GRAND TOUR: VENEZIA E LIDO DEGLI ALBERONI

Lido degli Alberoni a Venezia

La strana decadenza veneziana è proporzionale alla forza che la Serenissima ebbe nel suo passato. Paolo Rabissi mi corregge quando gliene parlo:

“Guarda che lì come qui a Forte dei Marmi, siamo aldilà della decadenza.”

Ci penso un po’ e ne concludo che Paolo ha ragione: neppure oltre, ma proprio aldilà. Essere oltre vuole dire poter tornare, mentre dall’aldilà non si torna, si può solo permanere in esso immobili, senza mutamento, un po’ come l’acqua della laguna che, anche quando s’increspa, permane nella sua piatta uniformità. I colori però riportano a una bellezza che non muore, fuori dal tempo e anche dalla storia, nonostante i motoscafi. Vista dagli Alberoni, la laguna è anche una striscia di terra sottile, lunga una decina di chilometri e larga non più di uno, che si estende dal Lido vero e proprio, con i suoi sfarzi, fino alla punta estrema da cui ci s’imbarca per Pellestrina, un’altra striscia più o meno analoga, alla fine della quale ci si trova dirimpetto a Chioggia. Davanti a essa e nel mare lagunare, una serie di isolotti disabitati, forse vecchi avamposti militari o piccole fortezze d’avvistamento. Il silenzio la fa da padrone, ma su quello naturale e ambientale pesa anche quello della storia. Venezia sembra non potere avere altro se non un destino turistico, anche se i veneziani i turisti sembrano subirli più che amarli perché è pur sempre una città vivente anche nella contemporaneità, ma in un presente deprivato e stanco. Non so se l’acredine che spesso traspare sia dovuta alla nostalgia per il passato glorioso o semplicemente perché ce l’hanno con il mondo in modo un po’ ottuso, visti i risultati. Forse è soltanto la difficoltà di arrendersi a una legge della storia e dell’antropologia, che pur non avendo la stessa cogenza delle leggi fisiche, pur tuttavia esiste. Chi ha avuto troppo prima non può avere sempre e mi domando, allora, se Venezia non sia una metafora dell’Italia intera.

In Italia e in Grecia è nato gran parte di ciò che definiamo Occidente ed eccoci di nuovo tornati alle origini. Tutte le forme politiche e religiose occidentali sono nate qui: dalla repubblica alla democrazia, dagli imperi all’autocrazia, dai politeismi ai monoteismi. Poco più in là e in tempi molto remoti solo l’Impero Egizio può vantare altrettanto prestigio, ma essendo troppo perfetto nella sua commistione riuscita fra potere religioso e temporale, rimane un modello probabilmente inimitabile. Sul suolo italiano sono nate le due costruzioni geopolitiche più durature della storia occidentale, seconde solo all’Impero Egizio: quello Romano e la Repubblica di Venezia. Sul primo si è detto tutto, su Venezia meno, ma se si pensa alla sua durata nel tempo si rimane stupefatti. I veneziani hanno saputo proteggere molto bene la loro storia: ne sono entrati da protagonisti in punta di piedi, addirittura dal sesto secolo e sulle macerie di una legione romana, per poi uscirne altrettanto in punta di piedi con la conquista napoleonica: oltre mille anni! Quanto alla democrazia, la vulgata che ne pone la nascita nella polis greca, va oggi integrata dalla consapevolezza che, in quella forma, non era esportabile in un grande stato, anche perché il suo difetto d’origine era pur sempre quello di essere fondata su un modello patriarcale e di essere una democrazia per pochi uomini liberi. Le culture nordeuropee e poi quella anglo sassone e francese hanno inventato la sola forma geopolitica moderna, di cui non vi è traccia nell’antichità e che ci accompagnerà ancora per poco: lo stato nazionale. Esso nacque legato a stretto filo al nascente capitalismo, anzi, ne fu l’involucro geopolitico naturale per arrivare a un’estensione su larga scala della fase mercantilista. La Lega Anseatica, pur non essendo uno stato, svolse la stessa funzione, mentre le Repubbliche Marinare in Italia nacquero troppo presto per diventare il collante di una possibile unificazione nazionale. Solo la Repubblica di Venezia assunse un ruolo di grande potenza anomala e questo sorprendente risultato vale la pena di guardarlo più da vicino perché, se da un lato conferma alcune regole immutabili della geopolitica da cinquemila anni a questa parte, dall’altro vi apporta alcune integrazioni assai interessanti. Quella che segue è la cartina della Repubblica di Venezia nel momento della sua massima espansione.

Lo Stato includeva, nel XVIII secolo e sino alla sua caduta, gran parte dell’Italia nord-orientale, nonché dell’Istria e della Dalmazia e oltre a numerose isole del Mare Adriatico (il Golfo di Venezia) e dello Ionio orientale.

Se si osserva attentamente questa strana mappa ci si rende conto che il capolavoro dei veneziani fu la rinuncia a conquistare ampi spazi terrestri, a parte un pezzo relativamente grande di Grecia continentale: per il resto solo isole e strisce di terra. In sostanza la loro genialità fu quella di far credere che fossero un’isola essi stessi, nonostante non lo fossero del tutto; in questo troviamo la conferma di un paradigma geopolitico ma anche una sua mutazione assai intelligente. Lo si capisce anche dalle guerre strategiche che i veneziani intrapresero: non di conquista nel senso usuale del termine, ma volte a eliminare l’eventuale concorrenza e le sole entità politiche che potevano in teoria coltivare un progetto analogo al loro erano proprio le altre repubbliche marinare. Le guerre con queste ultime furono condotte con una determinazione che non lasciò scampo ad Amalfi, Pisa e Genova anche se va detto che quest’ultima aveva già trovato una sua strada diversa per galleggiare piuttosto bene nel nuovo mondo che stava nascendo: diventare il banchiere d’Europa, più tardi insieme ai fiorentini. Quanto a Pisa era troppo nordica per poter svolgere un ruolo autonomo in quello scenario. La vera possibile concorrente era Amalfi, affacciata sulle coste africane, potenzialmente in grado di fare ciò che Venezia fece con le fasce di terra adriatica. Una volta eliminata la concorrenza, infondo conveniva a tutti rispettare e tutelare – pur fra scontri e tensioni – l’autonomia della Repubblica. La rinuncia ad ampie conquiste territoriali lasciava tranquilli i grandi stati nazionali nascenti, che potevano trovare in essa un momentaneo alleato. La sua presenza sulle coste era un presidio contro la pirateria e talvolta i veneziani ne fecero una risorsa: lasciando per esempio via libera ai pirati uscocchi nell’Adriatico, in funzione anti francese e anti spagnola. Insomma, tenendosi fuori dai grandi conflitti dinastici (erano una repubblica), alla larga da tentazioni militariste di ampia conquista territoriale, i veneziani quatti quatti si ritirarono nella loro nicchia. Venezia fu la capitale dell’intero occidente nel 1500, un po’ come New York oggigiorno e questo capolavoro riuscì loro anche per la struttura del governo interno. Se si pensa ai tempi, quello di Venezia era uno stupefacente governo democratico e repubblicano.

L’Italia vista da qui è il più grande museo archeologico a cielo aperto dell’intero Occidente e questa dovrebbe essere la maggiore preoccupazione di governi e popolazione: custodire questo sito, farlo vivere, dedicare ogni energia alla sua manutenzione. Tutto il resto, dalla narrazione sulla settima e poi addirittura quinta potenza industriale è solo il frutto di un’illusione ottica creata dalla Guerra Fredda e che ha cominciato a finire il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. Vi sono solo due elementi di quella parentesi storica, che si possono far risalire alla cultura italiana più profonda e ne costituiscono la vera continuità e un fattore importante d’identità virtuosa: la costruzione di strade e l’apporto scientifico e tecnologico, più che non genericamente culturale. La plastica deriva del moplen e fu sperimentata in Italia prima che altrove grazie a Giulio Natta; c’è almeno un fisico italiano per ogni generazione del ‘900 (Majorana, Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Rubbia, Parisi). Oggi questa tradizione continua e sono molto spesso le donne a esserne protagoniste: Gianotti, Branchesi, Fafone e Stratta. Tale apporto riguarda quasi tutti i campi del sapere, con quello scientifico al primo posto: la tradizione umanistica, invece, di cui siamo tanto fieri, si sta perdendo nel degrado di una scuola che non è più in grado di trasmetterla e che forse dovrà essere custodito altrove per alcuni secoli come lo fu la grande cultura classica nei conventi benedettini.

Venezia città

Era da tempo che non approdavo in città e arrivarci dal Lido è un’esperienza del tutto diversa. Il lido è luogo di silenzi. Arrivando da qui non si entra immediatamente nel flusso turistico, come accade giungendo alla stazione o in piazza Roma. Solo le scie degli aerei disturbano la quiete, ma basta non alzare troppo gli occhi al cielo e ci si dimentica che l’aeroporto di Venezia è uno dei più trafficati al mondo. Arrivare nel cuore di Venezia dal Lido è un po’ come venirci da un altro tempo. La città si avvicina lentamente, poi si cominciano a vedere in lontananza i campanili, a individuarli, poi le cupole delle chiese; ma tutto molto lentamente. La velocità delle navi, a confronto con quella di altri mezzi, è rimasta molto indietro, l’acqua offre una resistenza e un attrito che l’aria non conosce, ma neppure la terra. Se non fosse per Porto Marghera con le sue guglie sinistre e minacciose, potremmo essere dei viaggiatori di molti secoli fa provenienti dall’Oriente. Anche il brusio della città si avvicina lentamente e anche quando si è nel vivo del flusso di folla, i rumori rimangono lontani nel tempo, appartenenti anch’essi a un aldilà. Quanto alla folla, sciama verso le solite mete, con mancanza di fantasia, a parte coloro che vengono per vedere mostre o altro. È una folla consumista e disattenta, che può passare indifferentemente dalle magliette delle squadre di calcio ai negozi dei vetri pregiati di Murano. Cose già viste, eppure man mano che ci aggiriamo per la città mi rendo conto che qualcosa è cambiato anche sotto questo aspetto. L’aumento vertiginoso dei chioschi ha assunto una dimensione post consumista, siamo in un altro aldilà, ancora più inquietante. Leggo su un giornale che ora i veneziani stanno protestando per la presenza delle grandi navi davanti a piazza san Marco, ma mi domando se quello che vedo per le strade non sia anche peggio. Capisco gli abitanti che non escono di casa per non finire nel mezzo di questa assurda baraonda, ma perché accettarla allora e in nome di che cosa? Forse dell’affitto di suolo pubblico a prezzi esorbitanti che servirà a risanare il patrimonio della città? Se fosse questo mi sembra una strategia perdente, ma forse non c’è una vera ragione, ma solo una deriva accolta con rassegnazione, come avviene per molte altre cose. L’ambivalenza rabbiosa dei veneziani rispetto al flusso turistico la si coglie meglio entrando nei bar: è quello che facciamo anche noi. L’ordinazione (un gelato per Mattia, un ghiacciolo per Anna, un caffè per me), lascia del tutto insoddisfatto il gestore che infatti dopo l’ordinazione mi chiede perentoriamente se voglio soltanto un caffè. La tentazione di uscire subito è forte, ma poi faccio finta di niente badando solo ad accorciare il più possibile la permanenza. Usciamo e sciamiamo anche noi diretti a Piazza san Marco, con l’idea di farla apprezzare ai nipoti; impresa quanto mai difficile in questo bailamme. Intanto si sta avvicinando mezzogiorno e anche un po’ di fame. Un altro bar si profila all’orizzonte e almeno a una prima vista ha un aspetto accattivante. Piccolo, come tutti gli spazi veneziani, è arredato all’antica. I tavolini eleganti, le sedie curate, le piccole teche con le bottiglie di vino bene allineate invogliano a entrare. Sembra pieno a una prima occhiata panoramica, ma siamo fortunati perché si liberano due tavoli e così possiamo ordinare. Mentre attendiamo mi guardo intorno: sì, siamo proprio capitati in un angolo di vecchia Venezia, allegra, in mezzo a turisti che vengono da tutte le parti, rilassati, anche perché, a differenza dell’altro bar, in questo siamo simpaticamente accolti. Il servizio è ottimo e i gestori sono gentilissimi, svolgono il lavoro nei tempi giusti, rispettando rigorosamente l’ordine delle diverse richieste e hanno un sorriso per tutti: sono tre cinesi e un’indiana.

Il ritorno pomeridiano è un altro viaggio nel tempo. Non è soltanto la lentezza, ma la riconquista del silenzio dopo il caos della città urbana. Solo approdando nella parte più mondana del Lido si apre per un attimo una parentesi, poi è di nuovo oblio. L’autobus corre per i viali ancora vuoti, il caldo è soffocante e rallenta a sua volta i movimenti. Fra il Lido e gli Alberoni c’è una piccola frazione, Malamocco, fatta di vie strette e due larghi Campi. Il nome evoca qualcosa di sinistro, ma il luogo è terso. Il ponte, in fondo alla grande piazza, supera il canale e fa di questa piccola frazione un’isola fra la laguna e le spiagge che da esso s’intravvedono in lontananza. Risalgo sull’autobus verso il piccolo porto dove c’è un bar con terrazza sul mare: un luogo ideale dove leggere e attendere l’ora della riapertura dei negozi, che finalmente arriva; ma alla Coop una sorpresa mi attende. Il supermercato è chiuso anche se gli addetti sono tutti lì al lavoro. Chiedo spiegazioni e mi guardano sorpresi. Due vaporetti non sono arrivati e senza merci sugli scaffali è meglio fare lavori di manutenzione; riapriranno fra un’ora, sperando in un terzo vaporetto. Non ho nessuna voglia di aspettare e, in fondo, a casa ce n’è abbastanza di cibo per arrivare al giorno dopo. Mentre ripercorro a ritroso la strada, con il sole che comincia a calare e i colori della laguna si fanno ancora più sfumati, mi coglie il pensiero che potrebbero farcela per una seconda volta a scomparire e a rinascere i veneziani; o comunque a rimanere nel loro aldilà senza che nessuno li disturbi. Se è sufficiente il mancato arrivo di due vaporetti per fermare il consumismo almeno per qualche ora vuol dire che l’aldilà è proprio una frontiera insuperabile. Con le sue insopportabili zanzare, che nessuna tecnologia potrà mai eliminare del tutto da una laguna, questo mondo potrebbe di nuovo diventare una nicchia, un limbo arcaico nel futuro incerto che ci attende.  

Malamocco

IL PICARO E IL BURLONE, L’EROE E L’EROS: LA NARRATIVA DI JUAN MANUEL DE PRADA

Introduzione

Juan Manuel De Prada, dopo un periodo di grande effervescenza editoriale e di presenza nella letteratura europea e non solo ispanica è un po’ rientrato nell’oblio. Su alcune sue opere scrissi anni fa una riflessione che uscì sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo oggi perché mi sembra quanto mai attuale.

Ripercorrere la narrativa di Juan Manuel De Prada dagli esordi significa addentrarsi in un universo molteplice, anche se – una volta arrivati alla fine – si riconosce la filigrana di uno stile già precocemente maturo. Come prima approssimazione si potrebbe affermare che De Prada è un narratore che crede nella possibilità di raccontare storie. Potrà sembrare banale una dichiarazione del genere ma se si pensa all’evoluzione del genere narrativo in Europa, a partire dal tormentone sulla morte del romanzo, iniziato negli anni ’60 e periodicamente risorgente, tale constatazione non è affatto generica. Raccontare storie è parso a molta critica e anche a molti autori, impossibile; oppure che tale possibilità appartenesse a una letteratura di intrattenimento e di facile consumo, mentre la narrativa alta perseguiva il culto esasperato della cosiddetta bella pagina, oppure si ingorgava nei meandri di una sperimentazione linguistica ingegnosa ma spesso vuota; oppure ancora si rinchiudeva in un freddo cerebralismo. Sembrava che non si potesse più coniugare il gusto della trama, dell’intreccio, del personaggio memorabile, con l’esigenza di una forte letterarietà, ma che le due cose fossero irrimediabilmente scisse, dalla crisi del romanzo ottocentesco in poi; sia per la concorrenza del mezzo cinematografico e televisivo sia per altre e più complesse ragioni. Naturalmente ciò che sto descrivendo è soltanto una parte del processo di trasformazione che ha investito il romanzo e anche il racconto. Juan Manuel De Prada appartiene alla schiera di chi pensa sia ancora possibile raccontare. In questo saggio mi occuperò di tre libri, i cui titoli sono indicati nella traduzione italiana: Fiche, La tempesta (l’ultimo romanzo pubblicato) e Le maschere dell’eroe, il secondo libro in ordine cronologico.

JuanManueldePrada2007

Il tenero burlone

Fiche, rubricato nella librerie italiane, come libro erotico e addirittura pornografico, non poteva trovare collocazione peggiore e stupida disattenzione presso la nostra critica. Il libro consiste di una raccolta di brevissimi e fulminanti racconti, che hanno per oggetto il sesso femminile, ma sono fecondati da un’immaginazione imprevedibile, a volte di impronta surrealista, a volte capace di tenerissima e struggente delicatezza. Bastano poche citazioni per darne un’idea. Scelgo, riproducendone un’ampia parte, il racconto dal titolo La fica della violoncellista, riservandomi un commento più approfondito sull’intero libro in chiusura del saggio.

Ora che le avanguardie hanno definitivamente smesso di dar fastidio, ora che il cubismo è andato a ingrossare le fila delle scuole classiche … a noi nostalgici dell’arte di inizio secolo resta solo la consolazione di assistere a un concerto d’archi; per vedere la violoncellista in simbiosi con il suo strumento, unica vivente immagine cubista rimasta al mondo … Che compenetrazione fra il violoncello e la donna che strappa alle sue corde gemiti, mormorii e grida d’esultanza! Che intreccio di linee rette e curve, che accoppiamento di carne e legno! … Ecco, la violoncellista stringe fra le ginocchia la concavità dello strumento, la superficie di legno incurvato, ondeggiante, che corrisponde alla linea della vita; poi lo afferra per il collo, gli pizzica le corde vocali, gli strofina il petto con l’archetto fino a ferirgli il cuore e a strappargli un si bemolle. Che coppia, il violoncello e la suonatrice! Che intreccio di gambe e braccia, degno di un ritratto di Juan Gris!

Durante l’intervallo vediamo la violoncellista stringere le chiavette del suo uomo di legno, come una donna che torca le orecchie all’amante un po’ tiepido. Nel secondo tempo, dopo la strigliatina, il violoncello sembra meno remissivo … Invano cerchiamo di immaginare la fica della donna, … desiderosi di assistere alla lotta che si svolge dietro al legno tra le viscere del violoncello e quelle della virtuosa … La fica delle violoncelliste, celata da mutande a cremagliera, deve possedere note di recondita musicalità, crome e semicrome, biscrome e semibiscrome, … o forse è in realtà un metronomo che batte il tempo con clitoride, destra sinistra, sinistra destra, allegro ma non troppo … Le fica della violoncellista, durante il diluvio di applausi che le vengono tributati, bacia le corde del suo amante, e ancora una volta l’estetica cubista resuscita; alla faccia di tanti musei a pagamento.” (pag 23).

Venezia, metafora di una soggettività terminale

Con l’ultimo libro uscito in Italia, La Tempesta, Juan Manuel de Prada scrive un’opera meno vistosa del primo romanzo, di cui mi occuperò successivamente. Tecnicamente, il libro si può definire un giallo, con tanto di assassinio iniziale e una serie di peripezie tipiche del genere. Dietro il teatrino, che peraltro De Prada orchestra con maestria, emergono però i tre protagonisti veri di quest’opera: la città di Venezia, il quadro di Giorgione che dà il titolo al romanzo e i falsari dell’arte.

Alejandro Ballesteros è un giovane docente che si reca nella città lagunare per incontrare Gilberto Gabetti, il direttore dell’Accademia, e per studiare uno dei quadri più misteriosi della tradizione pittorica italiana. Arriva d’inverno, Venezia è sommersa dall’acqua alta e dalla neve, è deserta e spettrale come le maschere del suo carnevale: l’umido e il marcio l’avvolgono completamente. È una città molto lontana dall’iconografia turistica! L’albergo che lo ospita non è da meno, con la sua l’insegna luminosa rossa, in sinistro contrasto con il paesaggio imbiancato. Un senso di morte sospesa alberga fin dalle prime pagine e infatti il delitto arriva puntuale non appena Alejandro si è ritirato in camera. Uno sparo, degli uccelli che volano via, un oggetto che tonfa nell’acqua del canale e un uomo riverso nella calle deserta, che il nostro studioso cerca di soccorrere. Il moribondo si chiama Fabio Valenzin ed è un noto falsario. Da quel momento Alejandro si trova coinvolto in un intreccio sempre più inestricabile, la scena si popola di altri personaggi in un crescendo di vicende che confluiranno, per incrociarsi tutte, nelle sale di un palazzo dove si tiene una festa di carnevale. Le donne, come sempre, sono protagoniste di primo piano nei romanzi di De Prada: dall’inquietante proprietaria dell’albergo, assassina del marito ma salvata dall’ispettore di polizia Nicolussi, con il quale ha stretto una perversa complicità, a Chiara; e poi Giovanna Zanon. Il giovane spagnolo si trova coinvolto in una sorta di pericoloso minuetto, al centro del quale ci sono le due donne e altri personaggi maschili docilmente manovrati. E il quadro di Giorgione? La Tempesta sembra destinato a non essere mai raggiunto né visto: fra interrogatori di polizia e colpi di scena, l’incontro con il dipinto sfuma e si confonde con il mistero della sua interpretazione. Quale sia è Chiara a rivelarlo ad Alejandro, prima ancora che lui possa vederlo:

E questa stessa mancanza di catarsi che ti turba tanto la ritroverai nella Tempesta … Anche nel quadro c’è un avvenimento che non avviene, una minaccia che rimane sospesa per aria, un lampo che non scatena la pioggia. Ma i personaggi della Tempesta non si agitano, niente può scuotere la loro indifferenza, niente li commuove. Nella Tempesta, come a Venezia, i fenomeni non si scatenano, la vita pende appesa a un filo sfidando le leggi della fisica, e questa imminenza che non si definisce è causa di apprensione e turbamento.(Pag.83)

Mancanza di catarsi: è l’espressione chiave usata da Chiara, che pronuncia queste parole mentre sta pulendo il pesce che mangeranno insieme la sera e del quale mostra le interiora con una certa perversa esibizione. Il marcio non abbandona mai i personaggi, li avvolge come avvolge tutta la città. Ma chi è poi Chiara? È la figlia di Gabetti; non riesce a distaccarsi da lui e ne è in un certo senso l’ombra, senza che questo le impedisca di avere relazioni che tuttavia la lasciano prigioniera di un complesso paterno del quale non è capace di liberarsi. Chiara conosceva Valenzin e dalle parole del padre si può pensare che fra loro esistesse qualcosa di più di una semplice conoscenza di lavoro; ma ciò che colpisce di più il giovane studioso spagnolo è un altro particolare:

Fabio le aveva insegnato alcuni trucchi che non s’imparano all’Accademia delle Arti. Pag 66.

Al sospetto avanzato da Ballesteros, Gabetti risponde piccato che si tratta di trucchi di restauro, che nulla hanno a che vedere con la sua attività di falsario, ma il dubbio rimane, il labirinto diventa sempre più inestricabile finché non compare Giovanna Zanon, ex moglie separata di Gilberto Gabetti e collezionista d’arte. Il giovane spagnolo è attratto da Chiara, ma è la Zanon che lo invita a casa sua per mostragli un quadro che teme essere un falso; naturalmente è il defunto Valenzin che glielo aveva venduto! Vuole il parere del giovane studioso spagnolo, ma usa la circostanza per mettere in atto una tragicomica scena di seduzione che finisce nel nulla; o meglio in un invito per la grande festa di carnevale che si svolgerà di lì a pochi giorni.

La galleria di personaggi non è ancora al completo; altri falsari, mercanti, guardia spalle, una misteriosa valigia che Valenzin aveva lasciato nell’albergo dove alloggia anche Ballesteros; e altro, fino allo svelamento finale dell’assassino. Ma non è questo, lo ripeto, il contenuto del libro: più scorrono le pagine e più il tema intorno al quale ruota il tutto è la confusione fra autentico e falso e l’impossibilità di tracciare confini netti: è la metafora, a livello estetico, di una decadenza morale inarrestabile.

Il picaro, gli eroi, gli anti eroi e l’eros

Soltanto in Spagna poteva nascere un’opera epica e corale come Le maschere dell’eroe, scritto in una lingua e proveniente da una terra che diede i natali al romanzo moderno con quel grande affresco picaresco che è El Lazarillo de Tormes.

Lo sfondo del romanzo torrenziale di De Prada è quello tragico e grottesco degli anni ’30, che sfoceranno nella guerra che la Repubblica Democratica eletta dal popolo spagnolo condurrà contro la sedizione fascista del generale Francisco Franco; ma è anche l’epoca dell’utopia anarchica che soltanto in Spagna ebbe il seguito che conosciamo e produsse anche (cosa incredibile a dirsi sotto certi aspetti), una cultura di governo e non soltanto quello che tutti si immaginano dell’anarchia: omoni con i baffi, più o meno bombaroli, slanci ideali poco sostenuti da visioni politiche poco razionali, un destino ineluttabile di sconfitte ecc. ecc.

Il romanzo di De Prada è esagerato come gli eventi che fanno da sfondo a tutta la vicenda e ai personaggi che occupano la trama di quest’opera affascinante. In questo sta la sua verità storica, che sintetizza tutti gli elementi di crudeltà, di eroismo, di  meschinità e tradimenti che hanno costellato una guerra civile fra le più spietate, combattute in un secolo che di crudeltà ne ha prodotta in quantità industriali.

Detto questo va subito aggiunto che Le maschere dell’eroe è un romanzo che ha a che fare con la storia ma che non può essere definito romanzo storico. Cominciamo dunque dalla trama in senso stretto.

Il romanzo prende le mosse da una lettera che Pedro Luis de Gálvez invia al Dottor Francisco Garrote Peral, direttore delle carceri. La missiva porta la data del 1908 e il narratore ci avverte che essa può essere pervenuta al direttore soltanto attraverso canali speciali, dal momento che non porta omissis o cancellature censorie. Quella del manoscritto o della lettera ritrovata, è un espediente narrativo molto antico. In tale lettera il prigioniero cerca di giustificare le proprie azioni perorando la propria causa al fine di ottenere uno sconto di pena. Ma chi è Gálvez? È un eroe bohemien, uno sradicato che abita un demi monde culturale e politico di massa. Repubblicano e scrittore combatte la guerra civile e continua a perseguire la sua carriera artistica. Sarà il suo nemico e alter ego Fernando Navales a diventare il custode delle sue opere, condannandole al silenzio. Egli incarna la figura del nichilista, ma i due si somigliano, le gesta dell’uno si travasano in quelle dell’altro.

Il narratore di larga parte del romanzo è proprio Navales, l’alter ego; è grazie alle sue memorie, infatti, che noi lettori veniamo a conoscere la storia.

Due manoscritti ritrovati stanno dunque alla base del romanzo. Si materializza nella narrazione di De Prada la figura eterna del doppio, del sosia, del perturbante, per dirla con il linguaggio di Freud. I due s’inseguono fino alla fine e anche dopo. Pedro Luis Gálvez viene fucilato il 30 aprile del 1940. Lascia una lettera al suo nemico e alter ego e un sonetto per Teresa, che la guardia civil gli strappa proprio mentre sta andando al patibolo. E quanto a Navales:

… morì senza stile, lui che si era tanto vantato di averne, nel più completo oblio; Pedro Luis de Gálvez appartiene ormai all’intatto cielo delle mitologie, cielo che di tanto in tanto abbandona, col permesso di Dio, per scendere all’inferno dove dimora il suo avversario e fargliene di tutti i colori, di qui all’eternità.

Ma adesso basta, o si scade nel moralismo. Pag. 615.

Dell’uno è anonima la vita, dell’altro le opere; solo nella finzione narrativa di De Prada rivivono entrambi.

Le maschere dell’eroe è pieno di figure perturbanti e di riflessioni al vetriolo sull’arte moderna, che diventeranno più pacate e definitive in La tempesta.

Falsari dell’arte, pittori di croste, poetastri, artisti mancati che la buttano in politica e viceversa; una galleria di personaggi grotteschi e, accanto a loro, autori memorabili e protagonisti della scena culturale di quegli anni: Luis Buñuel, Salvador Dalí, uno stralunato Jorge Luis Borges che si aggira vomitando in un bordello di Madrid, García Lorca, Ramón María del Valle Inclán. Ma sono veramente loro oppure sono il risultato di una miscela esplosiva di elementi biografici reali manipolati da un’invenzione sfrenata? E che differenza c’è fra le loro biografie e quelle degli anonimi che vivono gli stessi drammi e le stesse grottesche situazioni? La lingua sarcastica, truce e corrosiva di De Prada non risparmia niente e nessuno, ma è ponendo la sua lente d’ingrandimento sul degrado delle relazioni amorose che l’autore ci dà un’immagine plastica e dantesca degli anni ’30 spagnoli. Tutti i personaggi maschili e femminili sono coinvolti in relazioni sordide, conducono vite allucinate su uno sfondo di crescente violenza, di slanci ideali, di imprese e tradimenti continui. È una girandola continua e sullo scenario del romanzo aleggia una luce fosca, i personaggi non conoscono sosta né riposo; vivono in una sorta di frenetica eternità infernale. Gálvez e Teresa, Novales e Sara e le altre maschere che compaiono, a volte come semplici comparse disegnano tutte insieme un potente affresco, dove il rapporto sessuale degradato diventa una specie di sintesi o di monade metonimica, all’interno della quale si può vedere in piccolo tutto l’universo. Tutti diventano a turno moralisti e scellerati perché vedono sempre gli altri e mai se stessi. E così quando Navales scopre che Sara è in stanza con Ramón con la scusa di doversi preparare a recitare la commedia di lui ecco che l’uomo decide di coglierli sul fatto. Entra nel Torrione dove avvengono gli incontri clandestini e di cui anche lui ha naturalmente la chiave!:

Sara era ancora distesa sul letto, con il camicione sollevato e le calze abbassate…il suo corpo aveva il biancore misero e scialbo delle defunte messe nella bara senza lenzuolo funebre. – Hai ripassato bene la parte? – le domandò Ramón.

Era ridicolo come amante, si preoccupava della propria immagine anche quando finiva di eiaculare. Affrontava il coito senza spogliarsi, come chi si sottopone a una misura igienica per alleviare la prostata. Il fallo gli fuoriusciva dai pantaloni, incongruente come l’abito scuro della domenica…..- Tu credi che Fernando ce la farà pagare?-….- Tu credi che cercherà di distruggere il nostro amore?-

Utilizzava un linguaggio da feuilleton, parlando di una fuga consentita. Sul cassettone del corridoio c’erano due biglietti ferroviari per la tratta Madrid-Irùn-Parigi.: bisogna esser veramente di cattivo gusto e quasi putrefatti per scegliere Parigi come approdo di un adulterio. Uscii in punta di piedi, per non rovinare i loro piani. (Pag.388-89).

Le maschere del narratore

Vorrei concludere il saggio tornando a Fiche, quel libro così particolare e sorprendente, nel quale però si può leggere una delle filigrane che costituiscono la stoffa della narrativa di De Prada. Se il degrado di un’intera società viene visto attraverso la lente metonimica dei rapporti erotici, come abbiamo visto sia ne Le maschere dell’eroe, sia in La tempesta, tornare a questo libro d’esordio sembra quasi di immergersi in una fresca sorgente vitale. In Fiche non si parla dell’eterno femminino, né di una figura angelicata della donna. Il sesso femminile è esposto, la donna di De Prada è tutt’altro che asessuata; ma, – questa la straordinaria forza del libro – non è violata! Mai! E neppure penetrata; mentre nei due romanzi dove il sesso è presente come atto – sempre più abnorme in Le maschere dell’eroe, in modo più misurato e quasi come citazione del precedente in La tempesta – lo è sempre. Come violati nella loro dignità sono sempre anche i personaggi maschili; siano essi grandi della cultura del tempo o semplici comparse. Tutti sono immersi, uomini e donne, in un grottesco precipitare nell’abisso di una trasgressione coatta. C’è invece una grande innocenza in questo primo libro dal titolo irriverente, una limpidezza che si colora di nostalgia; forse il sogno di una cosa o quello di un rapporto d’amore che sembra irrimediabilmente perduto.

E il narratore come si colloca in tutto questo? C’è una spia che De Prada mette del suo secondo romanzo, Le maschere dell’eroe. È una citazione breve, che compare in una pagina che non fa parte del testo, essendo quella dei ringraziamenti dell’autore a tutti coloro che l’hanno aiutato nella stesura del romanzo. È una breve citazione che riporto integralmente e che chiude la pagina in questione. Scrive De Prada:

Come disse Marcel Schwob (dopodiché basta con le citazioni): Il biografo non deve preoccuparsi di risultare veritiero; deve creare, dal caos, dei tratti umani. E ora caro lettore, non capisco cosa aspetti a tuffarti a capofitto in questo caos. Salamanca- Zamora, maggio 1996. (pag.10).

Compaiono in questa breve citazione il nome di un gigante poco conosciuto della narrativa moderna e una parola chiave, Schwob, l’ispiratore di Borges e del Pavese dei Dialoghi con Leucò, le cui Vite immaginarie sono state ritradotte alcuni anni fa dalla casa editrice Azimut. La parola chiave è naturalmente caos. A partire da questa vorrei allora concludere  tracciando un parallelismo. Se nel Lazarillo de Tormès il vitalismo che vi predomina è quello di una società nascente e il personaggio – che vive certamente di espedienti – è  ancora positivo e volto al futuro, il truce vitalismo che alberga in Le maschere dell’eroe è quello di una soggettività e di una società moribonde, che si agitano e si tingono di belletto, come nella smorfia di un agonizzante. I protagonisti del romanzo per me maggiore di De Prada sono proprio figure grottesche, che mi ricordano – se fossero dipinte – i ritratti spettrali di Egon Schiele e di Otto Dix, ma con i corpi deformi e michelangioleschi di Arcimboldo.

Al tempo stesso, se la Venezia del ‘500-600 non era solo la capitale della Repubblica veneta ma dell’intero Occidente e se il suo sfarzoso carnevale era l’immagine della pienezza di una civiltà, la Venezia dei falsari veri e dei pittori falsi, di quadri veri che diventano falsi e viceversa, della festa carnevalesca dove alle stanche orge si mescola la cocaina, appare come lo scenario mortifero e grottesco della dissoluzione di quella pienezza. Il caos si colloca prima del principio ordinatore che ne fa un cosmo; oppure dopo, successivamente alla fase terminale di un cosmo che è divenuto entropico e si scioglie di nuovo nel caos.