IDA MAGLI

Introduzione

Ida Magli è stata per me una maestra e lo è ancora, nonostante il netto dissenso rispetto alle sue prese di posizione negli ultimi anni. L’antropologa, anche per questo, non ha goduto di grandi attenzioni dopo la sua morte e gli studi su di lei non sono molti. Le ragioni però non sono dovute soltanto alle polemiche suscitate dai suoi interventi: oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: prima di tutto l’essere politicamente molto scorretta, tanto d’avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra; in secondo luogo per essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano. La mia speranza è che il tempo le restituisca quanto a lei è dovuto, senza sconti verso alcune derive del suo pensiero ultimo.

L’antropologia al centro

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco) e ha proposto una lettura antropologica dei Vangeli. Sono due mosse decisive perché solitamente l’antropologia si occupa dei diversi, siano essi i popoli originari ancora presenti in mezzo a noi, oppure i popoli antichi. Nel rivolgersi invece a noi e alla nostra storia, inoltre, Magli non ha dimenticato che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che la costruzione del femminile e del maschile occidentali sono il risultato di un pensiero maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è. Il centro d’irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le incursioni che s’allontanavano da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee e legate a fatti d’attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici. I libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le sue opere più decisive. Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose, sono strettamente legati; in essi Magli si allontana da tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue. Magli legge i testi evangelici e gli altri documenti dell’epoca collocandoli nel contesto degli usi e dei costumi della comunità di appartenenza: sono le strutture che Braudel ha indicato con il termine di lunga durata, espressione che Magli cita nell’introduzione a La Madonna.1 In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte le figure che popolano i vangeli fossero veri uomini e donne situati nel loro contesto culturale e antropologico. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stessa strumentazione teorica la costruzione dell’immagine femminile a partire dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio. Nei libri di Ida Magli, pur non immuni da eccessi di strutturalismo, l’analisi delle strutture non prescinde dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e da un’analisi puntuale delle loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente – fino a dove questo è possibile – e dunque la storia. Questo permette a Magli incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. Il mio studio, esaurite queste premesse, si dedicherà proprio a tali incursioni, a partire tuttavia da una sostanziale condivisione della sua analisi antropologica dei testi cristiani.

Il doppio registro dell’arte occidentale

Nei paragrafi finali de La Madonna, Ida Magli affronta il tema dei rapporti esistenti fra la costruzione teologica del culto mariano e l’arte occidentale, sacra e non. La citazione che segue è un punto di partenza importante:

La storia dell’arte occidentale è una storia contrassegnata dall’emergere di due livelli culturali di simbolismo, quello mariano e quello dell’arte.2

Siamo alle origini della cultura occidentale cristiana, in quel periodo di tempo che più o meno va dalla nascita dei volgari intorno all’anno 1000, per passare poi ai poemi delle origini, al ciclo bretone, alla pittura sacra; infine, all’amor cortese. Volendo indicare più precisamente il periodo, possiamo dire che esso va dall’opera del Venerabile Beda fino alla fine del 1200. Il presupposto implicito dell’affermazione di cui sopra è la coincidenza fra storia dell’occidente e storia del cristianesimo; dunque, almeno in una prima fase, per Ida Magli la cultura classica precedente, i suoi modi e stili di simbolizzazione sembrerebbero esclusi dall’analisi, sebbene ciò non sia poi del tutto vero. Tuttavia, nello spingersi indietro nel tempo rispetto all’arco temporale indicato, Magli si rivolge prevalentemente all’ebraismo. Si può dire dunque, che il suo orizzonte di riferimento sia, principalmente, la cultura ebraico-cristiana, all’interno della quale il Cristianesimo come costruzione successiva alla morte di Gesù di Nazareth, diventa l’elemento centrale, pur senza rompere i legami antropologici con la cultura profonda dell’ebraismo, specialmente per quanto riguarda i tabù legati al femminile. La parte più originale della frase di Magli è laddove afferma che nella cultura occidentale ci sono due diversi simbolismi: quello mariano e quello dell’arte. L’affermazione è problematica perché per un lunghissimo periodo di tempo il soggetto principale dell’arte pittorica è stato di natura esclusivamente sacra e lo stesso vale per la musica mentre maggiore libertà c’è stata nella letteratura e nella poesia. Dunque, in che senso Magli parla di due diversi modi di simbolizzare? Lo afferma subito dopo:

Se la Madonna è un’opera culturale unica, creata dal Cristianesimo, … sviluppatasi soprattutto del XII secolo in poi, l’arte occidentale si è trovata di conseguenza di fronte a una libertà creatrice che a nessun’altra arte è stata concessa. La Madonna ha assorbito la parte “negativa” dell’atteggiamento artistico dell’uomo quella che gli dà la forza di desiderare l’assoluto ma che non permette quasi mai di lasciarlo assoluto.” Nella Madonna, infatti si chiude il cerchio del simbolico-concreto e nella storicizzazione dell’ideale, l’ideale diventa realtà, brutalmente ridotto nei limiti del desiderio. Si trova qui il confine sottilissimo fra psicosi e arte. 3

L’interpretazione di questo passaggio non è facile: tento di darne una pensando in particolare alla tre parole chiave negativo assoluto e desiderio  e ritornando a un mito più antico: Orfeo ed Euridice.  La lettura di questo come di tutti i miti si presta a interpretazioni diverse. Faccio mia quella di Blanchot che è stata ripresa recentemente con maggiore profondità anche in un libro di Alessandro Carrera.4 Secondo tale interpretazione, Euridice rappresenta il desiderio senza limiti, sia che si intenda la parola nel senso greco oppure genericamente, sia che la si intenda in senso psicoanalitico. Il desiderio illimitato e assoluto, però, non produce nulla, oppure una deriva narcisista. Perché l’opera nasca, esso non basta. Nel momento in cui Orfeo, il principio maschile, permette all’opera di esistere, perde Euridice.5 Nel mito classico, dunque, Orfeo ed Euridice sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché esso è in rapporto diretto con la divinità e dunque illimitato come il desiderio, mentre il principio maschile, pur limitato, proprio per questo è il solo produttore di cultura. Questa, peraltro, è anche l’opinione che Magli esprimerà con perentoria chiarezza nelle primissime pagine di Viaggio intorno all’uomo bianco e anche con ben altra articolazione nel libro intitolato La Madonna e che susciterà la diffidenza di larga arte del mondo femminista.6 Nella cultura occidentale e cristiana, invece, avviene – secondo Ida Magli – una scissione. Da un lato la Madonna, grazie all’elaborazione del culto mariano, assolve la funzione di assoluto negativo del desiderio. La parte di Euridice, che nel mito classico si perde definitivamente nell’Ade per permettere che l’opera nasca, viene così trasformata in una figura di tipo nuovo che dal simbolo concreto, diviene un Ideale reale. Magli definisce questo processo come la parte negativa dell’atteggiamento artistico dell’uomo (vale la pena di ricordare che per Magli l’uomo è sempre il maschio e non un universale che comprende entrambi i generi e quando non è così lo specifica sempre) rispetto all’opera. A differenza di quanto avviene nel mito classico, dove ispirazione e opera, pur rappresentati da agenti diversi, hanno lo stesso oggetto in comune e cioè la creazione artistica, la parte di Euridice, con l’elaborazione del culto mariano, viene delegata a un gruppo chiuso di maschi teologi e relegata in un campo che sta sul confine sottilissimo fra psicosi e arte.7 Parafrasando Bion, si potrebbe dire che i teologi medioevali sono per Magli una specie di un gruppo in assunto di base che si carica di un principio assoluto negativo, liberando così le arti e gli artisti da ogni vincolo, affrancando la creazione artistica anche dalla pesantezza dei bisogni simbolici del gruppo. 8

Gli esempi che Magli fa e le citazioni dalle opere dei Padri della Chiesa sono quanto mai probanti. In alcune affermazioni dei teologi dei primi secoli, prevale ancora una forma di concretezza analogica e così la madre di Gesù è un carro che porta il re della luce nella vita, oppure la casa del re. Ambrogio non rimuove ancora del tutto la fisicità di Maria ed esalta il grembo che cresce.9 Passo dopo passo, però, Maria di Nazareth perde tutti gli attributi fisici del femminile e specialmente l’utero. La Madonna diventa così una costruzione del tutto nuova. L’ultimo a lasciarsi andare a un grido che suona angoscioso per come lo dice è Agostino, che riferendosi alla donna, urla: Per foemina mors, per foemina vita. Certo, per lui che il corpo femminile lo conosceva molto bene e per esperienza personale, doveva essere particolarmente doloroso e difficile rimuoverlo! Ida Magli così descrive il compimento di questa prima fase dell’elaborazione del culto mariano. Invece di ricorrere alle molte citazioni disponibili ho scelto questo passaggio perché in esso sono contenute alcune espressioni usate dai padri della Chiesa con le relative fonti originali, per cui lo ritengo esaustivo:

La Madonna finalmente è una donna chiusa, prima durante e dopo il parto, è un muro inespugnabile, una rocca sicura, una trincea da ogni lato fortificata, una torre potente, una montagna mai tagliata, una porta chiusa un giardino sigillato… Sicuri di questo, gli uomini possono lanciarsi ad amarla, ad adorarla, fissando in lei tutte le caratteristiche della non azione, della non-vita. La donna ideale è sempre morta, fissata in un aldilà eterno, che permette la definizione del suo non-essere.”10

La parte devozionale dell’iconografia cristiana che si rivolge alla Madonna diviene per Magli una forma d’arte alimentata dalla teologia mariana ed è questa la prima forma di simbolizzazione: di essa fanno parte le immagini popolari, le statuette votive e le rappresentazioni direttamente legate al culto. L’ipotesi di Magli è suggestiva e quanto mai feconda perché si apre alla verifica sul campo, che lei fa solo per brevissimi tratti, ma che può essere continuata da altri, avendo lei aperto una strada quanto mai importante. Il suo punto di partenza è il soggetto più frequentato per molti secoli dall’arte pittorica occidentale e cioè la Madonna e la Madonna con bambino. Magli osserva che, quanto più cresce l’elaborazione del culto mariano, tanto più cresce intorno ad esso un’iconografia ingenua, che tende sempre di più a uniformarsi ai caratteri salienti della teologia mariana. Tali tratti portano a un’esasperazione del modello, tanto da raggiungere presto una forma consolidata di stereotipia. Le immagini sono sempre uguali. Magli definisce queste opere come appartenenti alla cultura popolare, al folklore, ma anche dettate da chi elabora il culto. Fanno parte in sostanza di quella che definirei un’alfabetizzazione di massa all’iconografia mariana, che traduce in immagini quello che la teologia vuole trasmettere e cioè l’ immagine di una donna che ha perduto tutte le sembianze del femminile concreto, ma ne ha assunte altre stilizzate e sempre uguali: l’inespressività dei volti per esempio, è una costante, ma anche il modo di rappresentare il bambino (che non sempre è presente in queste immagini o sculture); la posizione statica del corpo, l’aureola, la stilizzazione dell’abito e i colori. Il gusto popolare in sostanza viene educato secondo canoni precisi e delimitati. Cosa avviene invece con l’arte secondo Magli? Accade che il soggetto sacro, imprescindibile per tutti, anzi esclusivo per un lungo periodo di tempo, si distanzi per piccoli e grandi scarti dal modello teologico e dia vita a un secondo canale di simbolizzazione che sta alle origini anche della cultura laica europea e occidentale, assumendo dei caratteri che s’allontanano sempre di più dall’iconografia del gruppo psicotico e che riportano in scena un soggetto femminile diverso. Gli esempi che Magli fa sono pochi ma assai significativi. Il primo è l’Annunciazione di Lorenzo Lotto, diversa da tutte perché la donna (in questo caso è proprio una donna e non un’invenzione dei teologi), ha un volto terrificato all’annuncio che darà alla luce un dio: immagine ben più realistica che non quella di volti serafici, come se dare alla luce un dio non spaventasse almeno un po’! In questa divaricazione, sostiene Ida Magli, prende forma un primo esempio di cultura laica. Alla fine del libro Magli indica alcune altre opere che a mio giudizio testimoniano la validità della sua ipotesi. Fra le maglie strette della fedeltà alla tradizione da un lato e le necessità artistiche dall’altro, prende corpo un’arte laica, le cui caratteristiche sono quelle di ritornare a una rappresentazione del femminile in cui la donna prevale sulla teologia. In modi a volte più provocatori – Caravaggio dipinge una Madonna con il volto della sua amante –  altri meno, tale tendenza s’impone e viene sostanzialmente tollerata dalla stessa Chiesa, grazie a Papi che tutto avevano in mente tranne la fedeltà al detto evangelico, ma che almeno hanno aperto le porte alla grande arte occidentale, diventandone i primi mecenati. Lo stesso si può affermare di un’opera come la Pietà Rondanini di Michelangelo, dove la morte e il dolore prevalgono e il mito della Resurrezione è assente.

Musica e poesia

Cosa avviene per le altre arti? Magli sottolinea la dipendenza del linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa. L’esempio più alto è naturalmente quello di Dante. Beatrice è una donna della teologia, anche se sappiamo che si chiamava Portinari di cognome. Dante la rende simile all’immagine iconografica dell’Assunzione al cielo della Madonna perché Beatrice è già in alto, ascesa nell’Empireo e sebbene il dogma sia stato proclamato nel 1950, già nel quinto secolo la devozione popolare lo accoglieva come un atto di fede indiscusso. Che la Beatrice dantesca non sia uno stereotipo del tutto amorfo come nelle immaginette del culto mariano lo si deve a una straordinaria poesia, ma dal punto di vista delle radici del pensiero è a Bernard De Clervaux e all’Aquinate che occorre rivolgersi. Quanto alla musica è fondamentale la lettura dell’intero capitolo intitolato Il tempo interrogativo della musica.11 In esso viene ricostruito il percorso che la musica occidentale, ma prima di tutto europea, ha compiuto dal gregoriano per arrivare fino a noi. Nel gregoriano:

… nessun ostacolo si frappone alla concezione ciclica del tempo … Il gregoriano può permettersi di spaziare in durate infinite perché è sorretto dalla certezza della risposta di Dio.

La contraddizione però è dietro l’angolo, dal momento che proprio il Cristianesimo ha introdotto una variante rispetto al tempo ciclico. Cristo segna un prima e un dopo, la cui presenza scandisce il tempo in altro modo: dal peccato originale a Cristo è il passato da redimere, dopo di lui e fino al giudizio universale è il futuro. La risposta alla domanda di certezza non è più data ma deve essere cercata e inseguita nel tempo. Bach, che componeva musica nel contesto di un mondo matematizzato dalla rivoluzione scientifica e sistematizzato da Cartesio, cambia il registro dell’eterno ritorno su cui si fondava il canto gregoriano:

… In lui la ripetizione diventa un inseguirsi continuo di domande-risposte, uno sforzo immane dell’intelligenza per riempire di un contenuto autosufficiente la forma del tempo assoluto, senza subordinare la ragione alla certezza del tempo già dato.

 Magli pensa in primo luogo all’arte della fuga ma si può dire che già con l’avvento della polifonia, la certezza del tempo già dato era stata infranta. Il paradosso messo in scena da Bach, secondo Magli è che:

… Il tempo della scienza coincide con la struttura interrogativa della musica e con un tempo che da Mozart a, Behetoven, da Debussy, Schönberg, Berg, fino a Bussotti si allontana sempre più dal concetto di durata, di inizio e fine … fino alla dissoluzione della fisicità del suono.

Ci si potrebbe domandare, a questo punto, cosa resta. Le ultime osservazioni Magli le riserva alla danza:

… La danza è in effetti il massimo tentativo che gli uomini hanno fatto per innalzarsi, concretamente e simbolicamente, al di sopra della fisicità, servendosi del proprio corpo come strumento: sublimazione del corpo attraverso la fiducia assoluta del corpo. La danza perciò è esclusa dalle cerimonie liturgiche in quanto nega la subordinazione del corpo a Dio, nega la rinuncia alla sessualità … la danza dunque non può essere che Eva … in lei si riassumono tutte le Maghe, tutte le Sirene, tutte le Calipso, tutte le Silfidi e tutte le Circi …

La conclusione è altrettanto perentoria:

Maria non può danzare.   

Riflessioni conclusive

Le sollecitazioni di Magli contenute negli ultimi capitoli de la Madonna si prestano a un ulteriore approfondimento. I dipinti che lei cita come spostamento da quello che è l’asse devozionale indotto dalla teologia mariana sono pertinenti ma si potrebbe continuare la ricerca per capire meglio in che cosa consiste la doppia simbolizzazione presente nell’arte europea e come essa si sia evoluta nel tempo. Lo stesso si può dire per la poesia: il modello concettuale della courtoisie è sopravvissuto al Dolce stil novo e alle poetiche coeve, reiterando la scissione fra un’immagine del femminile quasi sacrale da un lato e l’emarginazione delle donne reali dalla cultura e dalla storia dall’altro. Nella poesia italiana, tuttavia, la poesia di Cavalcanti si pone come un contraltare quanto mai importante a tale visione.12 Tale scissione cominciò a entrare veramente in crisi dopo la Rivoluzione Francese. Magli, a proposito di Bernadette, nota come sia per la prima volta una donna a essere spettatrice di un’apparizione miracolosa che assume una dimensione pubblica. C’era probabilmente bisogno di rimodulare il femminile dopo lo spavento suscitato dalle donne in armi e in massa apparse improvvisamente sulla scena della storia alle Tuilleries: che una ragazzina senza cultura diventasse il tramite con il trascendente cancellava quell’immagine e ne riproponeva un’altra più consona al ruolo che le donne dovevano mantenere. Bernadette ebbe solo una vita di sofferenze come premio e se ne rese amaramente conto lei stessa. Baudelaire alcuni decenni dopo avrebbe demolito il linguaggio della courtoisie rivelandone il doppio registro, ma specialmente mettendo in scena un’ultima volta – per distruggerla dall’interno – la figura della Musa. Infine, con il femminismo dei primi del ‘900 e poi con la seconda andata dagli anni ’70 in poi, è davvero  cominciata un’altra storia.


1 Ida Magli: La Madonna, Rizzoli, Milano 1987, pag. 10. Gesù di Nazareth è stato pubblicato da Rizzoli, mentre Storia laica delle donne religiose è uscito per Longanesi.

2 Ida Magli, La Madonna pag. 103.

3 Op. cit. pp.103-4.

4 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano, 2011

Nel libro, Carrera compie un ampio excursus storico che va dal mito di Orfeo ed Euridice e – passando attraverso Il Dolce stil novo e poi Leopardi – arriva fino a noi. Carrera, in un capitolo, riassume in poche parole l’interpretazione canonica, che ne fa un mito di fondazione del canto poetico, dove Euridice è l’ispirazione, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, per diventare cantore, deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che vorrebbe possedere contemporaneamente Euridice e l’opera poetica. Delle due figure simboliche, la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera viene alla luce. Fin qui Carrera. Del libro in questione mi sono occupato a lungo nel saggio Amore, morte e … altro, pubblicato sulla rivista online Overleft – www.overleft.it – nella sezione Dopo il diluvio.

5 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché  in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla realizzazione.

6 La questione è talmente controversa che è impossibile trattarla in una nota. Mi limito solo a dire che per Magli l’affermazione che la cultura è stata nell’universo ebraico-cristiano un prodotto eminentemente maschile non è diversa infondo da quello che i femminismi hanno messo in evidenza. Il problema sta nella diffidenza che Magli ebbe comunque sempre nei confronti di questi movimenti come di altri: diffidenza che l’antropologa ha espresso anche in prese diposizioni che hanno suscitato polemiche per la loro parzialità. Credo che in questo caso occorrerebbe farei conti con il pregiudizio strutturalista e con la propensione dell’antropologia a considerare solo le permanenze e la lunga durata, il che  – se portato alle estreme conseguenze – porta allo strabismo nei confronti del presente storico, che l’antropologia, e specialmente quella più ligia ai dettami dello strutturalismo, non riesce a vedere.  

7 Op. cit. pag 103.

8 Op. cit. pag. 104.

9 Entrambe le espressioni si trovano in Ida Magli, La Madonna, Pag. 109 e seguenti.

10 Op.cit. pag.102.

11 Ida Magli La Madonna, dalla pagina 154 fino alla fine.

12 Paolo Rabissi ha compiuto un’analisi assai importante della poesia di Cavalcanti evidenziando l’originalità che egli rappresenta per l’epoca e non solo. Il saggio si trova  sulla rivista online Overleft e s’intitola  Il doppio effetto dell’amore, desiderio e frantumazione dell’io nella poesia di Guido Cavalcanti. Ad esso rimando per approfondire la tematica.   

Umberto Eco e Ida Magli

Premessa.

Questo testo è stato pubblicato sul sito della società di psicoanalisi critica, a ridosso della loro morte.  Lo ripropongo a pochi giorni dalle commemorazioni del primo, con pochi ritocchi.

Il destino, talvolta illuminante, ha posto queste due morti l’una accanto all’altra, ma ancora ad anni di distanza dall’evento, di Ida Magli non si è ricordato Non esito a dire che per me Magli è stata una maestra e lo è ancora; questo non mi impedisce di criticare le sue prese di posizioni sull’Islam, l’Europa, ma anche di riconoscere, nella sua esasperazione, la radice di alcune verità negate. Su questi aspetti del suo pensiero, tuttavia, credo sia meglio dedicare in futuro una riflessione specifica.

I DUE ECO.

Umberto Eco, in quanto semiologo, linguista e strutturalista, è stato un eminente studioso e accademico che ha portato nell’università italiana la tradizione europea che a partire da De Saussure e Wittgenstein, passando poi da  Levi Strauss, Jakobson e Barthes, ha fatto della scienza dei segni, della filosofia del linguaggio e dello strutturalismo un’importante segmento della cultura europea del ‘900, sebbene la sua personale propensione verso l’analisi strutturale risalisse alla Scolastica (dunque anche ad Aristotele) e alla tesi di laurea su Tommaso D’Aquino. Dalle testimonianze provenienti dall’ambito universitario, si comprende che era stimato da colleghi e studenti e che è stato dunque un bravo professore, di grande erudizione. 

Tuttavia, egli non è stato solo questo, ma, come hanno ripetuto fino alla nausea i servizi televisivi e giornalistici a ridosso della morte “Molto, ma molto di più”. È proprio su questo che è lecito avere dubbi, o quanto meno porre interrogativi e sollevare problemi: tanto più perché è questo secondo l’Umberto Eco che ha tenuto le scene, mentre i suoi lavori accademici o il suo ruolo di fondatore della facoltà di scienza della comunicazione sono scivolati da tempo in seconda linea, almeno per il grande pubblico. Anche nelle celebrazioni che nei giorni scorsi si sono tenute in altri paesi, per esempio alla tv tedesca che gli ha dedicato una serata sul canale Arte, di lui si è parlato solo in quanto autore di romanzi  gialli a sfondo storico. 

Eco, in quanto intellettuale di massa, che è cosa diversa dall’essere studioso della società e della cultura di massa, nasce con la pubblicazione de Il nome della rosa: siamo nel 1980. Cinque anni prima, nel 1975, si era chiusa la sua stagione più militante che lo aveva visto, sull’abbrivio dei movimenti intorno al ’68, collaboratore de Il Manifesto, – con lo pseudonimo di Dedalus – dopo un articolo assai duro su quello di Pasolini contro l’aborto, pubblicato sul Corriere della sera. Da quel momento in poi Eco, in perfetta consonanza con i tempi, approdò sia al pubblico televisivo, sia alla divulgazione. Nacquero così I diari minimi, le interviste impossibili, le Bustine di Minerva, le collaborazioni con riviste letterarie come Il cavallo di Troia, che riprendevano temi e modi che erano stati anche delle avanguardie del primo ‘900 e già ripresi dal Gruppo ’63, nel quale Eco aveva militato: la parodia, lo sberleffo, il pastiche, il gioco linguistico, la preminenza del significante sul significato. A tutto questo egli apportava in più la sua virtuosa abilità nel manipolare i segni e la scienza dei segni.

Negli anni precedenti il 1980, da intellettuale critico e di opposizione, si servì virtuosamente degli strumenti semiotici per smontare e anche demistificare le strutture della narrazione e togliere un po’ di ruggine all’accademia italiana ancora legata alla critica crociana. Tuttavia, con Il nome della Rosa, egli compì una vera e propria invasione di campo: usare gli stessi strumenti con cui aveva demistificato molta cultura sia alta sia bassa, per costruire un tipico prodotto di genere, cui solo l’autorevolezza ormai consolidata del suo nome poteva conferire un quid in più che non c’era. Il modello, in realtà, era molto antico – Conan Doyle e altri giallisti presenti nella sua personale biblioteca, su cui si è soffermato durante l’intervista alla tv tedesca; ma trasportando tutta la materia in un favoloso Medio Evo, la narrazione acquisiva una veste apparentemente nuova. L’esperimento riuscì talmente bene che diede il via ad altri analoghi, fino al Codice da Vinci di Dan Brown.

Gli anni ’80 e ’90 furono anche quelli del maggior trionfo dello strutturalismo applicato alla letteratura e in particolare alla narrativa. Erano gli anni in cui la lettura testuale si affermava anche nelle scuole come lo strumento principe per comprendere un testo, ma isolandolo dal suo contesto per coglierlo nella sua nuda essenza di materiale linguistico. Per ragioni biografiche mi trovavo negli stessi anni alle prese con due figli in età scolare che leggevano libri game, componevano in classe narrazioni di cui ciascuno scriveva un capitolo e un altro doveva continuare ecc. Persino in un gruppo di scrittura di cui facevo parte ci divertimmo per qualche tempo a farlo anche noi. Devo ammettere che ne fui affascinato, era stupefacente osservare come ragazzini e ragazzine di quell’età fossero capaci, sotto la guida di bravi insegnanti, di inventare trame e intrecci, personaggi e loro caratterizzazione. Insomma, lo strutturalismo era una macchina che funzionava davvero bene se utilizzando i suoi modelli, studenti delle medie potevano arrivare a tanto; a molto di più poteva arrivare un professore che la scienza dei segni e delle strutture la conosceva a fondo.

Fu proprio in quegli anni e precisamente nel 1985 che, anticipato dagli studi Cesare Segre, approdò in Italia l’analisi strutturalista che Roman Jakobson e Claude Levi-Strauss proposero del sonetto di Baudelaire Les Chats, disaggregandolo con l’abilità con cui un perito settòre seziona un cadavere sul tavolo anatomico.

Nei fui colpito sinistramente; poi mi allarmai di più quando vidi che la tecnica del libro game o altre molto simili entravano nelle scuole di scrittura e poi che cominciavano ad apparire romanzi che assomigliavano molto a esercizi scolastici. Eco ha anticipato tutto questo nel 1980; con lui il postmodernismo entrò a vele spiegate in Italia e lo strutturalismo, da strumento insieme ad altri per avvicinare un testo letterario divenne una macchinetta multiuso.

L’ANTROPOLOGIA AL CENTRO.

Ida Magli non ha goduto della medesima attenzione mediatica. Le ragioni sono tante e sarà sufficiente ricordare che oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: l’essere politicamente molto scorretta, tanto da avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra e l’essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano.

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco), andando alle radici più recenti e dominanti di questa cultura e cioè al cristianesimo e alla sua visione della donna, cui sono strettamente legati i modi di concepire la sessualità. Nel compiere questo passo, Magli non ha dimenticato in ogni momento che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che l’immagine femminile occidentale è una costruzione dello sguardo maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è.

Il centro di irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le rare incursioni che si allontanavano un po’ da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee, legate a fatti di attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, che era poi una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici.

I suoi grandi libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le opere cui ci si deve in prima istanza rivolgere per comprendere il suo percorso e anche i suoi crucci più estremi. Ne scelgo tre, sebbene anche in altri compaia sempre prima o poi un riferimento a questo archetipo (l’uso di questo termine è mio) della cultura occidentale: Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose. Sono tre libri strettamente legati, dove l’antropologa si smarca dalle antinomie classiche con cui si è guardato alla figura di Cristo e di Maria di Nazareth (i primi due libri) e cioè tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue, per leggere i testi evangelici e i pochi altri documenti dell’epoca, mettendo al centro usi costumi, mentalità e quindi contesto sociale, cultura profonda, quelle che Braudel chiamerebbe lunga durata, espressione che Magli stessa cita nella introduzione a La Madonna; sempre però a partire dal linguaggio concreto dei testi, in primis naturalmente, la Bibbia e i Vangeli. In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte quelle figure storiche fossero veri uomini o donne e li situa nel loro contesto. L’analisi del testo evangelico da un punto di vista antropologico, apre le porte a un campo di ricerca vastissimo. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stesso strumento la costruzione dell’immagine femminile a partire però dalle storie reali, dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio.    

STORIA E MEMORIA.

Nelle ultime interviste rilasciate e riproposte nei giorni successivi la morte, Eco tornava sempre a un tema a lui caro, la memoria e ne sembrava un po’ più ossessionato del solito, forse perché nel suo ultimo romanzo, Numero zero, si occupa della recente storia d’Italia. 

Di memoria e strutture si è occupata anche Ida Magli, nessun antropologo ne può prescindere; ma è proprio la diversa e critica considerazione dello strutturalismo che le ha permesso di non essere imprigionata nelle gabbie di un angusto riduzionismo. La sua critica a Levi Strauss è a questo proposito molto importante.

E siamo con questo tornati a quello strumento così potente, il cui metodo permette di saltare sopra il tempo; anzi, di non tenerne conto per nulla. Così, per esempio, tale metodo si può applicare con la stessa efficacia all’analisi di un filastrocca come Ambarabà ciccì coccò tre civette sul comò, oppure alla Vispa Teresa e poi a un canto della Divina commedia. Lo strutturalismo però, in quanto metodo che tratta indifferentemente le strutture, non conosce la dimensione del tempo. Ma se l’oggetto analizzato è il testo letterario, oppure un reperto antropologico, la storia di un popolo o di una cultura, l’eliminazione del tempo rende tutto orizzontale, schiacciato su una sola dimensione e quindi senza tempo e per conseguenza senza memoria possibile. Le strutture diventano allora forme vuote di contenuto, pericolosamente buone per tutti gli usi. Non sarà proprio anche per questo che lo strutturalismo è stato uno degli agenti più o meno consapevoli delle eternizzazione del presente, tanto cara a chi pensa che la storia sia finita? Sarà un caso che nell’epoca in cui esiste un giorno della memoria praticamente per qualsiasi cosa, persino per le ferrovie dimenticate e abbandonate (cercare in rete se qualcuno non ci crede), abbiamo a che fare con una dilagante incapacità di massa, anche da parte di persone che dovrebbero essere colte, di collocare gli eventi storici nel tempo e nello spazio? Naturalmente le responsabilità di questa tragica deriva sono anche altre, ma questa non è trascurabile dal momento che molti formatori si sono formati proprio in quei due decenni in cui lo strutturalismo era sugli scudi.  

La dimensione del tempo e dello spazio occupato da una cultura, inoltre, è forse la sola in grado di indicare a una qualsiasi teoria o scienza, qual è il suo limite.

Nei libri di Ida Magli, l’analisi delle strutture non prescinde mai dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e le loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente e dunque la storia. Questo permette a Magli delle incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. È sua per esempio l’intuizione e poi la ricerca approfondita sulla dipendenza di tutto il linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa, così come sue sono le rapide ma profondissime analisi del soggetto pittorico più frequentato dalla pittura occidentale, la madonna con bambino; oppure sulla musica, come scrive nell’ultima parte del settimo capitolo de La Madonna, intitolato Il tempo interrogativo della musica.

Tuttavia, nel fare questo Magli non ha mai superato il limite. Faccio un solo esempio, ma che vale per tutti. Alla fine dell’analisi antropologica di Gesù di Nazareth, l’antropologa deve affrontare il momento topico della testimonianza sulla sua resurrezione. A quel punto lei registra ciò che viene detto e avviene senza alcun commento: su ciò l’antropologia non ha nulla da dire. Questa coscienza del limite rende ancor più grande quel libro e la sua autrice.