MORTI A TEATRO

La trama e i personaggi

La trama de Il tempo dei morti di Alessandro Carrera, appena uscito per Moretti&Vitali, è costituita da una vicenda famigliare che ricorda anche l’ambientazione di Piccola città di Wilder, come viene detto nella prefazione di Franco Nasi, che si riferisce a una nota dell’autore, contenuta nell’intervista finale. Quanto ai personaggi – Il Padre, la Madre, il Figlio, Il Bambino Morto, l’Angelo, il Droghiere, il Coro dei morti, il Padre ragazzo – essi sembrano richiamarsi lontanamente alla trinità cristiana, circondata da altre figure più o meno canoniche a essa collegate; tuttavia, alcune vistose anomalie rendono tale riferimento subito precario. Prima fra tutte la presenza del Droghiere, forse il personaggio più importante, insieme al Coro, indicato peraltro con un parola ormai desueta, nel senso che lo smercio tipico di quella attività è stato assorbito da mercati più ampi: il Droghiere ci riporta indietro nel tempo. Che mondo è dunque quello che viene rappresentato? Se stiamo alle indicazioni di scena iniziali vi sono pochi dubbi: tutta la vicenda è ambientata in un cimitero.  La poesia, a cominciare da quella che abbiamo imparato a scuola, è piena di discese nell’Ade, di morti che parlano, di viaggi iniziatici, di miti: sono personaggi di autori memorabili che ognuno ricorda. Anche il cinema, l’arte più moderna, ha frequentato il mondo di là, in vari modi: da La voce della luna di Fellini al Nosferatu di Herzog; infine il teatro. L’episodio biografico cui Carrera si riferisce e cioè proprio una rappresentazione teatrale cui assistette suo padre nell’immediato dopoguerra, è un segnale importante. Lasciate stare i nostri morti fu urlato dal pubblico che vi assisteva: i lutti ancora recenti avevano alimentato quel grido, ma la memoria di quell’episodio ha lavorato a lungo nella mente e nel cuore dell’autore se dopo decenni, quei morti tornano a parlare. Non ci dicono nulla sull’aldilà: siamo in piena modernità, questi morti hanno lo sguardo sempre puntato sul mondo che li ha ospitati da vivi, guardano all’al di qua e in questo ricordano anche i defunti dell’Antologia di Spoon river, ma solo come eco, perché in quei testi prevale una forza sintetica che spinge quei morti a esprimersi in un linguaggio definitivo, senza appello. Ne Il tempo dei morti, invece, è la tensione dialettica fra frammenti illuminanti e flusso a dominare. Tale tensione si stempera in un finale addirittura allegro, persino scherzoso e riconciliato, dal colore improvvisamente solare, a differenza della colorazione cupa che accompagna il testo fino a quel momento. Carrera qualche indizio sulle ragioni del percorso lo dà nell’introduzione e nell’intervista finale quando afferma che quest’opera, che lo ha accompagnato per molti anni, è stata:

una lotta con un fantasma, che nel testo è rappresentato dal Bambino morto …  (Pag. 81).

A questa affermazione segue una rapida descrizione del contesto famigliare che provo a riassumere, con una precisazione e cioè che la ricostruzione della trama è qualcosa che il lettore può compiere a cose fatte, ma che non riguarda il tempo del testo – il tempo dei morti – che non può essere lineare come lo è invece qualsiasi ricostruzione ex post.

Nelle prime sette scene, concluse dal Coro dei Morti, si presentano le otto voci e il loro conflitto. Nella seconda metà del dramma (scene 8-14) il conflitto prende corpo. Il Figlio deve scendere nel Regno dei Padri per comprendere che cosa è accaduto tra il Padre morto e il Bambino morto, affrontando la paura della Madre. Il Figlio comprende ciò che è accaduto al Padre e allo zio (il Bambino morto), ma solo in  sogno. Il Coro dei Morti esprime una certa ostilità verso l’Angelo, facendogli capire che la sua immortalità ai morti non interessa; quello che loro vogliono è vivere nel ricordo dei vivi. Il Droghiere sorveglia fino all’ultimo che le cose vadano a buon fine: il riscatto del Padre e del Bambino avviene, ma all’insaputa della Madre e del Figlio che, in quanto ancora vivi, non vi possono assistere. La comparsa del Padre Ragazzo, che ritrova il Bambino morto in un luogo e in un tempo in cui non c’è nulla di vicino o di lontano, conclude l’opera.

La dialettica fra squarci illuminanti e flusso porta il lettore dentro un vortice, di cui però alcuni indizi e segnali permettono di delineare dei confini sia spaziali sia storici. Qualche altro segnale lo lascia Carrera. Il suo accenno biografico alla fuga – l’espressione è soltanto mia ma mi sembra calzante – da Milano verso gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80, anni assai decisivi sia per la grande storia, sia per quelle personali, offrono una cornice temporale sufficientemente riconoscibile a questa narrazione in versi. Nel primo racconto del Padre morto e poi in quello del Droghiere, la collocazione storica, emerge con sufficiente chiarezza, pur nel mezzo di riflessioni che seguono una loro logica interna ai personaggi, da monologo interiore. Siamo fra Milano e Lodi, cioè fra la grande e la piccola città di provincia: ci sono il teatro Carcano e la Scala, l’Eni di Enrico Mattei e i crucci di chi deve ricostruirsi una vita alla fine del conflitto. Il Droghiere tornerà a parlare intorno agli stessi temi.

Il Droghiere

Anche a successive riletture continua ad apparirmi come il personaggio più importante, insieme al Coro. Nel suo primo intervento rimprovera il Padre, lo esorta a dimenticare il discorso che intende fare e che sarebbe poi l’orazione funebre dell’amico in occasione del suo funerale. Capiamo subito che la relazione fra il Droghiere e il Padre morto è stata una grande amicizia:

Metti via che non serve. I discorsi

Già stancano i vivi, ma qui non ci sono

Che morti, stanchissimi e morti. Non so

chi ha voluto che fosse così, alle

Pagine del libro che lo spiega non

C’è volta che ci arrivo …

Il tono ironico dei primi versi si rovescia nella seconda parte: la domanda implicita rimane sospesa e l’accenno alle pagine di un libro che dovrebbe poter spiegare ogni cosa si apre a significati molto estesi. Nella seconda parte del suo discorso torna l’ironia e il tono s’abbassa considerevolmente:

… Gli esami, lo sai, non li davo.

 Non per colpa di donne

o di treni, ma a lezione facevo tardi

Anch’io, e perdevo l’inizio; di tutto,

di come son fatte le cose, di quando

comincia la donna nell’uomo, la radice

quadrata di Dio. Tu sei ancora troppo

vivo, hai le guance bagnate di sonno

e di sogni, non ti basti come noi

ti vorremmo, ti tieni così stretto

a chi sei stato, mi sembri l’internato

di Mauthasusen che a casa da sei

settimane ancora serrava la gavetta

fra le mani vuote …

Il Droghiere rifiuta il discorso/narrazione della storia fatto dal Padre Morto, ma non propone un punto di vista più elevato: neppure lui ha una risposta definitiva, le sue debolezze sono umane come quelle di tutti gli altri, non è la trasfigurazione di una capacità superiore di vedere le cose. Insieme al Padre rappresenta una coppia di amici che hanno vissuto gli stessi anni e le stesse inquietudini: sullo sfondo il difficile secondo dopoguerra. Il Droghiere, in definitiva, sembra essere poco più di un fratello maggiore. Sono vite bloccate, diversamente prigioniere di un destino ormai postumo – sia esso del tutto personale o meno –  che può essere ricostruito solo per frammenti, i quali tuttavia non dialogano fra di loro se non raramente e il motivo sarà proprio l’Angelo a dirlo, come vedremo. Quest’ultimo, più che caduto, scende per scelta nel mondo. Se è un Angelo ribelle, la sua è una ribellione tenue, assomiglia di più a una diserzione: un poco ricorda l’angelo di Un cielo sopra Berlino, ma quello che dice nella prima sestina, è una sentenza che assume la funzione di chiave – intendo il termine nel suo senso musicale – della sua presenza nell’opera:

Prima sestina dell’angelo:

Mi sono ribellato, perché esser felici è intollerabile.

Ho scosso il capo alla salvezza, sotto stelle senza pena,

e sono sceso. Ti annuncio il dolore, l’unica novella

che non mi fa arrossire. Forse non abbraccio il tuo potere,

tanto è più  grande del mio, che invece di riavvolgere

il tappeto manifesto lo consola di una nuova tramatura.

e sono sceso. Ti annuncio il dolore l’unica novella, è questa la sola novella che non fa arrossire chi la pronuncia. Lo spostamento rispetto alla buona novella cristiana è decisivo. Successivamente, le parole dell’Angelo, quando si rivolge alla Madre, esprimono a mio giudizio uno dei temi  più importanti dell’opera:

L’Angelo

Un oblio insondabile e perfetto

Trascorre da una schiatta all’altra

Con la stessa ardente cura

Con cui gli uomini si traggono il sapere.

Pienezza dei padri è soltanto l’infanzia dei figli,

saggezza  intrasmissibile dei vecchi

È che i giovani, lungo la memoria,

diventeranno più e più immemori …

L’oblio, l’impossibilità di una trasmissione fra le generazioni, ma anche fra i membri di una famiglia, la perdita di memoria. l’Angelo lo ribadisce e dunque dalle sue parole emerge quel tanto di consapevolezza in più che tuttavia non può essere condiviso. Siamo così lontani da quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni? La perdita di memoria storica, oppure la sua reiterazione inutile perché banalmente ritualizzata, non sono forse una delle caratteristiche salienti del nostro tempo? Quanto alla memoria personale, sappiamo quanto sia labile e sottoposta alle rimozioni: come sia facile scambiare date e situazioni. In fondo, anche per i vivi, il tempo lineare è una difficile conquista. Solo il lettore, a questo punto, può decidere di assemblare i frammenti diversi di queste consapevolezze. In questo senso, il testo di Carrera chiede la sua cooperazione ma non la sua complicità perché i silenzi, i vuoti, persino le amnesie – nonostante il flusso – o non permettono una sintesi, oppure ne permettono molte; o a ciascuno la propria.

I dialoghi fra la Madre e il Figlio sono stati per me la parte più difficile da decifrare. Non mancano anche nei loro interventi frammenti illuminanti, ma sembrano correre su due binari paralleli: la discesa alle Madri è particolarmente difficile e lo è forse di più per un uomo, se ha nicchiato pure Goethe come afferma Carrera nell’intervista. La ragione per cui il Figlio è nato e insieme non nato, anzi disnato, è la presenza del Bambino Morto, il fratello del Padre, morto da bambino in circostanze cupe e che porta lo stesso nome del Figlio. Tuttavia, si comprende che del Regno dei Padri la Madre non sa e non vuole sapere nulla e teme che il Figlio non faccia più ritorno, mentre lui deve staccare da sé il fantasma del Bambino morto per poter dire di essere nato. Anche il Figlio e il Ragazzo morto sembrano condannati a un linguaggio ancora più magmatico perché la loro esistenza, più ancora di quella degli altri, è senza interlocutori. È questa la ragione per cui i versi con cui si esprimono sono così franti rispetto alla solennità di altri? Probabilmente sì, ma talvolta ho avuto la tentazione di leggerli senza la cesura del verso decisa da Carrera. Nel primo intervento del Figlio pare di sentire tutto l’affanno del dire, anche se nel finale s’intravede una possibile luce:

Pure un indizio

Di memoria

Ancora mi raggiunge,

mi questiona.

Anche nelle prime battute della Madre s’avverte il medesimo affanno, è un parlare a se stessa più che al figlio, c’è una distanza palpabile che rende la comunicazione quasi impossibile. In un passaggio la Madre ricorda Maria, quando implora il Figlio di non interrogarla e prosegue così:

… comprendimi in silenzio,

io ti ho concepito nel silenzio,

tu destino, tu contemplazione,

come io fui contemplata e soppesata.

Il silenzio, in questo caso, sembra essere quello di chi nel progetto generale non ha avuto voce, perché è stata contemplata e soppesata da altri, cioè il mondo dei padri. Nelle parole della madre, infatti, la storia non compare mai e una volta sola sembra affacciarsi nelle parole del Figlio quando afferma:

Ragazzi come io non sarò mai,

seduti sui muretti

spruzzati con la canna,

intenti farsi grandi

sognarsi come padri, più furbi e fortunati,

 fumano fuori dalla fabbrica

abbassando scappamenti.

Per una conclusione

Classificare un libro come Il tempo dei morti non è facile e forse solo dopo esserci tornato più volte si potrà dire qualcosa al proposito. Il mio percorso, peraltro, è stato testuale e probabilmente parziale, ma nel concluderlo è aumentata in me la convinzione che un testo del genere, può trovare nel teatro il suo felice punto di caduta. Se il Droghiere è il personaggio chiave della prima parte del testo, il Coro dei morti ha svolto un ruolo determinante nel giungere a tale conclusione perché non si tratta solo di un omaggio alla radice greca della nostra cultura, come avevo pensato a una prima lettura. Prima di tutto la sua collocazione centrale nel testo: è la settima sezione su quattordici e segna il passaggio da un prima a un dopo. La metrica è solenne, oscilla fra il blank verse della poesia inglese e l’endecasillabo, ma la particolare disposizione del testo conferisce al medesimo una sonorità molto forte, a volte aspra, che invoglia anche il lettore solitario a una recitazione a voce alta. La particolare compattezza del testo, si rovescia però nel suo opposto perché, facendoli parlare a turno e affidando a ciascuno una quartina diversa, il coro si disgrega in una molteplicità di voci che parlano individualmente, rompendo così la tradizione che affida al Coro una verità sovra determinata. Nel loro parlare insieme e disgiunti chiedono ancora una volta al lettore o allo spettatore di cooperare. Le sintesi non possono che essere tante e diverse, prestandosi anche a messe in scena per nulla tradizionali, dove la musica e persino la danza moderna possono svolgere un ruolo decisivo insieme a una parola che propone, nel corso dell’intera opera, un’alternanza di stili – da quello più alto, al basso colloquiale, al medio – che si prestano a loro volta a una polifonia di soluzioni.

IN DIFESA DI ISMENE. Seconda parte

Gli anziani di Tebe

La prendono alla lontana i vecchi saggi, perché in un primo loro intervento c’è una bellissima descrizione naturalistica di un’alba a Tebe. Siamo immersi nella natura fisica, la luce, il sole, la terra. La descrizione è lunga quanto basta per pensare che Sofocle volesse indirizzare l’attenzione di chi assisteva allo spettacolo e di chi legge proprio sulla natura fisica. Improvvisamente però lo scenario muta e il coro racconta come la guerra si sia abbattuta sulla comunità e ne ricostruisce le diverse fasi fino alla fine. L’intento è quello di creare emotivamente una contrapposizione fra la natura solare e il comportamento umano? Lasciamo la domanda in sospeso. Questa parte, che si potrebbe definire descrittiva e narrativa, si conclude con l’entrata in scena di Creonte e il corifeo si domanda perché mai il re abbia indetto un’assemblea pubblica. Questo particolare è assai importante perché ci rivela indirettamente due cose: che gli anziani non sanno ciò che Creonte dirà nella pubblica piazza e tanto meno sanno ciò che accadrà subito dopo e cioè che appena udito il contenuto dell’editto che impedisce la sepoltura di Polinice, una delle guardie si presenterà per annunciare che qualcuno lo ha fatto, ma non sanno chi sia. Antigone era venuta a conoscenza delle intenzioni di Creonte per prima, ma per vie traverse, vivendo nella reggia e lo aveva rivelato solo alla sorella Ismene. Quando si conclude il dialogo fra il re e la guardia, con l’ingiunzione del primo a portare al più presto il colpevole, pena la sua punizione esemplare, ecco che gli anziani parlano di nuovo e siamo così arrivati al famoso e controverso primo stasimo. Eravamo partiti dalla natura, poi era seguita la descrizione della guerra. Ora il tono improvvisamente cambia: entra in scena anthropos e altrettanto improvvisamente dai prodigi della natura si passa a quelli di anthropos. La parola ha molti usi e la traduzione uomo inteso come maschio si sovrappone l’altra come umanità e dunque comprendente anche le donne. Che significato ha in questo contesto è chiaro: è il soggetto maschile anche perché le imprese che vengono ricordate sono tutte maschili. Ma la domanda forse più importante è un’altra: che senso ha questo discorso subito dopo avere udito l’editto di Creonte e avere saputo che qualcuno ha sepolto Polinice? Vediamo il testo nella sua prima parte.

Molti si dànno prodigi, e niuno

   meraviglioso piú dell’uomo.

   Sino di là dal canuto mare,

   col tempestoso Noto, procede

   l’uomo, valica l’estuare

   dei flutti, e il mugghio; e la piú antica

   degli Dei, l’immortale Terra,

   l’infaticata, col giro spossa,

   anno per anno, degli aratri,

   col travaglio d’equina prole.

                                       Antistrofe prima

   E degli augelli le stirpi liete

   cinge di reti, ne fa preda,

   e le tribú di selvagge fiere,

   e le marine stirpi del ponto

Oltre ogni umana credenza, il genio

   dell’arti inventore possiede;

   ed ora si volge a tristizia,

   ed ora a virtú.

   Se onora le leggi

   dei padri, e degl’Inferi

   il giuro, la patria egli esalta.4

L’essere umano maschile porta nel mondo una forma diversa di meraviglia, che si manifesta in diversi modi: la capacità di navigare, di arare la terra e di trasformarla, in una parola la tecnologia. Nell’antistrofe emerge l’altra e cioè la capacità di legiferare, di stabilire delle regole di convivenza sociale. Poiché donne e meteci erano esclusi dalla polis è dunque sensato pensare che il coro si riferisca qui alla sola comunità maschile che legifera per tutti. Nella chiusa, che riporto qui sotto di seguito, avviene però un salto logico improvviso e il discorso non può essere rapportato facilmente alla tecnica, intesa in questo caso come atto giuridico, per esprimerci in un linguaggio moderno. A dire il vero, un accenno vagamente sinistro, che anticipa la conclusione qui di seguito, c’era anche nell’ultima parte del brano precedente, laddove in modo del tutto gratuito e inopinato si diceva ed ora si volge a tristizia ed ora a virtù. A chi si riferiscono questi versi: alla natura profonda di anthropos oppure alla tecnologia che può essere buona o cattiva? Il tutto è ancora più complicato dalla diversità delle traduzioni perché in quella di Cantarella e di Tonelli non si parla di tristizia e di virtù, ma addiritturadi bene e di male, come si è visto.5 Veniamo allora agli ultimi versi:

Ma patria non ha chi per colmo

d’audacia s’appiglia a tristizia.

Vicino all’ara mia

mai non s’annidi l’uom che cosí adopera,

e mai concorde al mio pensier non sia.6

L’oscurità consiste in un doppio movimento e anche in un repentino cambio di registro linguistico. Da entusiastico nell’ammirare i prodigi di anthropos, il tono diventa di colpo dolente, austero e preoccupato, nei primi due versi. Infine, severo, allontana dall’ara domestica chi si adopera in quel modo. Quale modo? E cosa significa quell’appellarsi alla tristizia o al male? La parola indica un legame con i due versi ricordati in precedenza, ma questo non risolve il mistero. A chi si rivolge il coro e con lui Sofocle? Ad anthropos in modo generale e generico, o a qualcuno di preciso e cioè a colui che ha trasgredito l’editto (il coro come Creonte non sa ancora che è una donna e non un uomo ad avere sepolto Polinice), oppure a Polinice medesimo che ha preso le armi contro la propria comunità? Proviamo a rispondere alle domande attenendoci al testo e alle differenti traduzioni. L’atteggiamento prima riflessivo e poi dolente del coro è causato di certo dal discorso di Creonte, ma non mi convince del tutto che si riferisca alla tecnica. Il coro si domanda come sia possibile che anthropos, fattore di molte meraviglie (o tremendità), si volga a volte verso il bene a volte verso il male: s’interroga cioè sulla natura umana e non sulla tecnica o sulla tecnologia. Siamo noi a farlo, anche se penso che vi sia in questo passaggio un tratto di irriducibile oscurità, come suggerisce anche Montani. Alla fine, il verso finale va inteso a mio avviso in questo senso: colui (e non vi è dubbio che pensino a un soggetto maschile), che per colmo d’audacia s’appiglia a tristizia (o al male) vicino all’ara mia mai non sia. Il coro si riferisce probabilmente a Polinice che, per colmo d’audacia – anche di arroganza e di hybris? – ha rivolto le proprie armi contro la comunità e lo bandisce persino dall’ara domestica e mai non sia il mio pensiero come il suo. La traduzione di Tonelli inclina decisamente in questa direzione: Ma è fuori dalla città, inizia la sua parte finale, mentre Del Corno è più sfumato. Il coro sembra qui accettare l’idea di Creonte, estrema di certo per tutti e cioè che Polinice sia indegno anche della semplice devozione domestica, cioè le famose leggi del sangue, la legge calda per dirla con Zagrebelsky. La scena però non si conclude qui perché subito dopo la guardia trascina Antigone al cospetto di tutti e il coro a quella vista rimane sgomento.

(Entra la guardia sospingendo Antigone)

A questo prodigio straordinario rimango perplesso/Come negare, conoscendola, /che questa è la giovane Antigone?7

Nessuno si aspettava che fosse una donna ad avere trasgredito l’editto e lo sgomento del coro è ben più grande di quello di Creonte medesimo! Quest’ultimo, posto di fronte a un fatto del tutto inatteso, appare subito dominato da una formazione reattiva più che da un’identificazione inflessibile con la legge. Se mai c’era un modo di farlo ragionare era proprio quello di condizionarlo senza mettersi in concorrenza con lui. La battuta chiave di tutto il suo gran parlare, in questa prima fase, è questa rivolta ad Antigone:

E allora se devi amare, va sotterra e ama quelli di là; a me finché vivo non comanderà una donna.8

Tutto il busillis sta lì, anche perché ripeterà in modi simili e anche più rozzi lo stesso concetto in altre battute successive. Vien persino da pensare che se fosse stato un uomo a seppellire Polinice, Creonte avrebbe potuto ragionarci, ma è una donna – Antigone – e non bisogna dimenticare mai che le donne sono escluse dalla polis e che per giunta Antigone è pure una meteca!9

Il discorso di Emone

Rossana Rossanda vede nel discorso di Emone il germe di una soluzione politica diversa e dunque possibile anche in quel contesto: indirettamente dunque l’intervento di Rossanda rifiuta l’idea che fosse presente uno stato d’eccezione. Riporto le parti essenziali del discorso, saltando l’inizio dove Emone con grande circospezione cerca di avvicinarsi in punta di piedi alle questioni salienti, che vengono poi introdotte così: 

Padre,… La tua presenza, sbigottiti rende

   i cittadini, sí che non ti dicono

   mai ciò che udire non ti piace: invece

   io tutto posso udir, quanto nell’ombra

   dicendo van: che la città commisera

   questa fanciulla, immacolata piú

   d’ogni altra donna, e che compiuta ha l’opera

   la piú nobile, e in cambio ne riceve

   la piú misera morte. Essa il fratello

   che nel suo sangue cadde, non lasciò

   che dai cani voraci e dagli uccelli

   fosse distrutto: non è dunque degna

   d’esser coperta d’oro? – Ecco le voci

che, basse, oscure, vanno attorno. Ora, io,

Or tu, nell’animo

   non accoglier quest’unico pensiero,

   che ciò che dici tu, quello sia giusto,

   e poi null’altro. Chi d’avere crede

   senno egli solo, ed anima e parola

   come niun altri, se lo cerchi dentro,

   vuoto lo trovi. A un uomo, e sia pur saggio,

   non è disdoro molte cose apprendere,

   e non esser cosí rigido. Vedi

presso i torrenti impetuosi, gli alberi

   che si flettono, intatti i rami serbano:

   quelli che invece fan contrasto, svelti

   dalle radici piombano. E cosí,

   chi su la nave troppo tese tiene

   sempre le scotte, e mai non le rallenta,

   naufraga infine, e naviga sui banchi

   capovolti. Su via, l’ira tua frena,

   e muta il tuo parer. Ché, se a me giovane

   dare un consiglio è lecito, io ti dico

   che per un uomo, il meglio è certo nascere

   pien di saggezza; ma tal sorte è rara;

   e bello è pur da chi ben dice apprendere10

I contenuti del discorso di Emone sono certamente condivisibili e saggi: non ascoltare solo te stesso, ascolta quello che ormai tutti dicono a Tebe e cioè che Antigone sta solo seppellendo un fratello morto: di che cosa può essere ritenuta colpevole? I contenuti di un discorso, tuttavia, in politica, sono solo una parte di ciò che è essenziale, perché in politica la forma è quasi sempre sostanza. La politica o è pubblica o non è e il discorso di Emone, accettabile nei suoi contenuti, non è tuttavia un discorso pubblico. Lo capiamo da un altro passaggio nel quale sarà proprio Ismene ad avere un ruolo importante. Quando anche lei viene trascinata dalle guardie davanti a Creonte e si auto accusa come Antigone di un atto che tuttavia non ha commesso, sarà proprio lei a compiere un ultimo tentativo, disperato ma non privo di una sua logica, per cercare di dare alla storia un altro finale. Si rivolge al re come padre: 

Ismene:

   La sposa di tuo figlio ucciderai?

Creonte:

   Altri solchi ci sono, e arar si possono.

Ismene:

   Ma non com’era questa a quello adatta!

Creonte:

   Pei figli miei detesto tristi femmine!

Antigone:

   Come, diletto Emón, t’offende il padre!11 L’ultima battuta di Antigone può avere solo un significato e cioè che Emone è presente a quel drammatico colloquio e in quel contesto tace! Dunque, quello di Emone è il discorso di un consigliere del Re, dunque dietro le quinte del potere, seppure rispettabile nei contenuti. Tuttavia riconosco che a questa mia interpretazione si può opporre  che il personale è politico e visto che ci siamo chiesti se vi sia o meno uno stato d’eccezione, allo stesso titolo possiamo attualizzare il discorso di Emone in una chiave che il femminismo ci ha insegnato a leggere. Tuttavia continua a non convincermi del tutto l’ipotesi formulata da Rossanda e cioè che anche in quel contesto sarebbe stata possibile una soluzione politica diversa: la possiamo intravedere noi perché il discorso di Emone ci appare senz’altro molto vicino a una sensibilità che sentiamo nostra, più di altri discorsi ed è quindi legittimo interpretarlo in tal senso. Tuttavia non credo fosse possibile allora una soluzione. Ancora una volta è il testo sofocleo a stupirci per la sua profondità e ambivalenza, ma il silenzio di Emone durante la pubblica assemblea esprime un’impotenza reale che non dipende da lui e non è imputabile a una mancanza di carattere e a una forma di vigliaccheria. Il modo con cui comunque affronta il padre nel brano ricordato sopra dice che il coraggio non gli mancava. Neppure lui, tuttavia, poteva, se non a prezzo della propria vita, prendere una posizione forte rispetto a una questione politica da cui le donne sono escluse: se si dimentica questo si rischia di non comprendere i comportamenti di tutti, focalizzando troppo l’attenzione sui due protagonisti principali, che è anche un po’ il limite dell’interpretazione hegeliana della tragedia. Nonostante la scelta del modello eroico, infatti, ridurre il testo alla tenzone fra Antigone e Creonte oscura il fatto che in questa tragedia i protagonisti sono molti e che gli altri non sono semplici marionette nelle mani del Destino, ma si avvicinano a una tipologia umana più complessa. Quanto a Ismene, dopo avere compiuto il suo tentativo estremo di cambiare il finale della storia, esce di scena e ricade nella sua opacità. Però, anche Antigone rimane sola, in un contesto che non le appartiene, ma nel quale si trova prigioniera come lo è Creonte per ragioni opposte alle sue. Gli altri stanno tutti nel mezzo.


4 La traduzione di cui sopra è del celebre grecista dei primo del ‘900 Ettore Romagnoli.  Nei punti essenziali e controversi dello stasimo citerò poi le altre due. La differenza, molto rilevante, in questa prima parte è che in entrambe le traduzioni di Cantarella e Tonelli si usano i termini bene e male e non tristizia e virtù.

5Rispetto al passaggio più controverso ecco come traduce Raffaele Cantarella: …./Possedendo di là di ogni speranza,/l’inventiva dell’arte che è saggezza,/talora muove verso il male, talora verso il bene… In  Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone A cura di Dario del Corno, traduzione di Raffaele Cantarella, Biblioteca Arnoldo Mondadori editore, Milano 1982, pag. 283. Tonelli, non si discosta da quest’ultima traducendo e inclina ora al male ora al bene. Sofocle, Le tragedie. A cura e traduzione di Angelo Tonelli, Marsilio, Venezia 2004. Pag. 187. Tuttavia è importante notare come Del Corno e Tonelli traducono l’inizio dello stasimo, particolare niente affatto neutro. Del Corno traduce: Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo. Tonelli traduce: Molte sono le cose tremende, ma nulla è più tremendo dell’uomo. Intorno a questo stasimo si giocano molte diverse interpretazioni e quella di Romagnoli, che si scosta di molto rispetto alle due più recenti, va comunque considerata anch’essa, per ribadire che la traduzione di questo passaggio rimarrà alla fine, assai controversa e in parte anche misteriosa. Quanto alla traduzione di Tonelli, secondo me filologicamente più accurata, bisogna considerare che il meraviglioso e il tremendo non sono una coppia ossimoro per la lingua greca antica e un concetto analogo è stato ripreso da John Ruskin  a proposito del sublime e del numinoso, che hanno un aspetto che è al tempo stesso meraviglioso e orrido e inquietante quando non terribile; qualcosa di simile possiamo ritrovarlo anche nel concetto di perturbante in Freud. Io penso che Tonelli abbia dunque rispettato profondamente – con quella traduzione – un’ambivalenza che è in Sofocle e che scorre come un filo rosso lungo tutta la tragedia di Antigone.

6 Anche questa prima traduzione è di Romagnoli. Le altre due. Del Corno: … ma senza patria è colui/ che per temerità si congiunge al male:/non abiti il mio focolare/né pensi come come/chi agisce così. Tonelli: Ma è fuori dalla città/chi frequenta il male/per compiacere la sua audacia temeraria./Stia lontano dal mio focolare,/stia lontano dalla mia amicizia,/colui che agisce in questo modo!/

7 La traduzione che ho scelto in questo caso è quella di Cantarella, Op. cit. pag. 283. La traduzione di Tonelli, tuttavia, non si discosta da questa.

8 Op.cit. pag. 293.

9 Per tutte queste ragioni non mi convincono alcune rappresentazioni, o meglio attualizzazioni moderne, che attribuiscono a Creonte una forza che in realtà egli non ha e che Sofocle non gli attribuisce, dal momento che, quando verrà posto di fronte alla realtà dei suoi atti, collasserà su se stesso in un istante, prima di tutto perché non è stato in grado di valutare le conseguenze del suo editto e della sua ostinazione. Creonte è un uomo che, posto di fronte a una decisione difficile e a un comportamento inatteso, perde la testa perché non è in grado di governarli né dal punto di vista emotivo e neppure politico: esibisce allora un surplus d’inflessibilità perché è preso dal panico e deve mostrarsi forte a tutti i costi: è un meccanismo psicologico noto.

10 Ho scelto in questo caso la traduzione di Romagnoli essendo i contenuti del discorso chiari e senza ambivalenze di sorta.

11 Ivi.