INTORNO A PROMETEISMO E TRANSUMANISMO

Recentemente il termine prometeismo è tornato in auge insieme a un altro di conio più recente: Antropocene. In merito al primo termine, alcuni studiosi hanno proposto una lettura che, partendo dal mondo preistorico, individua due diverse forme di prometeismo: la prima volta alla distruzione l’altra positivamente orientata.1 Il quadro che ne esce, tuttavia, è altrettanto problematico, perché individuare due tendenze opposte (lo sdoppiamento) rischia di essere un’operazione d’inutile buon senso al punto in cui ci troviamo; così come il ripetersi a ogni occasione che la tecnologia può essere buona o cattiva e dipende da come la si usa. Rimanere dentro tale senso comune non può più aiutarci a comprendere il presente. L’emergenza climatica, il rischio di ripetersi di pandemie innescate dallo spillover, a sua volta agevolato dagli allevamenti intensivi, non permettono più di considerare il prometeismo nei suoi aspetti positivi, se non evidenziandone valenze diverse rispetto a quelle storicamente valorizzate, tutte incentrate sull’esaltazione della potenza. Ancor peggio, poi, se lo scontro fra le due tendenze viene accolto come una sorta di sfida fra due diversi titanismi. Il prometeismo è diventato un vicolo cieco, sebbene il mito da cui deriva e il personaggio Prometeo, meritino una riflessione assai più attenta a partire dall’opera di Mary Shelley a lui dedicata, Frankenstein, or the modern Prometheus. L’importanza dell’opera di Shelley sta nel mettere in scena un Prometeo che non vuole più dare agli umani gli strumenti per poter vivere meglio, ma vuole creare una seconda natura con le proprie mani. La differenza fra l’opera di Mary Shelley e le distopie proposte da altri autori, specialmente quelle che verranno scritte in pieno ‘900, è che lei è la sola a non manifestare alcun ammiccamento o collusione fascinosa con la tematica oggetto del romanzo. Il suo intento sono la denuncia e la paura, che non si ritrovano invece in molti romanzi successivi, in cui l’autore di fatto collude con la distopia che mette in scena e in alcuni casi addirittura esibisce in modo narcisistico il proprio cupio dissolvi. Pubblicata nel 1818, Shelley modificò in parte il romanzo nel 1831 quando uscì la seconda edizione: come tutte le storie gotiche ha alcune caratteristiche tipiche del genere letterario che possono fuorviare dal nucleo e dalla sua origine e cioè un incubo che lei ebbe a seguito di un gioco di società inventato da Byron e dalla sorellastra di Mary, Claire Clarmont. Il gioco consisteva nell’inventare fiabe e narrazioni di fantasmi, ma senza trascurare il fatto che fantasie scientifiche, scoperte reali e narrazioni horror – diremmo oggi – si mescolavano facilmente in molti ambienti in quegli anni. Mary Shelley, forse influenzata dalle scoperte dell’abate Galvani, sogna quello che sarà poi il tema centrale del suo romanzo: un uomo che assembla i pezzi di un altro essere fino a infondergli la vita. L’incubo la terrorizza e lei decide di scrivere proprio per liberarsene, ma la scelta di definire il professor Frankenstein come il moderno Prometeo pone il romanzo ben oltre il genere di appartenenza e per noi che siamo da tempo prigionieri di una commistione perversa fra capitalismo e Big Science, possiamo proiettare l’opera della scrittrice britannica nel futuro. La visione di una seconda natura ha in questo slancio prometeico e titanico al tempo stesso, le sue ragioni d’essere, le stesse che in parte abbiamo trovato anche nel Romanticismo e ancor più nella mitologia intorno al medesimo: gli anni sono quelli. Nel romanzo, la creatura mostruosa decide alla fine di darsi lei stessa la morte.2 Il Prometeo di Mary Shelley è la visione più potente dell’homo capitalistis e prometeico (uso l’espressione dandole anche un significato di genere) coniugato all’esaltazione delle tecnologie nella loro proiezione storica e forse non è un caso che a scriverlo sia stata proprio una donna. Si pensi al ruolo esponenziale delle protesi, alla robotica estesa fino a fare dei robot delle badanti e ora anche delle amanti come nelle più recenti declinazioni giapponesi. Si pensi alle visioni fra l’apocalittico e il fantascientifico di certi guru della Silicon Valley che vagheggiano la possibilità di superare per sempre la morte tramite l’ibernazione, le tecnologie di sostituzione degli organi, o la manipolazione del DNA, le fughe su astronavi alla ricerca di altri mondi in cui vivere.3 Il transumanismo coniugato all’onnipotenza tecnologica è l’estrema propaggine delle distopie e delle narrazioni apocalittiche attuali e non è un caso che nasca in ambienti anglo statunitensi, in una commistione perversa fra millenarismo, letture catastrofiche dell’Apocalisse di Giovanni e deliri tecnologici autodistruttivi. Sulle narrazioni tossiche contemporanee il libro Una vita liberata di Roberto Ciccarelli è quanto mai prezioso.4 In esso l’autore affronta in un capitolo specifico e qui e là nell’intero saggio, il significato attuale delle molte narrazioni catastrofico-apocalittiche che si sono susseguite, specialmente dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19. Il suo giudizio è netto: tali narrazioni tossiche confondono fine del mondo con fine di un mondo e si pongono come forme di falsa coscienza e rivoluzione passiva che trova tuttavia collusioni anche in chi critica l’ordine neoliberale. L’analisi di Ciccarelli quanto mai convincente per quanto mi riguarda, ha il merito fra l’altro di mettere in evidenza, seppure sotto traccia, come tali narrazioni nascano in un humus culturale definito, il medesimo peraltro in cui sono nate la maggiori distopie da un punto di vista letterario

Disastri veri e apocalissi fasulle

Nessun genere letterario è più anglo statunitense della distopia, ma ciò che è più interessante per il contesto oltre atlantico, è la commistione fra tecnologia, catastrofismo apocalittico, misticismo e pensiero empirista, che si riscontra anche in molti romanzi, ma che appartiene anche a una élite che fa parte di un establishment trasversale alle diverse presidenze Usa. Il grande modello o archetipo che sta alle spalle di molte narrazioni distopiche è proprio l’Apocalisse di Giovanni, sia nella versione etimologicamente corretta del termine e cioè di rivelazione e anche di missione messianica, sia in quello corrente di catastrofe. Il testo ha profondamente influenzato la cultura statunitense delle origini, sia nel senso proprio di rivelazione, sia nell’altro senso. Alcuni degli elementi fondanti di questa formazione discorsiva si trovano nell’esperienza empirica dei coloni puritani sbarcati nell’America del nord e sono riassumibili a mio avviso in alcuni punti, di cui i primi due sono i pilastri portanti e gli altri due il trascinamento sul suolo americano di formazioni discorsive nate in Europa: la predestinazione, il primato dell’individuo sulla società e la comunità, la natura come oggetto da asservire, la tecnologia e il calcolo come strumenti di tale asservimento.

La predestinazione.

Grazia e predestinazione alla salvezza sono una coppia importante e la seconda parola è una traduzione possibile dell’immagine dei Marcati e dunque dei salvi a priori che si trovano nell’Apocalisse di Giovanni. A questo si aggiunga il fatto che secondo il protestantesimo radicale di Calvino, è proprio il successo mondano uno dei segni possibili della grazia. Ora, se si pensa agli inizi dell’avventura coloniale, alle indubbie difficoltà nell’approdare in un luogo in parte sconosciuto, la capacità di resistere e di farsi largo in quel mondo (sto adottando provvisoriamente il loro punto di vista e non quello dei popoli nativi ovviamente) tutto questo poteva facilitare la convinzione di essere stati predestinati a una missione divina. L’idea più volte ripetuta in tutti i discorsi presidenziali statunitensi – più accentuata in quelli democratici – di una missione degli Usa nel mondo ha le proprie radici proprio in questa narrazione, che tuttavia ha nutrito anche un pensiero laterale democratico come quello, per esempio di Thoreau. Tale presupposto fondante, forse il più importante, non ha se non in minima parte le proprie radici in un pensiero genericamente illuminista, né deriva di per sé dalla concezione che ispirava i rivoluzionari francesi, ma costituisce già in origine una formazione discorsiva che ha obiettivi ben diversi, perché i due contesti sono diversissimi. I diritti dell’uomo e del cittadino nascono prima di tutto in contrasto con l’assolutismo, sono quindi diritti del cittadino singolo rispetto al dispotismo del sovrano e dell’aristocrazia, ma sono anche diritti del popolo e quindi della comunità, tramite il parlamento e il suffragio. Non è affatto vero che la filosofia di fondo che ispirava la prima carta costituzionale francese fosse quella di un individualismo esasperato. I suoi limiti erano di genere e di classe. Il contesto statunitense è totalmente diverso.

L’individualismo statunitense.

Quegli uomini (e il termine va preso alla lettera perché le donne erano escluse), erano già liberi, i nativi per loro erano solo selvaggi che non ponevano problemi di ordine giuridico e costituzionale e neppure morale – se non per alcuni – mentre aristocrazia e assolutismo se li erano lasciati alle spalle in Europa. L’idea di una preminenza dell’individuo sulla società e la comunità – parole che non uso per caso al posto della parola Stato –  non è la traduzione americana dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma piuttosto una formazione discorsiva nella quale confluiscono l’assolutizzazione di una concezione della salvezza che è solo individuale (tipica delle versioni più estreme del protestantesimo), un’idea d’individualità come misura di ogni cosa che ha una qualche radice nel solipsismo filosofico di Barkeley, sostenuta probabilmente anche sulla visione ingenua di un teismo che riconosceva nella vastità del territorio vergine e ricchissimo da conquistare e occupare un’immagine possibile del Paradiso Terrestre o almeno di quella prefigurazione della fine dei tempi e della tenda di dio in mezzo agli uomini di cui parla l’Apocalisse. Dicendola un po’ più alla buona: se c’è posto per tutti perché preoccuparsi della società? Che ognuno faccia di se stesso una società o la comunità che vuole, pianti la sua bandiera dove arriva, si armi fino ai denti, recinti la sua conquista per stabilire che quel territorio è di sua proprietà, al massimo estendendola alla famiglia, unica istituzione riconosciuta nel passaggio aldilà dell’Atlantico. Proprietà e famiglia – entrambe armate come sancito dalla costituzione degli Usa –  sono gli ambiti sociali per eccellenza tutto il resto va soltanto limitato nei suoi poteri.

La natura da asservire.

Non è ovviamente una prerogativa statunitense ma di tutto il pensiero occidentale, almeno da un certo momento in poi; tuttavia, nel passaggio al nuovo continente essa si radicalizza e una delle ragioni sta proprio nella vastità del territorio. Poche parole sono necessarie in questo caso: la narrazione della frontiera e dell’espansione verso ovest parla da sola ed è in realtà una narrazione che nega l’esistenza della frontiera e cioè del limite. Infatti, non appena ultimata la conquista, non appena finite le guerre indiane, l’espansione a occidente si tramuterà nel giro di pochi anni in una attitudine imperiale (uso il termine in alternativa a imperialismo che significa altro) e aggressione agli stati vicini (la guerra ispanica del 1888). Per apprezzare meglio il passaggio che riconnette mistica e tecnologia, invece, mi servirò di un libro dello storico statunitense David Noble, intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito d’invenzione. Scelgo questo libro perché è una raccolta di citazioni molto importanti intorno a questa tematica, per cui il lettore non deve fare la fatica di andarsele a cercare. Non sempre le tesi conclusive e le deduzioni di Noble sono accettabili e talvolta troppo ingenue, Più sociologo che filosofo Noble tende alla fine a una visione troppo parziale, però la mole di materiali che egli ha raccolto è indubbiamente impressionante. Mi servirò del suo libro in questo senso cercando però di inserirlo in un quadro più ampio di quanto non faccia il sociologo statunitense. Noble parte da un’osservazione empirica che viene dalla lettura dei testi sacri: come la tecnologia sia stata considerata, dal Medioevo in poi, un’arma affidata dal dio cristiano ai fedeli per combattere il male. Questo vale sia per le tecnologie agricole messe a punto dai monaci benedettini, ma anche per le armi con cui combattere gli infedeli, come si evince da questa citazione tratta dal Salterio di Utrecht:

I malvagi si accontenteranno di usare un’affilatrice di vecchio stampo; i devoti invece … la prima manovella usata fuori dalla Cina e applicata alla prima mola conosciuta al mondo. Ovviamente l’artista vuole dirci che il progresso tecnologico è volere di Dio.

Non solo i padri della Chiesa come Agostino, ma anche eretici o mistici visionari quasi all’indice condividono questo pensiero: da Gioacchino da Fiore a Raimondo Lullo. Nella seconda parte del libro, intitolata Tecnologie della trascendenza,  il libro di Noble affronta il nesso fra tecnologia, potere politico e millenarismo nella contemporaneità ed è qui che entra in scena Hume. Perché, fino a tutto il Medioevo, l’ipotesi di una tecnologia al servizio di dio piuttosto che dei malvagi, si ammanta solo di espressioni metaforiche e in fondo abbastanza ingenue. Quando però tale pretesa diventa calcolabile e si ammanta di oggettività tecnologica assurta a verità teologica, essa produce degli effetti che nei successori, atei o credenti che siano, porta alle aberrazioni qui di seguito. Secondo Edward Fredkin, vi sono stati tre grandi eventi di uguale importanza nella storia dell’universo. Dopo aver detto che il primo è la creazione stessa dell’universo e il secondo l’apparire della vita, eccoci al terzo: 

Penso che la nostra missione sia quella di creare l’intelligenza artificiale, è il prossimo passo dell’evoluzione.

Sempre più preso dall’entusiasmo il nostro si domanda addirittura come mai dio non ci abbia pensato lui a crearla. Ma chi è Fredkin? Ovviamente uno scienziato che si occupa di intelligenza artificiale, ma anche un consigliere di diversi presidenti.  Ma c’è di più. Nel capitolo viii del libro di Noble, dal titolo significativo “Armageddon, la battaglia finale: le armi atomiche”, Noble cita scienziati e politici anglo statunitensi, che sembrano parlare come mistici invasati, ma dotati appunto di un potere tecnologico immenso. Una sola citazione per tutte: 

La bomba atomica è la buona novella della dannazione.

Mi sono chiesto cosa ci sia dietro questo narcisismo della distruzione che alberga nella cultura anglo-americana come in nessun’altra e che ritroviamo puntualmente anche nelle distopie. Nel caso della citazione finale forse la chiave di comprensione diventa assai semplice. Una mondità del tutto affidata al caos, alla legge del più forte e senza alcuna speranza di salvezza e redenzione, alla lunga diventa insopportabile anche per chi la persegue: il mito di Armagheddon e cioè la lotta finale e definitiva fra il bene e il male quanto prima arriva tanto meglio è: ciò giustifica ampiamente il paradosso di una buona novella della distruzione: un vero e proprio corto circuito che chiude il cerchio e che spiega anche l’eclatante deriva complottista e negazionista  – prima del Covid e poi del voto – che ha avuto come protagonista addirittura un presidente eletto. Questa miscela esplosiva di razzismo, deliri tecnologici e pseudo misticismo è nel Dna dell’uomo bianco statunitense fin dalle origini. Non bisogna farsi illusioni sulle intenzioni dell’establishment nordamericano. La politica estera statunitense conosce solo due principi: Carthago delenda est e Vae victis, perché senza nemico esterno, il suo fronte interno si disgregherebbe subito, la guerra civile e le spinte secessioniste sono sempre latenti in ogni momento della sua storia. Il problema non è se potranno cambiare, ma se potranno continuare a farlo oppure no. Come per tutte le distopie, infatti, non è detto che riescano a trionfare; anzi, fanno di certo molti danni ma alla fine non trionfano.


1 Il primo studioso a proporre una definizione specifica per l’era in cui la Terra è massicciamente segnata dall’attività umana fu il geologo Antonio Stoppani nel 1873. Successivamente il geochimico russo Vernadskij definì il periodo col termine di noősphera (ossia mondo del pensiero) per sottolineare il potere crescente della mente umana nel modellare il suo futuro e l’ambiente; lo stesso termine venne usato dal paleontologo e pensatore cattolico Teilhard de Chardin. Nel 1992, Andrew Revkin ipotizzò la creazione di una nuova epoca geologica chiamata Antrocene. Il termine fu diffuso negli anni ottanta dal biologo naturalista Eugene F. Stoermer e adottato successivamente da Paul Crutzen. Successivamente Crutzen formalizzò il concetto in opere quali l’articolo Geology of mankind, apparso nel 2002 su Nature e il libro Benvenuti nell’Antropocene. Per quanto riguarda invece il termini prometeismo, mi riferisco ad alcuni saggi comparsi in Sinistra in rete. Riporto il nome degli autori di alcuni di essi: Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli con un articolo dal titolo L’assalto al cielo, Bellamy Foster – La dialettica della natura di Engels e l’antropocene; infine ancora Burgio, Leoni e Sidoli con Homo Prometeous e marxismo prometeico.

Due libri recenti, il primo scritto congiuntamente da David Graeber e da David Wengrow – L’alba di tutto – e il secondo del solo Graeber – Il debito i primo 5000 anni – sono decisivi nel proporre uno sguardo diverso dalle narrazioni correnti anche sul tema del prometeismo.

2 Figlia di Mary Wollstonecraft e di William Godwin, cresciuta in un ambiente ricco culturalmente e dove l’emancipazione femminile era considerata un valore, Mary Shelley, ha avuto un ruolo importante nella cultura di quegli anni. Il modo in cui termina il suo romanzo è governato dalla pietas, un sentimento che la distanzia ulteriormente da ogni forma di ammiccamento e titanismo, anche involontari. La scelta della creatura mostruosa di darsi lei stessa la morte sta all’opposto del nichilismo e suona come una denuncia delle pretese del suo creatore. Una eco di questa soluzione a me sembra sia stata ripresa nel primo Blade runner e precisamente nell’episodio finale della morte del replicante con il suo celeberrimo monologo. Quanto alla ricezione della sua opera presso di noi, fino al 1970  è stata principalmente conosciuta per l’apporto che ha dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il suo romanzo, che ebbe grande successo e ispirò numerosi adattamenti teatrali e cinematografici. Studi recenti hanno però permesso una più profonda conoscenza del profilo letterario di Mary Shelley; in particolare, questi studi si sono concentrati su opere meno conosciute dell’autrice, tra cui romanzi storici come Valperga, romanzi apocalittici come L’ultimo uomo. Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggio A zonzo per la Germania e l’Italia contribuirono a fare di Mary Shelley l’esponente di una politica radicale, ma anche in opposizione agli ideali romantici ma individualisti che ispirarono in particolare William Godwin. La sua istanza politica era molto più indirizzata nel senso della cooperazione sociale, distanziandosi così sia dal padre sia da Percy Bessie Shelley.

3 Gli articoli e le interviste a manager, esponenti a vario titoli delle più importanti major statunitensi della Silicon valley sullo sfidare la morte, sono continue. Il Sole 24 ore ha pubblicato diversi articoli al proposito, ma è sufficiente aggirarsi nella rete per trovare tutto quello che serve per informarsi. Citarne una o l’altra non ha molta importanza.  Riporto soltanto l’indicazione di questo articolo dell’Huffington Post: https://www.huffingtonpost.it/2017/01/26/miliardari-silicon-valley-preparano-per-apocalisse_n_14413104.html

4 Roberto Ciccarelli, Una vita liberata Derive Approdi, Roma 2002.

LA MONACA SENZA MONASTERO

Introduzione 1

Marianne Moore nasce a Kirkwood nel Missouri. Figlia di un ingegnere e inventore, cresce nella casa del nonno. Nel 1905 frequenta il Bryn Mawr College in Pennsylvania, ove si laurea quattro anni dopo. Insegna all’Indian Industrial School di Craslile fino al 1915, l’anno che segna una svolta nella sua vita perché comincia a pubblicare poesie. Viaggia molto in Europa, in compagnia della madre. Come osserva Laura Cantelmo,2 quello compiuto dalle due donne è un vero e proprio Grand Tour in stile ottocentesco, ma avvenuto negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale. Le tracce della presenza di Moore nei luoghi canonici dove gli artisti di tutto il mondo si ritrovano (Parigi, per esempio), sono scarse, per il semplice fatto che  – pur frequentandoli – lei mantenne riservata la propria identità; difficile, peraltro, immaginarsela a fare bisboccia e a ubriacarsi in un bistrot insieme a Joyce o a Picasso! La sua poesia attira l’attenzione di Ezra Pound, William Carlos Williams, Hilda Doolittle; ma specialmente di T.S. Eliot e di W. Auden, che scriveranno su di lei due celebri saggi. Dal 1925 al 1929, lavora come editore della rivista letteraria e culturale The Dial. Fu grazie a lei che pubblicarono i primi versi Elizabeth Bishop e Allen Ginsberg. La sua fortuna è costante, ma lei è del tutto schiva e per niente incline a partecipare intensamente alla vita letteraria, se non tramite le corrispondenze e qualche lettura pubblica, oltre che naturalmente nel ruolo di editore. Nel 1951 venne premiata con il Pulitzer e il Bolligen Prize. Piuttosto che frequentare gli ambienti letterari, preferisce gli incontri di pugilato o di baseball e in generale le manifestazioni sportive, cui si reca indossando un cappello a tricorno e un mantello nero. È una grande ammiratrice di Mohammed Alì.

Non è mio costume iniziare un saggio su un poeta, o chiunque altro, dalla sua biografia, ma nel caso di Marianne Moore vale la pena di farlo perché pochi altri artisti e artiste della sua grandezza sembrano del tutto fagocitati dalla loro opera, tanto da vivere solo in essa. In Moore, però, c’è anche qualcosa di più e di ancor più affascinante: perché, come abbiamo visto, era anche profondamente radicata nella società nei suoi aspetti popolari più vistosi. Baseball e pugilato sono quanto di più statunitense e maschile si possa immaginare.

Nel saggio più importante a lei dedicato, T.S. Eliot afferma, fra l’ altro, che:

… le sue poesie fanno parte del piccolo corpo della poesia durevole, scritta nel  nostro tempo; di quel piccolo corpo di scritti, in mezzo a ciò che passa per poesia, nel quale una sensibilità originale e un’intelligenza alacre e un sentimento profondo si uniscono a tenere in vita la lingua inglese. 3

Tenere in vita una lingua non è davvero cosa da poco. La sua poesia, però, non ammalia il lettore con fuochi artificiali, ma gli impone una severa disciplina dell’ascolto. Lina Angioletti ha fatto un lavoro egregio nel tradurre un testo che vede il compasso fra l’italiano e l’inglese, aprirsi al massimo della sua estensione. Tutto in Moore è statunitense, linguisticamente; nonostante dietro ogni testo si avverta la presenza di una cultura che travalica i confini americani e sa essere vastissima e profonda, nonostante l’eclettismo.

Il Bestiario

La capacità di Moore nell’osservazione della natura sa mantenersi in equilibrio fra esprit de geometrie ed esprit de finesse, sa alternare il microscopio al telescopio, ma sempre tenendo il rigore scientifico a contatto con la sapienza del cuore. Fatta questa premessa, la sua opera potrebbe essere descritta come una straordinaria Arca di Noè, dove trovano posto specie reali e immaginarie, qualcuna estinta. Eppure, se pensiamo ai bestiari tradizionali, oppure al modo in cui l’animale è stato rappresentato nel cinema americano del ‘900, da Walt Disney per esempio, si coglie subito la distanza che separa i suoi animali da quelli rappresentati da altri. La differenza è ancora più vistosa se si considera che Moore era una profonda conoscitrice dei maggiori autori che ne hanno trattato: infatti, che fra le sue opere spicca la traduzione delle favole di La Fontaine. Inoltre, si può intuire da molti riferimenti, che i classici greci e latini costituiscono una parte importante del suo patrimonio culturale. Tale diversità poggia, a mio avviso, su due pilastri: prima di tutto la considerazione che quella umana è una specie animale come le altre, con caratteristiche di speciazione proprie. Questo primo aspetto taglia alla radice la tentazione di rendere l’animale antropomorfo. Il secondo pilastro è l’identificazione con l’animale, come avviene per esempio in questo testo densissimo, che si colloca a metà strada fra una dichiarazione di poetica in versi e lo svelamento del suo atteggiamento esistenziale.

Emerges daintly, the shunk -/don’t laugh – in sylvan black and white chipmunk/regalia. The inky thing/adaptedly white with glistening/goat-fur, is wood-warden. In his/ermined well-cuttlefish-inked wool. He is/determination’s totem. Out-/lawed? His sweet face and powerful feet go about/in chieftan’s coat of Chilcat cloth.//He is his own protection from the moth,//noble little warrior. That/otter-skin on it, the living pole-cat,/smothers anything that stings. Well, – /this same weasel’s playful and his weasel/associates are too. Only/wood-weasels shall associate with me./

 /si affaccia con grazia, – non ridete -/ la puzzola con le insegne silvestri,/bianche e nere dello scoiattolo. Fatta d’inchiostro,/mascherata di bianco in una lucida/pelliccia di capra. È custode del bosco. Nella sua/ ermellinata, intinta nell’inchiostro della seppia,/è il totem della determinazione/È un fuorilegge? Il muso dolce e le zampe potenti/vanno in giro in un manto regale di panno di Chilcat./ Trova in sé la protezione dalla tarma,//minuscola e nobile guerriero. Quella/pelle di lontra che la copre, la moffetta vivente,/spegne qualunque aculeo. Ebbene,/questa stessa mustela ama giocare,/e come lei le sue compagne. Solo/le mustele del bosco saranno mie compagne./ 4

Ciò che colpisce in questi versi è la sapiente mescolanza di esattezza della descrizione, tenerezza e ironia: frutto di una lunga osservazione e di un’attenzione viva al dettaglio minimo. Il linguaggio ricercatissimo, fatto di un lessico preciso ma non proprio comune, arricchisce il manto dell’animale e lo fa risaltare in tutta la sua ricchezza. La puzzola, tuttavia, è nota anche per l’odore sgradevole che emana per tenere a distanza gli indesiderati. Non ridete, esorta la poetail lettore a fare, poi lo invita a seguirla in una descrizione che è un piccolo capolavoro di virtuosismo: alla fine scatta l’identificazione, assai ambivalente e capace di affermare quel tanto che basta intorno a se stessa. Figlia del bosco e della macchia lei stessa, così attenta nel tenere a distanza critici, chiacchieroni e uomini, Moore si sente vicina alle mustele, ma il verso finale indica anche l’opposto e cioè che saranno loro a cercarla per associarsi con lei: nel reciproco possibile riconoscimento e dunque nella identificazione seppure parziale con l’animale, si rivela (nel doppio senso del verbo), ma solo per un attimo, quel desiderio intimo di distanza dai propri simili che Marianne Moore ha coltivato per una vita intera. L’appartenenza di tutte le specie animali alla natura organica disegna il perimetro della comunanza che quella umana intrattiene con la fauna e in misura minore la flora (presente, seppure non con la stessa abbondanza nella sua opera). Ciò che manca nella poesia di Moore è la certezza tutta umana della superiorità, per decreto indiscutibile, di una specie sull’altra e della nostra su tutte le altre. Rispondo subito a un’obiezione, che sarà forse già sorta nel lettore: è pur sempre un occhio umano quello che osserva e una mano umana quella che scrive. L’obiezione è sensata, ma se ci si ferma a tale constatazione credo si rischi di rimanere ai margini esterni della poesia di Moore. La constatazione ha un valore nel senso di riconoscere che la specie umana ha elaborato un linguaggio con il quale sembra poter parlare e scrivere di tutto e potersi esprimere su qualsiasi argomento: tale tratto costituisce una sua caratteristica di speciazione. Tale constatazione, peraltro, non afferma nulla su come gli animali possano vedere eventualmente noi, cosa che almeno per ora ci è in larga parte preclusa. Possiamo constatare che alcune specie sono in grado di svolgere compiti che noi assegniamo loro; possiamo pure osservare che alcune domestiche sono in grado, fino a un certo punto, di interpretare il linguaggio umano,5 ma riuscire a dire veramente qualcosa su come ci vedano il cane o il gatto di casa, rimane un mistero impenetrabile: figurarsi gli altri animali! Del resto, gli antropologi sono assai cauti quando si tratta di indicare le differenze fra la nostra e le altre specie. Levi-Strauss, per esempio, propose un atteggiamento minimalista, limitandosi a constatare ciò che è visibile: per esempio, che l’animale, a differenza di noi umani, non cuoce il cibo che mangia, sebbene anche in questa materia ci siano stati esperimenti recenti con le scimmie antropomorfe che ridimensionano anche tale aspetto, ma solo limitatamente ai primati a noi più prossimi. Del resto ci sarà pure una ragione per cui tutte le religioni arcaiche nascono intorno all’animale totemico oppure al culto arboreo: la natura organica è da sempre fonte di mistero religioso e non ha mai smesso di esserlo neppure con l’avvento delle religioni positive. Ciò che colpisce nella poesia di Marianne Moore è riscoprire nel cuore di una società iper tecnologica come quella statunitense, la prima natura e la presenza animale come qualcosa di irriducibile. Moore si avvicina a questi fratelli e sorelle viventi con lo stesso ammirato stupore con cui Montaigne, si avvicinava in pieno ‘700 ai popoli lontani per tradizione e costumi dall’Europa. La cultura occidentale, con lui, scopriva l’altro umano da sé, per Moore l’altro da noi per eccellenza rimangono le specie animali diversa dalla nostra. Su questo passaggio chiave s’innesta un altro aspetto della sua meditazione intorno alla cultura di specie: quella umana ha una capacità maggiore delle altre nel rendere visibile e percepibile l’individuo, possiede cioè la possibilità d’individuazione. Sembra tuttavia di capire, dagli esempi scelti e da uno in particolare, che tale prerogativa della specie non sia fra le più notevoli per Moore. La poesia cui mi riferisco è una delle più celebri dell’intera raccolta ed è proprio questa di cui si occupa anche Wallace Stevens nel saggio dal titolo Su una poesia di Marianne Moore:6

He “digensteth harde yron” “Digerisce durissimo ferro”

/Although the aepyornis/or roc that lived in Madagascar, and/the moa are extinct,/the camel-sparrow linked/ with them in size – the large sparrow/Xenophon saw walking by a stream – was and is/a symbol of justice./…

/Sebbene l’aepyornis/o roc, che viveva in Madagascar,/e il moa siano estinti,/il cammello-passero, che è loro parente/per statura – il gigantesco passero/che Senofonte vide presso un fiume – fu ed è/simbolo di giustizia.

L’animale di cui si parla è lo struzzo: la descrizione, ancora una volta, coglie con mirabile esattezza la sproporzione fra la possanza del corpo e la minuscola testa. La combinazione lessicale cammello-passero, esattissima nel descrivere (il movimento ondulatorio della corsa dello struzzo ricorda quella del cammello), non è solo scientifica, ma predispone alla simpatia, che diviene poi empatia. Tuttavia, è il verso finale di questo incipit perentorio ad attirare l’attenzione: perché mai lo struzzo sarebbe un simbolo di giustizia? 

This bird watches his chicks with/a maternal concentration – and he’s/been mothering the eggs/at night six weeks – his legs/their only weapon of defense./…

… How could he, prized for plumes and eggs and young,/used even as a riding-beast, respect men/hiding actor-like in ostrich skins, with the right hand/making the neck as if alive/and from a bag the left hand strewing grain, that ostriches//might be decoyed and killed! Yes, this is he/whose plume was anciently/the plume of justice;…

/Questo uccello vigila i suoi piccoli/con materna attenzione – e le uova/le ha coccolate per sei settimane/anche di notte – le sue zampe  essendo/l’unica arma in loro difesa./

…. Come può lui che è pregiato per le piume, le uova e i suoi piccoli,/ed è usato persino come cavalcatura, rispettare gli uomini/che si mascherano con pelli di struzzo – muovendo/il collo con la mano destra, come se fosse vivo, e spargendo/ con la sinistra il grano che tengono in un sacco//per adescare e uccidere gli struzzi!sì,questo è l’uccello/la cui piuma era nei tempi antichi/la piuma di giustizia;…   

La nobiltà dell’animale e la crudeltà del cacciatore si confrontano in questa densa descrizione e nella scelta della piuma di struzzo come simbolo della giustizia appare quasi il nesso inscindibile e tragico fra senso di colpa e caratteristiche di specie (la nostra è onnivora con tutte le conseguenze del caso, ma è anche predatrice e calcolatrice). Lo struzzo è il solo regale esemplare di altre specie similari ma estinte, un paradosso della natura se si pensa al suo corpo.

/The egg piously shown/as Leda’s very own/from which Castor and Pollux hatched,/was an ostrich-egg….

/L’uovo indicato religiosamente/come l’uovo autentico di Leda,/da cui nacquero Castore e Polluce,/era un uovo di struzzo.

Il richiamo classico conferisce un surplus di nobiltà all’animale, ma apre le porte alla tragica conclusione.

/Six hundred ostrich-brain served/at one banquet, the ostrich-plume-tipped tent/and desert spear jewel-/gorgeous ugly egg-shell/goblets, eight pairs of ostriches/in harness, dramatize a meaning/always missed by the externalist.//The power of the visible/is the invisible; as even where/no tree of freedom grows,/so-called brute courage knows./Heroism is exhausting, yet/it contradicts a greed that did not wisely spare/the harmless solitaire//or great auk in its grandeur:/unsolicited having swallowed up/all giants bird but an alert gargantuan/little-winged, magnificently speedy running bird./The one remaining rebel/is the sparrow-camel./

/Seicento cervelli di struzzo/serviti ad un banchetto, la tenda e la zagaglia/con pennacchi di struzzo, le orrende coppe/ricavate da uova di struzzo e ingioiellate,/otto coppie di struzzi/ben bardati, danno un senso drammatico/a un simbolo che sfugge sempre ai superficiali//La potenza del visibile/ è l’invisibile; e lo sa bene/anche là dove non cresce l’albero della libertà,/il coraggio che chiamano brutale./L’eroismo è qualità estenuante ma non si oppone/a una cupidigia che non ha risparmiato/saggiamente l’innocuo solitario// o la grande la nella sua maestà:/perché l’indifferenza ha sterminato/tutti i maggiori uccelli, tranne questo magnifico corsiero,/alacre Gargantua con ali minime./quest’ultimo superstipe ribelle/è il passero cammello./

L’episodio storico cui si fa riferimento in questi versi è una cena di Eliogabalo, per preparare la quale fu sterminato un considerevole numero di struzzi. Nella poesia di Marianne Moore il modo di concepire il rapporto fra natura e cultura parte dalla considerazione che anche le altre specie animali possiedono una cultura e non semplicemente un adattamento funzionale all’ambiente che popolano, oppure un adattamento forzato, come avviene con le specie più domestiche che finiscono davvero per assumere tratti umani, almeno per quanto attiene ad abitudini, malattie e nevrosi.

Agonismo, mondo animale e umano

La biografia di Marianne Moore non contiene nulla di particolare, a parte il suo curriculum letterario e la passione per due sport come baseball e pugilato. L’eccentricità non spiega da sola tali frequentazioni e neppure le spiega del tutto l’ipotesi che avesse bisogno di un passatempo qualunque per proteggere il suo mondo interiore dalle invasioni della realtà; anche perché, nella parte finale della sua opera, vi sono testi che affrontano di petto queste passioni extra letterarie, specialmente il baseball. L’antagonismo, la sfida, appartengano assai al mondo animale e forse lei vedeva nello sport proprio questo: un aspetto della specie umana che si avvicinava alla lotta animale, mentre non era per nulla interessata alle dispute intellettuali del mondo letterario. Un testo emblematico s’intitola proprio Baseball and writing (Il baseball e la scrittura):

Fanaticism?No. writing is exciting /and baseball is like writing./You can never tell with either/how it will go/or what you will do;/…

Fanatismo? No.Scrivere è eccitante/ e il baseball somiglia allo scrivere./Per l’uno e per l’altro non si può/mai dire come andrà/o che farai/…

It’s a pitcher’s battle all the way – a duel – /A catcher’s, as, with cruel/puma paw…

Battaglia per il pitcher tutto il tempo – un duello -/battaglia per il catcher, se, con quella/sua crudele  zampata da leopardo…  

La poesia prosegue proponendo altri esempi di agonismo animale e si conclude con un vero e proprio inno a questa battaglia, che tuttavia rimane nell’ambito della rappresentazione, dove il conflitto stesso viene ad assumere un’eleganza e un suo stile:

…”Yes,/it’s work; I want you to bear down,/but enjoy it/while you are doing it”./….

/Studded with stars in belt and crown,/the Stadium is an adastrium./O flashing Orion,/your stars are muscled like the lion./

… “Sì,/ è lavoro; voglio vedervi vincere ma voglio/che la vittoria/sia divertimento”.

/Tempestato stelle nella citura e nella corona,/lo Stadio è un adastrio,/O scintillante Orione,/Ogni tua stella ha muscoli degni di un leone./7

Le ragioni di fascino di questa chiusa sono tante, prima di tutto l’analogia fra la cintura di Orione – celebrata anche nel monologo finale di Blade Runner dal replicante morente –  e uno stadio: ancor più l’adastrio, difficile da mettere a fuoco perché la parola riguarda la pallacanestro, ma anche un tipo di gatto e che si trova anche in racconti di fiction. L’insieme si traduce in una linguaggio epico assai originale.

Un altro testo assai significativo è Combat Cultural:

One likes to se a laggard rook’s high/speed at sunset to outly the dark,/or a mount well schooled for a medal;/tucked up front legs for the barrier -/or team of leapers turned aerial.//

Piace vedere il volo di un corvo attardato /che al tramonto vuol battere la note,/o un cavallo ben addestrato a vincere medaglie;con le zampe raccolte a superare la barriera -/o saltatori in gruppo fatti aerei.//

I due animali mettono entrambi alla prova i loro limiti e l’occhio umano che ne ammira le gesta è quasi invisibile. La forza di questo incipit sta nell’immagine sintetica che crea fra la solitudine del corvo proteso nella notte e il cavallo in gara, che, con una rapidissima metamorfosi, diventa prima gruppo di cavalli e poi aerei in volo. Quest’ultima immagine è l’innesco per la seconda quartina, dove la scrivente umana esce dall’ombra:

 I recall a documentary/of Cossacks: a visual fugue, a mist/of swords that seemed to sever/heads from bodies – feet stepping as though through /hatp-strings in a scherzo. However,

Io mi ricordo di un documentario/sui Cosacchi; una fuga visiva una caligine/di spade che sembravano spiccare/teste da corpi – e quei piedi, mobili/come tra corde d’arpa in uno scherzo. A me, però,/

Il richiamo guerresco evocato dalle spade dei Cosacchi avvicina gli umani a un elemento selvaggio che è certamente parte del mondo animale, ma è solo un attimo perché nella quartina successiva avviene un rovesciamento di prospettiva, aperta da quel however che sospende la scena:

the quadrille of Old Russia for me:/with aimlessly drooping handkerchief/snapped lake the crack of a whip;/a deliciously spun-out-level/frock-coat skirt, unswirled and a-droop//in remote promenade…

mi piace di più la quadriglia della vecchia/Russia: quel fazzoletto abbandonato/a caso e colto a volo in uno schiocco/di frusta;e quella gonna delirante/in un vortice e poi distesa e liscia/in una solitaria promenade …

Dalla guerra alla danza con vestiti sontuosi che sfavillano e l’immagine femminile al centro, la guerra stessa diventa simulazione. Nella parte successiva si torna alla lotta. Imprigionati in sacchi scomodi – infondo come lo sono le divise militari – i combattenti esprimono nella loro gestualità:

… “Some art, because of high quality,/is unlikely to become high sales”;

 Un’arte che, per l’alta qualità/non sarà mai merce d’alto consumo

Infine la chiusa:

 These battlers, dressed identically – /just one person – may, by  seeming twins,/point a moral, should I confess;/we must cement the parts of any/objective symbolic of sagesse.

Combattenti vestiti in modo identico – /una persona sola – ci sembrano gemelli e perciò possono,/lo confesso, indicarci una morale: noi dobbiamo/cementare le parti di qualunque/obiettivo simbolico che esprima la sagesse./

Non ho trovato altri testi in cui la lotta animale si ammanti di un richiamo alla guerra così esplicito, a cominciare dal titolo – Combat. Il concatenarsi rapidissimo di analogie conferisce a queste quartine, dalla posa così composta sulla carta, un ritmo vertiginoso. Il corvo che combatte con la notte è anche un animale che evoca sventura e infatti dal cavallo in gara si passa all’animale come strumento di guerra: l’addomesticamento e il suo uso bellico furono infatti la prima trasformazione tecnologica che diede ai combattenti la superiorità su altri. Questa poesia fa parte della raccolta Oh, essere un drago, siamo nella parte finale della sua opera poetica, successiva al 1951, l’anno in cui Moore aveva ottenuto i maggiori riconoscimenti: è un testo che risente senz’altro di lunghe riflessioni sul tema della guerra che, seppure lontana dal continente americano, aveva toccato da vicino la generazione cui Moore appartiene ed era poi continuata con la Guerra Fredda. Proprio per la sua unicità va considerato a mio avviso come un testo definitivo. Anche nella guerra è attivo un elemento estetico e Moore non lo esorcizza, ma nel monito finale emerge la necessità di saper trasformare in elemento simbolico la lotta, prima che essa degeneri in altro. Il simbolico occupa in questa poesia lo stesso ruolo che i rituali di combattimento e sottomissione hanno nel mondo animale ed è il solo strumento per la specie umana per trasformare la guerra in altro. Quando gli umani non sono più in grado di fare questo, sappiamo cosa accade; ma questo spiega anche l’attaccamento della poeta al mondo animale. In una delle sue incursioni pubbliche, ecco infatti come Moore risponde a una domanda dei suoi interlocutori su tale argomento:

Perché questo smoderato interesse per gli animali e per gli atleti? Sono soggetti ed esemplari d’arte, non credete? E pensano ai fatti loro. Pangolini, buceri, giocatori di baseball: né curiosi, né predaci – non tirano mai in lungo la conversazione; non ci mettono in soggezione; sono nella loro forma migliore quando meno ci badano…” 10

Quando lessi per la prima volta questa risposta, mi sovvenne un’immagine famosa: quella di Marilyn Monroe in compagnia del giocatore di baseball Joe Di Maggio. Nella fotografia lei cammina con un’espressione delle sue, fra lo svagato e il seducente, mentre lui le trotterella a fianco, con il suo corpo massiccio, un volto da luna piena dal sorriso francamente ebete, immagine di un tipo di sportivo che sa fare solo quello che sa fare e niente altro, incarnando una specie di perfezione del gesto o della prestazione dentro la quale si risolve felicemente tutta la sua umanità. Forse era proprio questo che attirava anche Moore: una forma di innocenza primaria, la ricerca di una verginità degli esseri viventi che lei – educata alla rigida etica presbiteriana –   spingeva oltre l’umano, oltre lo stesso peccato originale.

L’umano e la storia nella poetica di Moore

Proprio l’incursione nel mondo dello sport permette di aprire lo sguardo sul continente più misterioso della poesia di Moore: quale immagine dell’essere umano ci restituiscono i suoi versi? Per guardare all’umanità Moore sceglie pochi esempi emblematici, uno in particolare: l’istituzione che per eccellenza fa da cerniera fra personale e pubblico, fra domestico e sociale e cioè Il Matrimonio, una delle istituzioni che più allontana la specie umana dalle altre, nonostante qualunque specie abbia le proprie modalità di socialità e riproduzione della vita. Il testo, assai complesso e denso, si presenta come un vero e proprio trattatello in forma di poesia, ma è anche fortemente teatrale, con veri e propri dialoghi interni fra i due protagonisti principali. Il rifiuto radicale e irriducibile del matrimonio come istituzione è espresso in modo netto nel suo incipit, che ha la funzione di una chiave musicale che stabilisce il tono e il timbro dell’opera intera.

/This institution,/perhaps one should say enterprise/out of respect for which/one says one need not change one’s mind/about a thing one has believed in,/requiring public promises/of one’s intention/to fulfil a private obligation:/I wonder what Adam andEve/think of it but this time,/this fire-gilt steel/alive with goldeness;/how bright it shows – /“of circular traditions and impostures,/committing many spoils”,/requiring all one’s criminal ingenuity/to avoid!/Psychology which explains everything/explains nothing/…

Questa istituzione,/o forse è meglio definirla impresa,/ in ossequio alla quale/si suol dire che non bisogna mutare d’opinione/su una cosa in cui si sia creduto,/che pretende pubbliche promesse/di tener fede/a un obbligo privato:/mi domando che cosa ne pensino/Adamo ed Eva,/di  questo acciaio indorato a fuoco,/tutto lucente d’oro;/e come splende -/di tortuoso tradizioni e inganni,/che sono causa di tante rovine,/a cui si può sfuggire solamente/con tutta l’inventiva criminale!/La psicologia che spiega ogni cosa/non spiega niente,/8

La perentorietà di questi versi va considerata anche tenendo conto che si tratta di una poesia scritta nel 1923, quando movimenti di contestazione del matrimonio non erano neppure pensabili. Nella cultura anglosassone esistevano precedenti illustri fra ‘700 e ‘800, oppure in Europa a seguito della diffusione di idee anarchiche e socialiste; ma erano suggestioni che poco avevano messo radici aldilà dell’oceano. Eppure, come vedremo in certi passaggi, Moore anticipa – a modo suo – istanze femministe che appariranno negli anni ‘70. Certo, gli anni ’20 sono anche quelli definiti ruggenti e immortalati nei romanzi di Fitzgerald, durante i quali – per citare un sociologo di quegli anni: le donne che frequentavano i bar clandestini dove si bevevano alcolici non assomigliavano più alle nostre nonne – ma riguardavano una porzione di mondo che poco interessava a Moore. Inoltre, ciò che colpisce di questo incipit è l’assenza di preambolo, la poesia inizia in medias res e denuncia la lunga riflessione ed elaborazione interiore che la precede; se tutti i testi di Moore appaiono pensati e meditati a lungo, frutto di osservazioni minuziose e reiterate nel tempo, questo è certamente uno dei più meditati. In secondo luogo, la lunghezza stessa del testo e l’ampiezza dei temi trattati; tanto che lo si potrebbe definire un poemetto con una sua autonomia rispetto all’insieme dell’opera. La chiusa dell’incipit – la psicologia che non spiega nulla – è la metafora di tutto ciò che il linguaggio poetico di Moore rifiuta, a cominciare dagli orpelli che le nuove scienze umane, psicanalisi compresa, hanno costruito intorno al rapporto fra i sessi e l’eros. Definito così il perimetro entro il quale si muove il testo, Moore risale alle origini del mito biblico, chiedendosi cosa ne pensassero Adamo ed Eva del primo tentativo di matrimonio fallito. Prima di arrivare al dialogo serrato fra loro due, Moore delinea i caratteri dei due personaggi. 

… Eve: beautyful woman -/I have seen her/when she was so handsome/she gave me a start,/able to write simultaneusly/in three languages – /English, German and French – /and talk in the meantime:/equally positive in demanding a commotion/and in stipulating quiet:/”I should like to be  alone”;/to which the visitor replies,/”I should lie to be alone:(/why not to be alone together?”

… Eva: una donna stupenda -/io l’ho veduta/quando era così bella/da farmi sussultare,/capace di scrivere simultaneamente /in tre lingue diverse -/inglese, tedesco, francese – : /e di parlare nello stesso tempo;/perentoria nel chiedere emozioni/come nel contrattare la sua quiete:/ A me piacerebbe restar sola”;/cui l’ospite risponde:/”A me piacerebbe restar solo;/perché non stare soli insieme allora”?/

Eva è dunque una donna moderna che potremmo definire emancipata – tanto che forse nel nostro immaginario finisce per assomigliare più a Lilith che a Eva – ; questa parte del testo si conclude con la proposta di un patto che viene da Adamo: perché non essere soli insieme?

La descrizione di Adamo è ambivalente: Anche lui ha la sua bellezza ma è anche distressing, parola che può essere tradotta con sconvolgente (è la scelta di Lina Angioletti) ma anche con angosciante. Anche Adamo è magnifico, ma è pure un mostro mitologico, nel senso che può parlare di tutto: dalla storia, al bene e al male come se fosse lui stesso un idolo. Anche in questo passaggio Moore anticipa una critica degli atteggiamenti patriarcali maschili che sarà un tratto del pensiero femminista. Dopo la descrizione sommaria di entrambi, che verrà tuttavia ripresa in altri passaggi, inizia la drammatizzazione teatrale del loro rapporto. I due dialogano, o meglio esprimono – come se davvero  fossero soli e insieme – i loro punti di vista sull’altro e l’altra da sé, in un crescendo che si presta molto bene alla rappresentazione. Questa parte è la più complessa e densa di citazioni e rimandi interni 9

… He says:- What monarch would not blush/to have a wife/with hair lie a shaving-brush”?/…

Egli dice: Quale monarca non arrossirebbe /ad avere una moglie coi capelli/uguali a un pennello per la barba?/…

L’uomo parla come un monarca, che pretende una donna sempre in ordine e da esibire in società. Lei risponde:

… She says: “Men are monopolists/ of stars, garters, buttons/and other shining baubles”/unfit to be the guardians/of another person’s happiness”./

… Lei dice: gli uomini sono dei monopolisti di “medaglie, bottoni, giarrettiere, e altre scintillanti cianfrusaglie”.- /…

Esteriorità e feticismo hanno sempre a che fare con l’esibizione di trofei. In un crescendo che oscilla fra ironia e invettiva, il dialogo rasenta l’insulto reciproco. Il virgolettato non è un vezzo, ma corrisponde al fatto che esso avviene – in molti casi – tramite citazioni da autori assai famosi o sconosciuti, dui cui Moore si serve per disegnare un quadro che va dall’incomprensione assoluta allo stereotipo di: una moglie è una bara. 10

E ancora:

… She says, “This butterfly/This waterfly, this nomad/that has proposed/to settle on my hand for life”…

Lei dice: “Questa farfalla,/questa mosca d’acqua, questo nomade/che ha chiesto la mia mano/per farvi sopra il nido per la vita”/ -…

… He says, “you know so many fools/whoa re not artists

… Lui dice: “E tu conosci tanti pazzi/che artisti non sono …

Questi due versi sono assai sottili. Alla descrizione della propensione maschile a sistemarsi, il testo giustappone la propensione femminile a lasciarsi intortare da uomini e artisti fasulli e dal dubbio fascino. Tali crescendo paradossali s’interrompono per nuove descrizioni che fanno da contrappunto al non dialogo fra i due contendenti. Assai significativa questa descrizione di entrambi:

 … he loves himself so much,/he can permet himself/no rival in that love

… egli ama se stesso a un punto tale/che in questo amore non si può permettere/ alcun rivale./

…. She loves herself so much,/she cannot see herslf enough – a statuette of ivory on ivory/the logical last touch/to an expansive splendor/arned as wages for  work done

 … lei ama se stessa a un punto tale/ – statuetta d’avorio senza avorio,/ultimo tocco logico/al dilatarsi di uno splendore/guadagnato in mercede di un lavoro compiuto/. ..

Le due forme speculari di narcisismo dimostrano come Moore non ignori affatto la complicità femminile che si offre allo sguardo maschile come orizzonte esclusivo della propria identità negata.  Inseguire tutti i passaggi del testo ci porta in un dedalo di immagini a volte molto efficaci in altre meno, ma la sintesi è evidente in questo passaggio che introduce il finale:

… “Everything to do with love is mystery; it is more tha a day’s work/to investigate this science.”/One sees that  it is rare -/that striking grasp of opposites/opposed each to the other, not to unity,/

… “Tutto ciò che ha a che fare con l’amore/è mistero; e non basta un giorno solo/ad esplorare a fondo questa scienza”./Ci si accorge quanto sia cosa rara – /quel bizzarro insieme di contrasti/opposti l’uno all’altro, non all’unità/ …

Nessun cedimento al mito della complementarietà, magari con il tramite della procreazione e dell’invito cristiano a moltiplicarsi. Quella che Moore mette in scena è un’opposizione irriducibile che solo l’istituzione coatta del matrimonio cerca di ridurre. Al testo, aggiungerei un elemento extra testuale che, tuttavia, alla radicalità dei versi rimanda: la coerenza della poeta statunitense, tanto da apparire come una moderna e sorprendente figura virginea, o una paradossale Persefone, come la definisce Laura Cantelmo nel saggio già citato. Etica ed estetica sembrano combaciare in lei come una sfida aperta al romanzo famigliare, che sarebbe facile tentazione costruirle intorno, esistendone tutti gli elementi, a cominciare dal suo rapporto esclusivo e simbiotico con la madre. Eppure, il farlo sarebbe una scelta del tutto errata. Ogni tentativo di costruire intorno a Moore un’aneddotica, s’infrange contro un muro elastico che è fatto d’ironia e auto ironia. L’immagine che ci ritorna indietro, quanto più si voglia indagare nelle pieghe della sua biografia, è quella della Sfinge; ma una sfinge sempre pronta a sorridere, seppure da una distanza irriducibile per l’interlocutore.

Le note e l’attività editoriale

La lettura delle note permette di reperire le fonti delle molte citazioni e suggestioni, quasi sempre spiazzanti, certamente poco riconoscibili anche da chi possiede una cultura discreta. Esse sono la testimonianza dei suoi vasti interessi, prima di tutto scientifici. La letteratura non ha una presenza preponderante: i nomi più ricorrenti sono quelli di La Fontaine, Henry James e Anatole France, qualche citazione da Shakespeare; oppure i classici come Senofonte ed Erodoto. Si coglie una certa propensione per la cultura francese, ma filtrata dall’opera di autori poco di moda, seppure grandi; l’interesse per l’Italia è altrettanto presente, seppure in forma minore. Molti sono i riferimenti alla pittura e ai pittori, non sempre famosi, a parte Giorgione, Dürer e Leonardo da Vinci; ma, specialmente, il suo interesse  è rivolto alle riviste e, in particolare, quelle allegate ai grandi quotidiani americani, oppure illustrate, che si occupano di flora e fauna. Amava molto la divulgazione, sia quella alta sia quella più popolare. Nella breve introduzione alle note, scritta da lei stessa, Moore afferma fra l’altro:

 … Ma poiché in tutto ciò che ho scritto vi sono versi in cui il nucleo più interessante è preso in prestito, e non sono ancora riuscita a liberarmi di questo ibrido metodo di composizione, mi sembra semplicemente onesto dar conto delle mie fonti.11

Il corredo di note è quanto mai eclettico e vasto, ma sarebbe errato attribuirle una forma di citazionismo. Prima di tutto, come lei stessa afferma, il suo è uno scrupolo dettato da onestà intellettuale. L’affermazione va presa alla lettera, ma c’è un elemento in più da prendere in considerazioe e cioè il valore che per ha per lei l’analogia, o l’immagine che una semplice parola o una citazione le susciatano. In alcuni casi tali parole non vanno considerate nel loro contesto perché non esiste una vera teorizzazione a monte o a valle che giustifichi il prelievo: sono semplici spunti che innescano la sua immaginazione.

Infine la sua attività editoriale, che fu assai significativa per gli autori che tenne a battesimo. La casa editrice Dial Press fu fondata addirittura nel 1840, ma il periodo che interessa è quello che inzia nel 1929, quando la rivista diventa lo strumento di maggiore influenza nella diffusione della letteratura modernista nei paesi di lingua inglese. L’anno di svolta fu il 1920, quando Scofield Tahyer e James Sibely Watson rifondarono the Dial come rivista letteraria. Furono loro a pubblicare William Butler Yeats e specialmente The Waste land di Eliot negli Usa. Dal 1920 al ’23 Ezra Pound fu il corrispondente estero di riferimento. Nel solo primo anno di pubblicazione troviamo i massimi autori contemporanei, fra cui lei stessa. Fra gli autori troviamo pure Bertrand Russell perché la rivista propose una saggistica che andava oltre lo stretto carattere letterario, occupandosi di cultura in senso lato con una forte predilezione i saggi sulla pittura contemporanea; infine corrispondente dalla Germania fu Thomas Mann e Hugo von Hofmansthal da Vienna. Nel 1926, da collaboratrice, Marianne Moore ne divenne la direttrice insieme a Watson. 

Per concludere

Come collocare Marianne Moore nella letteratura statunitense del ‘900? Nel suo caso è assai più difficile ricostruire una genealogia: il dato biografico può avvicinarla a Emily Dickinson, mentre il suo verso lungo ha ragioni differenti da quello di Whitman ed è assai più controllato di quello a volte troppo debordante del Bardo statunitense. La natura è certamente presente anche in Dickinson, ma non nel senso grandioso che assume in Moore: il dato scientifico, peraltro, è troppo novecentesco per risalire troppo alla tradizione, se non nel senso dell’eclettismo già ricordato dei riferimenti cui Moore ricorre.  Una seconda questione riguarda le istanze femministe e la critica al patriarcato che qui e là e specialmente in Il matrimonio sono presenti nella sua opera. Quale fu l’atteggiamento di Moore nei confronti dei movimenti degli anni’60, che lei di certo conobbe poiché negli Usa iniziarono ben prima che nel contesto europeo? La domanda suona retorica e la risposta è scontata: se ne tenne a distanza. Rifiutò per se stessa il matrimonio, con una determinazione che non ammette repliche, ma vi è una nota aristocratica nel suo passare nel mondo come una monaca senza ordine monastico, capace di costruire intorno a sé il proprio eremo, senza alcun compromesso possibile. In questo rimane profondamente statunitense e individualista. Fu una donna libera nel difendere e preservare le sue scelte, ma la dimensione collettiva e sociale non le apparteneva. Anche tale atteggiamento affonda le sue radici nella filosofia individualista e trascendentalista statunitense, rigorosamente bianca, che ha in Ralph Waldo Emerson il padre e – almeno per una prima fase – anche David Thoreau, che poi di distanziò dal suo maestro con il saggio sulla Disobbedienza civile e la netta opposizione allo schiavismo. Per queste ragioni e per stile personale di vita, Moore non poteva che essere lontana dagli eccessi verbali e comportamentali degli anni ’60 e ’70. Seppe riconoscere in alcuni casi il talento di chi era molto distante da lei: infatti, fu severa nei confronti di Allen Ginzberg, ma lo pubblicò nella rivista Dial, riconoscendo in lui la sola voce veramente significativa di quei movimenti. 


4 Marianne Moore, Poesie, a cura e traduzione di Lina Angioletti,  pp.256-7

5 Recentemente si sono compiuti esprimenti opposti con le scimmie antropomorfe: alcuni uomini e donne si sono chiusi in gabbia insieme a loro, comportandosi nello stesso modo e imitandoli. Pare che uno degli effetti, dopo la sorpresa, sia stata una grande ilarità da parte delle scimmie.

6 Il saggio di Stevens in cui scrive di questa poesia si trova in L’angelo ncessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum. Il testo di Marianne Moore si trova in Marianne Morre, Le Poesie, traduzione acura di Lina Angioletti, Adelphi  Milano 1981 pp.204-5.

7 Op.cit. pp. 419-23.

10 Questa citazione è riportata anche nel libro di Adelphi come esergo al saggio di W.H. Auden sulla poesia di Marianne Moore, alla pagina 521. L’originale inglese si trova nella Prefazione al libro A Marianne Moore reader, New York, 1961, p. XVI.

8 Op.cit. 135-49.

9 Ivi.

10 Sul significato delle note e delle citazioni in Moore rimando a un capitolo successivo.

11 Op.cit. pag. 460.


1 Una parte del saggio che segue è stato pubblicato sul numero 17 della rivista Smerilliana del 2015. In tempi successivi ad esso, le nuove e ripetute letture del testo mi hanno permesso di cogliere valenze che erano state lasciate in secondo piano, in un certo senso fagocitate dal Bestiario della poeta, che certamente costituisce uno dei motivi di maggior fascino della sua opera. Pur rimanendo centrale anche nelle letture successive, esso va posto in relazione ad altre problematiche e in particolare riferita al tema del rapporto fra animali e specie umana, che è infondo un altro del grande mistero e fascino di questo testo.

2 Laura Cantelmo, Il mondo in una stanza  in Con la tua voce, a cura di Gabriela Fantato e nota critica di Maria Attanasio, La vita felice, Milano 2010. Il saggio è stato ripubblicato anche sulla rivista online Overleft.

3 T.S. Eliot, Il fascino di un microscopio: in Marianne  Moore, Poesie, Taduzione di Lina Angioletti, Adelphi, Milano, 1991, pag. 518