità. Nel titolo riecheggiano le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

… Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi1

Allo stesso modo I mimi, una seconda importante opera meno celebre della prima, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che tuttavia potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La vita di Marcel Schwob, invece, sembra riflettere drammaticamente quella dei personaggi della sua opera maggiore. Chi è infatti lo scrittore? Un raffinato letterato che s’inventa narratore? Oppure il contrario e cioè il giornalista scrupoloso e quasi pedante del Mercure de France con l’hobby della letteratura? Il viaggiatore virtuale che forse avrebbe voluto essere, oppure l’uomo malato che decide di partire (su consiglio del suo medico!) per un viaggio diretto a Samoa dal quale tornerà deluso e senza avere raggiunto la meta che lo aveva spinto ad intraprenderlo: rendere un devoto omaggio alla tomba di Stevenson?

Marcel Schwob nasce in una famiglia rabbini e di medici il 25 agosto del 1867: la madre è una Cahun, la cui discendenza annovera, fra gli antenati, Caym de Sainte-Menehoul, che prese parte alla seconda Crociata. Il bambino Marcel cresce in un ambiente cosmopolita, contornato da governanti inglesi e precettori tedeschi. Di suo ci mette un talento straordinario e una volontà di apprendere che ne farà un erudito precocissimo e di rango assoluto; con la differenza, però, rispetto ad altri eruditi, di essere scrittore vero. Eccelle negli studi e si dedica alla traduzione; ma ciò che cambia la sua vita e inaugura la sua stagione più creativa è l’incontro con l’opera di Robert Luis Stevenson, ma anche questo in fondo fa parte delle sue stranezze perché il modo in cui Stevenson lo ha ispirato sfugge alla comprensione immediata.  Ci vorrà ancora qualche tempo, infatti, prima che tale incontro produca i suoi frutti. Nel mezzo, un’altra scelta bizzarra e sbagliata, come gli è capitato diverse volte nella vita: sceglie, in anticipo rispetto all’età, il servizio militare. Niente più della carriera militare poteva essere lontana da Schwob, a parte la sua ricerca di una vita avventurosa. Tormentato fin da bambino da una generica febbre cerebrale di natura sconosciuta per la medicina di allora, vive in un continuo stato di malattia, accentuato anche dagli aspetti ipocondriaci della sua personalità, che contribuiranno non poco ad accentuare la sua precaria salute, che lo porterà a una morte precoce.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: la verità di una vita sta nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare:

al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale2..

Affermazione sorprendente, perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte: ricercare l’universalità. In realtà la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune di allora. Con l’avvento della società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma come difesa della varietà.

Canone e anticanone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quella degli scrittori più celebrati del ‘900.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione prossima della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o il plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e con questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjean subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni di inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure, come Deledda in Italia, si resterà nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista. Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiano alla struttura profonda rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico di ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo  Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto – se sono maschi – e il premio è la gloria. Se sono femmine è l’amore con le sue vicissitudini al centro, oppure con Cassandra e Ipazia, la saggezza mai riconosciuta. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro, quella che più risente dell’influenza di Stevenson.

Il mito secondo Pavese

Pavese, d’altro canto, cerca, nelle pieghe del mito, le risposte al mistero della vita. Si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata, Orfeo gli risponde:

Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla. 3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre4..

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

o scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte”5.. E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora.

Nel dialogo con Bacca, l’Orfeo che parla è troppo moderno per essere vero e in buona sostanza ribadisce la necessità del suo gesto, che avrebbe impedito a Euridice di morire due volte. In Pavese, il tentativo di conciliare la modernità con il mito porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo – tenetevela voi la festa risponde Orfeo a Bacca –  per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. La festa di cui parla Bacca nel dialogo allude a questo. Pavese invece si rifà al mito in senso ontologico, ma traduce l’impossibilità di una esperienza comunitaria nella modernità, nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti.

Nel saggio su Pavese, Furio Jesi ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo proprio intorno a tale tematica ma parte anche dal modo in cui Pavese concepisce la natura:

Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura … Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.

Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza:

di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6

Jesi vede nell’opera pavesiana un parallelismo fra il suo modo di concepire la natura e il funzionamento della macchina mitologica: il linguaggio immanente e oggettivo che Jesi attribuisce a Pavese equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto.

Il maestro e gli allievi

Schwob diventerà il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve molto.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. Del mito inteso come narrazione fantastica o immaginaria come preferirebbe dire Schwob non si può fare a meno, ogni epoca produce le proprie narrazioni mitologiche e questo avviene anche nella modernità. Schwob nelle sue opere salvaguarda questo bene prezioso in un tempo che sembra non volerne più sapere, ma non cade nel tranello di recuperare il mito in senso ontologico. Il suo aspetto moderno, nonostante la sua sostanziale anti modernità, sta proprio nel riprendere i miti come puro oggetto di narrazione. In sostanza, per dirla con Furio Jesi, al centro di Schwob non c’è il Mito ma la macchina mitologica che continua a produrre le sue narrazioni. È quello che accade, infine, nell’opera forse più immaginaria della narrativa europea contemporanea: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Belga, ma culturalmente francese e aristocratica come Schwob, nelle pagine del suo romanzo si respira la medesima aria, ci si sente a casa e al tempo stesso proiettati in un tempo e in luogo lontani eppure così attuali.

C’era un’altra strada possibile da percorrere, oltre a quella intrapresa da Schwob? C’era e c’è e la indica ancora una volta Jesi: la ricerca, nella modernità, di riti collettivi e festivi, che pur di carattere laico, conservano il senso di una ritualità collettiva. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine, ma possiamo già estendere ad altre manifestazioni la stessa caratteristica: dalle cerimonie collettive di commemorazione dei morti per aids, ai balli di massa dei movimenti femministi. Tale propensione, del tutto estranea a Schwob, avrebbe potuto forse riguardare Pavese se oltre al suo mondo contadino avesse guadato al movimento operaio come soggetto storico. Perché Pavese non lo fece nonostante la sua adesione al Partito Comunista? Il problema è che in Pavese non bisogna cercare una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, una specialmente ne I mari del sud, dove la cifra epica del testo appare del tutto nuova.

Marcel Schwob

1 Marcel Schwob, Vite immaginare, Prefazione  di Cristiana Lardo, Adelphi, pag. 9.

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4 Ivi, p. 77

5 Ivi, p.79

6 122-23.


LE VITE IMMAGINARIE, I MIMI E I DIALOGHI CON LEUCÓ

Premessa

Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Il cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo ora nel blog con qualche modifica.

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo, per esempio, è stato nell’immaginario collettivo, più importante di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge.

Le vite immaginarie e I mimi di Marcel Schwob fanno parte di quest’ultima categoria. Le opere risalgono alla fine dell”800, in un’epoca di svolta della storia europea, quando cominciava a profilarsi quella crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera che ricorda il Giano del mito classico. Esse hanno lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca; tuttavia le loro radici profonde affondano nella classicità. Esse richiamano alla memoria, nel titolo, le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi 1.

Allo stesso modo I mimi, opera certamente meno celebre della prima ma non per questo minore, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: che la verità di una vita stia nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca spasmodica del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare “al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale”2. Affermazione sorprendente, se ci pensiamo bene; perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte e cioè la ricerca dell’universalità. In realtà, la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune. Rispetto all’avvento di una società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma del suo contrario.

Canone e anti canone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe, la più diversa fra tutte, rispetto alle altre sue, sebbene una traccia di continuità si possa riscontrare nel riferimento al mito come fonte d’ispirazione. Pavese era un conoscitore profondo e acuto delle opere di Károly Kerényi e di altri studiosi, ma I dialoghi sono opera letteraria, governata da una tensione dialogica che rimanda al teatro.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quelli immortalati dagli scrittori più celebrati del ‘900, ma dagli effetti dirompenti, a tanti anni di distanza.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e dicendo questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjant subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione del personaggio: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni d’inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure altri che come la Deledda in Italia, continueranno imperterriti nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista.

Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto, i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiamo alla struttura sotterranea rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico d’ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo, però, Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto e il premio è la gloria. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro.

Pavese segue un percorso diverso. Egli cerca, nelle pieghe del mito, la risposta al mistero, si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, si pone l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata … Orfeo gli risponde: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla”3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. 4.

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.5.

Parole straordinarie e quanto mai attuali in una società che vive sospesa fra il paese dei balocchi e la guerra di tutti contro tutti. L’illusione dell’orgia continua, della festa perenne, di un’ansia dionisiaca selvaggia, nascondono il delirio di onnipotenza; occorre il senso del limite, ma questo non cancella la necessità di accettare quella sfida. È necessario, oggi come ieri, scendere nel proprio inferno; la consapevolezza nasce dall’incontro con il limite, il canto è ancora una volta la risposta. Il paradosso di Pavese emerge qui in tutta la sua forza: il ricorso al mito è indispensabile anche se non gli si può più credere alla lettera. Esso apre ancora, come sempre, le porte alla sublimazione simbolica: senza quest’ultima vi è soltanto il pendolo depressivo che oscilla fra le esaltazioni dell’orgia o gli agiti, nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine.

Il maestro e gli allievi

Schwob, per ragioni anagrafiche, va considerato il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900; ma il suo esempio è tutt’altro che solitario. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges, che gli attribuisce un ruolo primario come ispiratore:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve qualcosa.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. In altre culture letterarie ha pesato meno che da noi il pensiero negativo. Tuttavia, sempre Schwob, ci dimostra come fosse possibile un’interpretazione diversa da quella letterale della morte di dio, così come appare nello Zarathustra nicciano. Anche i suoi Mimi prendono spunto dalla morte di Pan (così s’intitola proprio l’ultimo dei racconti dell’opera), ma egli non ne tira le conseguenze filosofiche. Pur prendendo atto della fine egli rilancia il mito come narrazione: ritesse la tela assumendo la maschera di personaggi inventati ma plausibili che ci offrono vie d’uscita laterali; Pavese, in fondo farà, a modo suo, la stessa cosa.

Nel ‘900 e dopo Nietzsche, invece, il mito come narrazione è sostituito dal concetto filosofico di mito; si parlerà, per esempio, in modo del tutto improprio, di mito del superuomo, espressione – questa – che contiene più di un’imprecisione.

È ipotizzabile un’influenza diretta di Schwob su Pavese? La voluminosa antologia della critica pavesiana non ne parla: né Givone né altri, che si sono occupati in modo particolare dei Dialoghi con Leucò vi accennano. Soltanto Roberto Speziale lo fa di sfuggita nella quarta di copertina de I Mimi 6

Bisogna però considerare che la fortuna di Schwob in Italia è recente. Introdotto dagli Adelphi, il libro ha vissuto una fortuna limitata alla cerchia dei francesisti e poco più. Rilanciato dalle traduzioni recenti dalla casa editrice Azimut e oggetto di nuove attenzioni è stato di nuovo proposto dalla casa editrice Adelphi, ma ci troviamo sempre in un ambito ristretto. È difficile ipotizzare una conoscenza diretta da parte di Pavese della sua opera, ma di certo lo scrittore delle Langhe conosceva Borges e può essersi imbattuto nel suo giudizio su Schwob.

Forse, semplicemente, accade che scrittori anche lontani e indipendenti l’uno dall’altro, fiutino nell’aria le stesse atmosfere o le stesse necessità e diano risposte analoghe. C’è un’aria di famiglia che si avverte leggendo questi tre libri, le loro diversità non cancellano quel sentire comune che li percorre. La ragione del loro fascino può essere rilanciata oggi perché il contrasto evidente fra un razionalismo positivista imperante, di carattere puramente tecnologico, cui fa da contraltare un agito che salta la mediazione del simbolico, ci stanno portando in un vicolo cieco. Queste opere ci ricordano che il simbolico esiste e che è necessario per vivere, non per intrattenerci. Nel nostro mondo postmoderno, una vulgata largamente diffusa ritiene che ogni narrazione sia divenuta impossibile perché tutto è alla luce del sole, verificabile, documentato, senza mistero. Il narrare, in tale contesto, non può che essere sempre più confinato in generi: il giallo, la fantascienza ecc..

Quale sciocca miopia! Faccio tre semplicissimi esempi che smentiscono questa illusione ottica. Negli Stati Uniti d’America, secondo decine e forse centinaia di migliaia di persone Elvis Presley non è morto nella data indicata dai suoi biografi e forse per alcuni è ancora vivo! Sempre nella patria della tecnologia più avanzata un’alta percentuale di statunitensi, dopo aver visto il film Capricorn one, si convinse che gli astronauti non erano mai sbarcati sulla Luna, ma che quell’evento non fosse altro che un’ingegnosa messa in scena hollywodiana girata nel deserto del Nevada. Infine l’Italia: in occasione del decennale della morte di Moana Pozzi, abbiamo assistito a seri programmi televisivi in cui commentatori tutt’altro che sprovveduti, avanzavano più di un dubbio sulla sua morte. Se per avventura rimanessero solo questi documenti e testimonianze, fra le poche cose conservate della nostra civiltà e fra mille anni capitassero nella mani di colonizzatori extraterrestri, Elvis Presley e Moana Pozzi verrebbero considerati eroi come Achille e Cassandra, mentre l’avventura lunare statunitense rientrerebbe nella infinita catena di narrazioni sull’argomento: dalla Storia vera di Luciano di Samosata, passando all’Orlando Furioso e via di seguito.

Del mito inteso come narrazione fantastica non si può fare a meno perché esso contiene una verità che non può essere detta degli storici. Non si tratta naturalmente di sostituire una ricerca di verità a un’altra, di attribuire a queste avventure dello spirito lo stesso rango. La razionalità storica, la cura certosina della ricostruzione minuta e documentaria parla alla nostra ragione, la narrazione fantastica parla al nostro inconscio: abbiamo bisogno di entrambi. Le commistioni indebite, le confusioni e quant’altro, hanno spazio proprio nei momenti storici in cui la pari dignità fra questi modi di cercare la verità viene cancellata e repressa. Nascono allora gli apprendisti stregoni che mescolano tutto con tutto arbitrariamente, invadendo i campi degli altri perché non riconoscono più il loro; oppure perché costretti da una cultura che riconosce solo certi statuti e percorsi, tendendo a eliminarne altri.


1 Marcel Schwob, Vite immaginarie, prefazione dell’autore, traduzione di Cristiana Lardo, Azimut editore, Roma 2005, p.9

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4.Ivi, p. 77

5.Ivi, p.79

6 Marcel Schwob, I mimi, a cura di Roberto Speziale, :duepunti edizioni, Palermo 2006.


 

 

 

IL PICARO E IL BURLONE, L’EROE E L’EROS: LA NARRATIVA DI JUAN MANUEL DE PRADA

Introduzione

Juan Manuel De Prada, dopo un periodo di grande effervescenza editoriale e di presenza nella letteratura europea e non solo ispanica è un po’ rientrato nell’oblio. Su alcune sue opere scrissi anni fa una riflessione che uscì sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo oggi perché mi sembra quanto mai attuale.

Ripercorrere la narrativa di Juan Manuel De Prada dagli esordi significa addentrarsi in un universo molteplice, anche se – una volta arrivati alla fine – si riconosce la filigrana di uno stile già precocemente maturo. Come prima approssimazione si potrebbe affermare che De Prada è un narratore che crede nella possibilità di raccontare storie. Potrà sembrare banale una dichiarazione del genere ma se si pensa all’evoluzione del genere narrativo in Europa, a partire dal tormentone sulla morte del romanzo, iniziato negli anni ’60 e periodicamente risorgente, tale constatazione non è affatto generica. Raccontare storie è parso a molta critica e anche a molti autori, impossibile; oppure che tale possibilità appartenesse a una letteratura di intrattenimento e di facile consumo, mentre la narrativa alta perseguiva il culto esasperato della cosiddetta bella pagina, oppure si ingorgava nei meandri di una sperimentazione linguistica ingegnosa ma spesso vuota; oppure ancora si rinchiudeva in un freddo cerebralismo. Sembrava che non si potesse più coniugare il gusto della trama, dell’intreccio, del personaggio memorabile, con l’esigenza di una forte letterarietà, ma che le due cose fossero irrimediabilmente scisse, dalla crisi del romanzo ottocentesco in poi; sia per la concorrenza del mezzo cinematografico e televisivo sia per altre e più complesse ragioni. Naturalmente ciò che sto descrivendo è soltanto una parte del processo di trasformazione che ha investito il romanzo e anche il racconto. Juan Manuel De Prada appartiene alla schiera di chi pensa sia ancora possibile raccontare. In questo saggio mi occuperò di tre libri, i cui titoli sono indicati nella traduzione italiana: Fiche, La tempesta (l’ultimo romanzo pubblicato) e Le maschere dell’eroe, il secondo libro in ordine cronologico.

JuanManueldePrada2007

Il tenero burlone

Fiche, rubricato nella librerie italiane, come libro erotico e addirittura pornografico, non poteva trovare collocazione peggiore e stupida disattenzione presso la nostra critica. Il libro consiste di una raccolta di brevissimi e fulminanti racconti, che hanno per oggetto il sesso femminile, ma sono fecondati da un’immaginazione imprevedibile, a volte di impronta surrealista, a volte capace di tenerissima e struggente delicatezza. Bastano poche citazioni per darne un’idea. Scelgo, riproducendone un’ampia parte, il racconto dal titolo La fica della violoncellista, riservandomi un commento più approfondito sull’intero libro in chiusura del saggio.

Ora che le avanguardie hanno definitivamente smesso di dar fastidio, ora che il cubismo è andato a ingrossare le fila delle scuole classiche … a noi nostalgici dell’arte di inizio secolo resta solo la consolazione di assistere a un concerto d’archi; per vedere la violoncellista in simbiosi con il suo strumento, unica vivente immagine cubista rimasta al mondo … Che compenetrazione fra il violoncello e la donna che strappa alle sue corde gemiti, mormorii e grida d’esultanza! Che intreccio di linee rette e curve, che accoppiamento di carne e legno! … Ecco, la violoncellista stringe fra le ginocchia la concavità dello strumento, la superficie di legno incurvato, ondeggiante, che corrisponde alla linea della vita; poi lo afferra per il collo, gli pizzica le corde vocali, gli strofina il petto con l’archetto fino a ferirgli il cuore e a strappargli un si bemolle. Che coppia, il violoncello e la suonatrice! Che intreccio di gambe e braccia, degno di un ritratto di Juan Gris!

Durante l’intervallo vediamo la violoncellista stringere le chiavette del suo uomo di legno, come una donna che torca le orecchie all’amante un po’ tiepido. Nel secondo tempo, dopo la strigliatina, il violoncello sembra meno remissivo … Invano cerchiamo di immaginare la fica della donna, … desiderosi di assistere alla lotta che si svolge dietro al legno tra le viscere del violoncello e quelle della virtuosa … La fica delle violoncelliste, celata da mutande a cremagliera, deve possedere note di recondita musicalità, crome e semicrome, biscrome e semibiscrome, … o forse è in realtà un metronomo che batte il tempo con clitoride, destra sinistra, sinistra destra, allegro ma non troppo … Le fica della violoncellista, durante il diluvio di applausi che le vengono tributati, bacia le corde del suo amante, e ancora una volta l’estetica cubista resuscita; alla faccia di tanti musei a pagamento.” (pag 23).

Venezia, metafora di una soggettività terminale

Con l’ultimo libro uscito in Italia, La Tempesta, Juan Manuel de Prada scrive un’opera meno vistosa del primo romanzo, di cui mi occuperò successivamente. Tecnicamente, il libro si può definire un giallo, con tanto di assassinio iniziale e una serie di peripezie tipiche del genere. Dietro il teatrino, che peraltro De Prada orchestra con maestria, emergono però i tre protagonisti veri di quest’opera: la città di Venezia, il quadro di Giorgione che dà il titolo al romanzo e i falsari dell’arte.

Alejandro Ballesteros è un giovane docente che si reca nella città lagunare per incontrare Gilberto Gabetti, il direttore dell’Accademia, e per studiare uno dei quadri più misteriosi della tradizione pittorica italiana. Arriva d’inverno, Venezia è sommersa dall’acqua alta e dalla neve, è deserta e spettrale come le maschere del suo carnevale: l’umido e il marcio l’avvolgono completamente. È una città molto lontana dall’iconografia turistica! L’albergo che lo ospita non è da meno, con la sua l’insegna luminosa rossa, in sinistro contrasto con il paesaggio imbiancato. Un senso di morte sospesa alberga fin dalle prime pagine e infatti il delitto arriva puntuale non appena Alejandro si è ritirato in camera. Uno sparo, degli uccelli che volano via, un oggetto che tonfa nell’acqua del canale e un uomo riverso nella calle deserta, che il nostro studioso cerca di soccorrere. Il moribondo si chiama Fabio Valenzin ed è un noto falsario. Da quel momento Alejandro si trova coinvolto in un intreccio sempre più inestricabile, la scena si popola di altri personaggi in un crescendo di vicende che confluiranno, per incrociarsi tutte, nelle sale di un palazzo dove si tiene una festa di carnevale. Le donne, come sempre, sono protagoniste di primo piano nei romanzi di De Prada: dall’inquietante proprietaria dell’albergo, assassina del marito ma salvata dall’ispettore di polizia Nicolussi, con il quale ha stretto una perversa complicità, a Chiara; e poi Giovanna Zanon. Il giovane spagnolo si trova coinvolto in una sorta di pericoloso minuetto, al centro del quale ci sono le due donne e altri personaggi maschili docilmente manovrati. E il quadro di Giorgione? La Tempesta sembra destinato a non essere mai raggiunto né visto: fra interrogatori di polizia e colpi di scena, l’incontro con il dipinto sfuma e si confonde con il mistero della sua interpretazione. Quale sia è Chiara a rivelarlo ad Alejandro, prima ancora che lui possa vederlo:

E questa stessa mancanza di catarsi che ti turba tanto la ritroverai nella Tempesta … Anche nel quadro c’è un avvenimento che non avviene, una minaccia che rimane sospesa per aria, un lampo che non scatena la pioggia. Ma i personaggi della Tempesta non si agitano, niente può scuotere la loro indifferenza, niente li commuove. Nella Tempesta, come a Venezia, i fenomeni non si scatenano, la vita pende appesa a un filo sfidando le leggi della fisica, e questa imminenza che non si definisce è causa di apprensione e turbamento.(Pag.83)

Mancanza di catarsi: è l’espressione chiave usata da Chiara, che pronuncia queste parole mentre sta pulendo il pesce che mangeranno insieme la sera e del quale mostra le interiora con una certa perversa esibizione. Il marcio non abbandona mai i personaggi, li avvolge come avvolge tutta la città. Ma chi è poi Chiara? È la figlia di Gabetti; non riesce a distaccarsi da lui e ne è in un certo senso l’ombra, senza che questo le impedisca di avere relazioni che tuttavia la lasciano prigioniera di un complesso paterno del quale non è capace di liberarsi. Chiara conosceva Valenzin e dalle parole del padre si può pensare che fra loro esistesse qualcosa di più di una semplice conoscenza di lavoro; ma ciò che colpisce di più il giovane studioso spagnolo è un altro particolare:

Fabio le aveva insegnato alcuni trucchi che non s’imparano all’Accademia delle Arti. Pag 66.

Al sospetto avanzato da Ballesteros, Gabetti risponde piccato che si tratta di trucchi di restauro, che nulla hanno a che vedere con la sua attività di falsario, ma il dubbio rimane, il labirinto diventa sempre più inestricabile finché non compare Giovanna Zanon, ex moglie separata di Gilberto Gabetti e collezionista d’arte. Il giovane spagnolo è attratto da Chiara, ma è la Zanon che lo invita a casa sua per mostragli un quadro che teme essere un falso; naturalmente è il defunto Valenzin che glielo aveva venduto! Vuole il parere del giovane studioso spagnolo, ma usa la circostanza per mettere in atto una tragicomica scena di seduzione che finisce nel nulla; o meglio in un invito per la grande festa di carnevale che si svolgerà di lì a pochi giorni.

La galleria di personaggi non è ancora al completo; altri falsari, mercanti, guardia spalle, una misteriosa valigia che Valenzin aveva lasciato nell’albergo dove alloggia anche Ballesteros; e altro, fino allo svelamento finale dell’assassino. Ma non è questo, lo ripeto, il contenuto del libro: più scorrono le pagine e più il tema intorno al quale ruota il tutto è la confusione fra autentico e falso e l’impossibilità di tracciare confini netti: è la metafora, a livello estetico, di una decadenza morale inarrestabile.

Il picaro, gli eroi, gli anti eroi e l’eros

Soltanto in Spagna poteva nascere un’opera epica e corale come Le maschere dell’eroe, scritto in una lingua e proveniente da una terra che diede i natali al romanzo moderno con quel grande affresco picaresco che è El Lazarillo de Tormes.

Lo sfondo del romanzo torrenziale di De Prada è quello tragico e grottesco degli anni ’30, che sfoceranno nella guerra che la Repubblica Democratica eletta dal popolo spagnolo condurrà contro la sedizione fascista del generale Francisco Franco; ma è anche l’epoca dell’utopia anarchica che soltanto in Spagna ebbe il seguito che conosciamo e produsse anche (cosa incredibile a dirsi sotto certi aspetti), una cultura di governo e non soltanto quello che tutti si immaginano dell’anarchia: omoni con i baffi, più o meno bombaroli, slanci ideali poco sostenuti da visioni politiche poco razionali, un destino ineluttabile di sconfitte ecc. ecc.

Il romanzo di De Prada è esagerato come gli eventi che fanno da sfondo a tutta la vicenda e ai personaggi che occupano la trama di quest’opera affascinante. In questo sta la sua verità storica, che sintetizza tutti gli elementi di crudeltà, di eroismo, di  meschinità e tradimenti che hanno costellato una guerra civile fra le più spietate, combattute in un secolo che di crudeltà ne ha prodotta in quantità industriali.

Detto questo va subito aggiunto che Le maschere dell’eroe è un romanzo che ha a che fare con la storia ma che non può essere definito romanzo storico. Cominciamo dunque dalla trama in senso stretto.

Il romanzo prende le mosse da una lettera che Pedro Luis de Gálvez invia al Dottor Francisco Garrote Peral, direttore delle carceri. La missiva porta la data del 1908 e il narratore ci avverte che essa può essere pervenuta al direttore soltanto attraverso canali speciali, dal momento che non porta omissis o cancellature censorie. Quella del manoscritto o della lettera ritrovata, è un espediente narrativo molto antico. In tale lettera il prigioniero cerca di giustificare le proprie azioni perorando la propria causa al fine di ottenere uno sconto di pena. Ma chi è Gálvez? È un eroe bohemien, uno sradicato che abita un demi monde culturale e politico di massa. Repubblicano e scrittore combatte la guerra civile e continua a perseguire la sua carriera artistica. Sarà il suo nemico e alter ego Fernando Navales a diventare il custode delle sue opere, condannandole al silenzio. Egli incarna la figura del nichilista, ma i due si somigliano, le gesta dell’uno si travasano in quelle dell’altro.

Il narratore di larga parte del romanzo è proprio Navales, l’alter ego; è grazie alle sue memorie, infatti, che noi lettori veniamo a conoscere la storia.

Due manoscritti ritrovati stanno dunque alla base del romanzo. Si materializza nella narrazione di De Prada la figura eterna del doppio, del sosia, del perturbante, per dirla con il linguaggio di Freud. I due s’inseguono fino alla fine e anche dopo. Pedro Luis Gálvez viene fucilato il 30 aprile del 1940. Lascia una lettera al suo nemico e alter ego e un sonetto per Teresa, che la guardia civil gli strappa proprio mentre sta andando al patibolo. E quanto a Navales:

… morì senza stile, lui che si era tanto vantato di averne, nel più completo oblio; Pedro Luis de Gálvez appartiene ormai all’intatto cielo delle mitologie, cielo che di tanto in tanto abbandona, col permesso di Dio, per scendere all’inferno dove dimora il suo avversario e fargliene di tutti i colori, di qui all’eternità.

Ma adesso basta, o si scade nel moralismo. Pag. 615.

Dell’uno è anonima la vita, dell’altro le opere; solo nella finzione narrativa di De Prada rivivono entrambi.

Le maschere dell’eroe è pieno di figure perturbanti e di riflessioni al vetriolo sull’arte moderna, che diventeranno più pacate e definitive in La tempesta.

Falsari dell’arte, pittori di croste, poetastri, artisti mancati che la buttano in politica e viceversa; una galleria di personaggi grotteschi e, accanto a loro, autori memorabili e protagonisti della scena culturale di quegli anni: Luis Buñuel, Salvador Dalí, uno stralunato Jorge Luis Borges che si aggira vomitando in un bordello di Madrid, García Lorca, Ramón María del Valle Inclán. Ma sono veramente loro oppure sono il risultato di una miscela esplosiva di elementi biografici reali manipolati da un’invenzione sfrenata? E che differenza c’è fra le loro biografie e quelle degli anonimi che vivono gli stessi drammi e le stesse grottesche situazioni? La lingua sarcastica, truce e corrosiva di De Prada non risparmia niente e nessuno, ma è ponendo la sua lente d’ingrandimento sul degrado delle relazioni amorose che l’autore ci dà un’immagine plastica e dantesca degli anni ’30 spagnoli. Tutti i personaggi maschili e femminili sono coinvolti in relazioni sordide, conducono vite allucinate su uno sfondo di crescente violenza, di slanci ideali, di imprese e tradimenti continui. È una girandola continua e sullo scenario del romanzo aleggia una luce fosca, i personaggi non conoscono sosta né riposo; vivono in una sorta di frenetica eternità infernale. Gálvez e Teresa, Novales e Sara e le altre maschere che compaiono, a volte come semplici comparse disegnano tutte insieme un potente affresco, dove il rapporto sessuale degradato diventa una specie di sintesi o di monade metonimica, all’interno della quale si può vedere in piccolo tutto l’universo. Tutti diventano a turno moralisti e scellerati perché vedono sempre gli altri e mai se stessi. E così quando Navales scopre che Sara è in stanza con Ramón con la scusa di doversi preparare a recitare la commedia di lui ecco che l’uomo decide di coglierli sul fatto. Entra nel Torrione dove avvengono gli incontri clandestini e di cui anche lui ha naturalmente la chiave!:

Sara era ancora distesa sul letto, con il camicione sollevato e le calze abbassate…il suo corpo aveva il biancore misero e scialbo delle defunte messe nella bara senza lenzuolo funebre. – Hai ripassato bene la parte? – le domandò Ramón.

Era ridicolo come amante, si preoccupava della propria immagine anche quando finiva di eiaculare. Affrontava il coito senza spogliarsi, come chi si sottopone a una misura igienica per alleviare la prostata. Il fallo gli fuoriusciva dai pantaloni, incongruente come l’abito scuro della domenica…..- Tu credi che Fernando ce la farà pagare?-….- Tu credi che cercherà di distruggere il nostro amore?-

Utilizzava un linguaggio da feuilleton, parlando di una fuga consentita. Sul cassettone del corridoio c’erano due biglietti ferroviari per la tratta Madrid-Irùn-Parigi.: bisogna esser veramente di cattivo gusto e quasi putrefatti per scegliere Parigi come approdo di un adulterio. Uscii in punta di piedi, per non rovinare i loro piani. (Pag.388-89).

Le maschere del narratore

Vorrei concludere il saggio tornando a Fiche, quel libro così particolare e sorprendente, nel quale però si può leggere una delle filigrane che costituiscono la stoffa della narrativa di De Prada. Se il degrado di un’intera società viene visto attraverso la lente metonimica dei rapporti erotici, come abbiamo visto sia ne Le maschere dell’eroe, sia in La tempesta, tornare a questo libro d’esordio sembra quasi di immergersi in una fresca sorgente vitale. In Fiche non si parla dell’eterno femminino, né di una figura angelicata della donna. Il sesso femminile è esposto, la donna di De Prada è tutt’altro che asessuata; ma, – questa la straordinaria forza del libro – non è violata! Mai! E neppure penetrata; mentre nei due romanzi dove il sesso è presente come atto – sempre più abnorme in Le maschere dell’eroe, in modo più misurato e quasi come citazione del precedente in La tempesta – lo è sempre. Come violati nella loro dignità sono sempre anche i personaggi maschili; siano essi grandi della cultura del tempo o semplici comparse. Tutti sono immersi, uomini e donne, in un grottesco precipitare nell’abisso di una trasgressione coatta. C’è invece una grande innocenza in questo primo libro dal titolo irriverente, una limpidezza che si colora di nostalgia; forse il sogno di una cosa o quello di un rapporto d’amore che sembra irrimediabilmente perduto.

E il narratore come si colloca in tutto questo? C’è una spia che De Prada mette del suo secondo romanzo, Le maschere dell’eroe. È una citazione breve, che compare in una pagina che non fa parte del testo, essendo quella dei ringraziamenti dell’autore a tutti coloro che l’hanno aiutato nella stesura del romanzo. È una breve citazione che riporto integralmente e che chiude la pagina in questione. Scrive De Prada:

Come disse Marcel Schwob (dopodiché basta con le citazioni): Il biografo non deve preoccuparsi di risultare veritiero; deve creare, dal caos, dei tratti umani. E ora caro lettore, non capisco cosa aspetti a tuffarti a capofitto in questo caos. Salamanca- Zamora, maggio 1996. (pag.10).

Compaiono in questa breve citazione il nome di un gigante poco conosciuto della narrativa moderna e una parola chiave, Schwob, l’ispiratore di Borges e del Pavese dei Dialoghi con Leucò, le cui Vite immaginarie sono state ritradotte alcuni anni fa dalla casa editrice Azimut. La parola chiave è naturalmente caos. A partire da questa vorrei allora concludere  tracciando un parallelismo. Se nel Lazarillo de Tormès il vitalismo che vi predomina è quello di una società nascente e il personaggio – che vive certamente di espedienti – è  ancora positivo e volto al futuro, il truce vitalismo che alberga in Le maschere dell’eroe è quello di una soggettività e di una società moribonde, che si agitano e si tingono di belletto, come nella smorfia di un agonizzante. I protagonisti del romanzo per me maggiore di De Prada sono proprio figure grottesche, che mi ricordano – se fossero dipinte – i ritratti spettrali di Egon Schiele e di Otto Dix, ma con i corpi deformi e michelangioleschi di Arcimboldo.

Al tempo stesso, se la Venezia del ‘500-600 non era solo la capitale della Repubblica veneta ma dell’intero Occidente e se il suo sfarzoso carnevale era l’immagine della pienezza di una civiltà, la Venezia dei falsari veri e dei pittori falsi, di quadri veri che diventano falsi e viceversa, della festa carnevalesca dove alle stanche orge si mescola la cocaina, appare come lo scenario mortifero e grottesco della dissoluzione di quella pienezza. Il caos si colloca prima del principio ordinatore che ne fa un cosmo; oppure dopo, successivamente alla fase terminale di un cosmo che è divenuto entropico e si scioglie di nuovo nel caos.