SRAFFA E WITTEGENSTEIN

Ludwig Wittgenstein

Premessa

Le relazioni fra Piero Sraffa e Ludwig Wittgenstein a Cambridge sono state affrontate in vario modo da diversi studiosi e sono anche oggetto di controversie, per un certo alone di mistero che – si suppone – avvolga le biografie di entrambi; e anche, infine, per le spigolosità ed eccentricità dei loro caratteri. Inoltre, i due facevano parte di una costellazione di rapporti, al cui centro troviamo Maynard Keynes, mentore di molti di loro, nonché grande e perspicace organizzatore di uomini oltre che economista. Sullo sfondo due ultimi convitati di pietra: Antonio Gramsci e l’italianista Raffaello Piccoli. I cosiddetti misteri vanno a mio avviso ridimensionati e molti di essi riguardano un aspetto delle loro relazioni su cui porre subito attenzione, tanto esso è particolare e sorprendente nel secolo dell’esplosione abnorme dell’esposizione mediatica. Nel loro caso, le relazioni sembrano provenire da un mondo precedente, in cui le conversazioni mentre si passeggiava o si andava in canoa erano altrettanto importanti quanto le conferenze ufficiali e le lezioni accademiche. Naturalmente tale circostanza, assai affascinante, pone però chi si occupa di loro nella stessa condizione di un archeologo che ritrova dei reperti cui mancano sempre dei pezzi; inoltre tale circostanza favorisce il moltiplicarsi di ipotesi, gli aneddoti e le dicerie. Infine, ci sono diversi aspetti di tali relazioni che s’intrecciano – personali e non – altrettanto affascinanti. Quello di cui mi occuperò prevalentemente in questo scritto riguarda però una questione specifica. Essa è stata sollevata in un saggio di Giorgio Gattei: se e in che modo le Osservazioni e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein e cioè le opere successive al Tractatus, abbiano influenzato gli scritti economici di Piero Sraffa.1 Tale questione, tuttavia, può essere rappresentata come un pianeta intorno al quale ruotano diversi satelliti e – per continuare la metafora astronomica – le orbite e le masse di ognuno di questi altri corpi – hanno delle influenze sugli altri e questo moltiplica i temi e gli interrogativi. Eccone solo alcuni, perché altri si vedranno strada facendo: quanto – a sua volta – Sraffa ha influenzato Wittgenstein nella stesura delle opere successive al Tractatus? Più in generale, qual è stato il rapporto di Sraffa con Wittgenstein e quali i temi delle loro conversazioni? Che ruolo ebbe Keynes nel pilotare quelle relazioni in modo talvolta esplicito e in altre nell’ombra? È raro, infatti – almeno in prima istanza – trovarsi di fronte a giudizi così radicalmente opposti da parte dei loro contemporanei, come ricorda Giancarlo de Vivo in un passaggio del libro Nella bufera del Novecento.2

Il contesto

Wittgenstein approda una prima volta in Inghilterra nel 1911 e vi rimarrà fino allo scoppio della guerra. Conosce Bertrand Russell, che sarà il primo degli incontri importanti della sua vita. Dopo vari nomadismi che lo trascinano un po’ ovunque in Europa e che contraddistinguono ogni fase della sua vita, torna a Cambridge nel 1929 ed è allora che entra in contatto con Keynes, Ramsey e Sraffa. Quest’ultimo aveva dato le dimissioni da docente di economia in Italia e aveva lasciato il paese nel 1926, dopo il varo delle leggi fascistissime. La vera svolta nel suo lavoro iniziò quando Keynes, nel 1927, gli propose una lectureship di qualche anno. Sraffa accettò, stabilendosi nella città inglese, dove rimarrà tutta la vita. Nel 1928, aveva dato una prima forma alle proposizioni iniziali di Produzione di merci a mezzo merci.3 Comincia anche a occuparsi della Teoria avanzata del valore e nel frattempo entra in relazione con Michal Kalecki, Maurice Dobb, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Frank Ramsey, infine con Wittgenstein: a metterli contatto è Keynes, che aveva intuito una loro possibile affinità. Tuttavia, il suo intento era anche un altro: non essere troppo assillato dal filosofo, di cui non apprezzava l’ascetismo. In quel periodo, Sraffa riceveva continue pressioni dagli Usa perché si trasferisse là e Keynes era riuscito a fargli avere un finanziamento a quello scopo; ma non se ne fece nulla. Sraffa rifiutò anche il consiglio di Richard Kahn, di insegnare italiano, dopo la morte di Raffaello Piccoli. Di lì a poco, però, Keynes gli avrebbe affidato la cura degli scritti di David Ricardo, cui Sraffa avrebbe dedicato due decenni e questo sarà un altro snodo assai importante e con molte conseguenze che vedremo. Nel libro di de Vivo vengono ricordati alcuni giudizi di Perrry Anderson e altri che tendono addirittura a sminuire del tutto le influenze reciproche fra Sraffa, Keynes e Gramsci, sposando la tesi che fra di loro esistesse una grande amicizia ma non un rapporto intellettuale di scambio vero e proprio.4 Diverso il rapporto con Wittgenstein perché in questo caso abbiamo la sua testimonianza, riportata anche nel libro di de Vivo. Alla fine dell’introduzione alle Ricerche filosofiche, il filosofo infatti scrive:

 … sono stato aiutato a correggere i gravi errori che avevo commesso nella prima fase del mio pensiero … dalla critica che un insegnante di questa università, Piero Sraffa, ha per molti anni esercitato incessantemente sul mio pensiero.5

Non vi è dubbio che per prima fase del pensiero si debba intendere proprio il Tractatus. La critica di Sraffa verte su quello, ma su che cosa esattamente non lo sappiamo poiché tutto avveniva in conversazioni di cui esistono tracce indirette, anche se da alcune testimonianze sparse qui e là e in un passaggio del libro di de Vivo è possibile avanzare qualche ipotesi. Sempre nell’introduzione alle Ricerche filosofiche Wittgenstein ringrazia anche Frank Ramsey e questo è assai interessante perché crea, una triangolazione che non si può ignorare, sia perché Ramsey assistette Sraffa durante la stesura delle prime equazioni di Produzione di merci a mezzo merci, sia perché fu a sua volta un importante economista; sia infine, perché esistono ampie documentazioni sui loro incontri a tre, purtroppo troncati dalla precoce morte di Ramsey. Perché, tuttavia, il Tractatus fu criticato da Sraffa nelle loro conversazioni? Gli studiosi sono piuttosto divisi nel commentare l’opera. Alcuni tendono a sottolineare come in questo libro Wittgenstein cercasse ancora l’essenza, termine che va inteso in senso molto ampio.6 Per altri, invece, il nodo del problema è se le proposizioni elementari di Wittgenstein nel Tractatus si possono considerare alla stregua di affermazioni particellari e quindi atomiste – secondo la linea di pensiero di Russell – oppure se non lo siano affatto; infine la questione della logica e del suo ruolo sia rispetto alla matematica, sia rispetto alla possibilità di applicarla al linguaggio. Quando Wittgenstein riassume il suo percorso in una pagina di diario del 1916, così si esprime:

l’idealismo separa dal mondo, come unici gli uomini, il solipsismo separa solo me dal mondo, ma alla fine vedo che anch’io appartengo al resto del mondo: da un parte resta dunque nulla, dall’altra, unico il mondo. Così l’idealismo pensato con rigore finisce per arrivare al realismo.7

Il brano è a dire il vero un po’ ellittico e certamente non chiarisce molto! Il passaggio dal solipsismo al mondo sembra un salto mortale che ci porta addirittura al realismo, un atteggiamento filosofico che sembra escludere sia il ricorso alle essenze trascendentali, sia al fondamento, parola che ritorna però nelle Osservazioni sulla matematica. La critica di Sraffa verteva proprio su questa contraddittorietà fra realismo e ricerca del fondamento e addirittura dell’essenza? Oppure è sull’atomismo  che i due s’intendono ma anche fraintendono? Per arrivare a una possibile risposta  dobbiamo superare molti ostacoli e vedere come alcune proposizioni del Tractatus vengono trasformate nelle opere successive. Prima di proseguire in tale direzione, tuttavia, occorre affrontare il primo ostacolo: la tempistica. Come ho già affermato, Keynes propose a Sraffa la cura delle opere complete di David Ricardo e l’impegno era talmente gravoso che egli abbandonò il progetto iniziale di Produzione di merci a mezzo merci, cui ritornerà vent’anni dopo. Le conversazioni con Wittgenstein e con Keynes, tuttavia, non vennero affatto meno, ma lavorarono nell’ombra in un duplice senso: perché poco ne sappiamo da un lato e perché possiamo solo dedurne qualcosa dagli effetti che avrebbero prodotto a distanza di anni. Tuttavia, anticipo le conclusioni con una prima affermazione che sarà meglio argomentata nel prosieguo: i discorsi con Wittgenstein ebbero un ruolo nella scelta radicale compiuta dall’economista, che consiste nel determinare il valore del prodotto economico in termini fisici, scostandosi in questo modo sia da Ramsey sia da altri economisti marxisti.8 Le discussioni lavorarono sotto traccia, probabilmente in un duplice senso: proprio il ricorso continuo da parte di Wittgenstein al fondamento e alla logica convinsero Sraffa che anche in economia occorresse abbandonare il tentativo di reductio ad unum della eterogeneità delle merci, che era poi il mantra del marginalismo. Il modello a due e poi a tre merci su cui sono basate le prime proposizioni di Produzione di merci a mezzo merci, va incontro a tale esigenza; infine, riconoscere i limiti del calcolo matematico applicato in sede economica. Su tale questione, tuttavia, furono ben più decisive le conversazioni con Keynes che aprono un altro capitolo di questa storia affascinante.9 Quanto alla questione dell’atomismo si può affermare con certezza che Sraffa era un anti atomista e si muoveva nel solco di Marx e di Gramsci: è probabile che l’oscillazione nei rapporti fra Sraffa e Wittegenstein fossero dovute all’incertezza del filosofo su questo punto. La domanda secca da porre è proprio questa: Wittgenstein era atomista oppure no? Quando Sraffa in una conversazione parla del Tractatus definendolo un libro sbagliato, si riferiva a questo o ad altro?10

John Maynard Keynes

Dopo il Tractatus

Come possiamo capire quale reale influenza abbia esercitato Sraffa sulle opere successive al Tractatus? Possiamo inferire alcune conseguenze prendendo in considerazione un libro del tutto particolare dove si parla di un tema apparentemente lontanissimo da quello qui trattato e chiamando in scena un nuovo personaggio. Il testo in questione è Ludwig Wittgenstein e la musica, di Pietro Niro, pubblicato nelle Edizioni Scientifiche Italiane, mentre il nuovo protagonista, peraltro già citato, è l’italianista Raffaello Piccoli.11 Nel Terzo capitolo del libro vengono prese in considerazione proprio le opere successive al Tractatus e in particolare come alcune proposizioni del primo vengono trasformate in quelle successive. Il confronto fra le due versioni e la citazione di una pagina di Sraffa riportata nel libro di de Vivo possono offrire argomenti per sostenere che la critica mossa dall’economista al filosofo riguardasse proprio il fondamento. Vediamo per prime alcune proposizioni del Tractatus e recisamente la 3.262 e la 3.226:

Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione Ciò che i segni occultano  lo rivela la loro applicazione.

 Per riconoscere il simbolo nel segno se ne deve considerare l’uso munito di senso.

Ecco come nella Grammatica filosofica e nelle Ricerche filosofiche tali proposizioni vengono trasformate:

L’uso della proposizione, ecco il suo senso

L’uso della parola nel linguaggio è il suo significato.

Il significato della parola è il suo uso nel linguaggio.

La filosofia si limita, appunto, a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla. – Poiché tutto è lì in mostra non c’è nulla da spiegare. Ciò che è nascosto non ci interessa.

Dietro tali cambiamenti mi sembra di sentire l’eco delle conversazioni con Sraffa, specialmente per quanto attiene alla parola uso. Come afferma Diego Marconi nel libro di Niro:

 … Il primo Wittgenstein vuole trovare l’essenza della proposizione … il secondo pensa che tale essenza non ci sia … il primo pensa che se una proposizione ha senso il suo senso deve essere perfettamente determinato, il secondo pensa che si tratta di un illusione …

Riferirsi all’uso è proprio il tramite con cui in fondo Wittegenstein si rifà a quella citazione del diario in cui addirittura approdava al realismo. Certamente dosi di realismo erano presenti nelle conversazioni con Sraffa, che aveva la particolare abilità nell’usare il rasoio di Occam per liberarsi dei falsi problemi. Lo stesso avviene in una lunga citazione di Sraffa riportata libro di de Vivo, alle pagine 85-6. Nelle argomentazioni di Sraffa sembra di cogliere sotto traccia la eco delle discussioni con Wittgenstein e in particolare sulla difficoltà intrinseca della comunicazione verbale e scritta e i limiti del linguaggio. Il paradosso è che leggendo tale citazione sembra proprio che chi cerca di mettere in pratica il famoso aforisma con cui si chiude il TractatusSu ciò di cui non si può parlare è bene tacere –  sia l’economista piuttosto che il filosofo! Va pure osservato che tale aforisma non è stato sempre interpretato e ripensato nella sua valenza conoscitiva, perché ha prevalso la sua fulminante ed elegante concisione, che ha nascosto il senso probabile di quella resa e cioè l’abbandono da parte dei filosofo della convinzione che le armi della logica potessero essere definitive nel delineare il rapporto fra linguaggio e mondo. Nella parte finale della sua vita – ma tale convinzione è presente sotto traccia da sempre e va fatta risalire al suo rapporto con la musica – Wittgenstein si convinse che il peso da lui attribuito alla logica nei suoi anni giovanili, doveva essere invece riconosciuto all’estetica. Quanto a Piccoli, il suo ruolo è al tempo stesso molteplice e indeterminato. Le notizie che si trovano su di lui sono scarse, ma ognuna di esse conferma la sua importanza di studioso, ma anche di mentore, forse non così importante come Keynes ma di certo rilevante. In che modi possa avere influito sugli altri suoi compagni di ventura a Cambridge è assai difficile da stabilire ma il suo nome è citato in varie occasioni. 12

Del metron e del calcolo

Quale sia il posto da assegnare alla matematica nel calcolo economico, è un problema che si pone fin dal momento in cui l’economia diviene un reale oggetto di studio. Fu questa, per esempio, una delle ragioni di dissenso profondo fra Ricardo e Malthus. Lo ricorda Giorgio Gattei nel saggio postfazione all’Introduzione a Ricardo di Sraffa. Proprio a Malthus, Ricardo rimproverava di pensare che l’economia non fosse e non dovesse essere una scienza rigorosa come la matematica, mentre lui lo pensava. Tuttavia, la questione va considerata da un punto di vista storico: la matematica di cui entrambi parlano non ha niente a che vedere con le simulazioni contemporanee, gli algoritmi ecc., ma è sempre una matematica da ragionieri e contabili. Ovviamente da allora la matematica ha fatto passi da gigante: le interazioni con la logica erano già diventate decisive per tutti i protagonisti di questa storia complessa. Cosa accade successivamente alle critiche di Sraffa al Tractatus e nelle loro discussioni e in quelle con Piccoli, fino a un anno fatidico e cioè il 1947? Nelle Ricerche filosofiche, oltre che di logica e linguaggio, Wittgenstein si occupa anche delle comunicazioni non verbali e anche questo divenne un argomento di discussione fra lui e Sraffa durante le famose passeggiate. Di quelle discussioni nulla possiamo dire, ma c’è una relativa certezza sull’aneddoto che è stato costruito su di esse, a partire almeno da un dato che sembra sicuro perché confermato anche da Sraffa. Si tratta di una domanda che l’economista pose a Wittgenstein durante una passeggiata:

Che logica c’è nel gesto napoletano di mettersi due dita sotto il mento e sfregarle per indicare il menefreghismo?

Il filosofo non seppe rispondere e da quel momento finirono le passeggiate per responsabilità di Sraffa più che di Wittgenstein, che soffrì molto di questa perdita.13 Si può comprendere l’insofferenza di Sraffa verso i meandri del pensiero di Wittgenstein e specialmente lo sconcerto nel ritrovare la parola fondamento nei suoi discorsi e ancor più nel suo voler cercare a tutti i costi una logica in ogni cosa. Tuttavia rimango convinto che abbia ragione Gattei e che quelle estenuanti discussioni ebbero un ruolo nel senso che aiutarono Sraffa a porre un argine alle pretese della matematica e della logica, sebbene su questo il contributo di Keynes fosse probabilmente più importante. Forse Sraffa scelse di non ringraziare Wittgenstein neppure nel 1960 perché la morte del filosofo nel 1951 senza che le loro relazioni fossero riprese come prima, non poteva in alcun modo avere un senso restitutivo. Veniamo allora alla soluzione di Sraffa, per tappe. Una prima tappa mi porta ad Anna Carabelli e alle sue magistrali lezioni su Keynes. Esse sono facilmente reperibili in rete, mi limiterò dunque a due sole citazioni:

… Keynes ritiene che l’ignoranza e l’incertezza siano le due questioni più difficili da affrontare in economia. Entrambe sono legate alla limitata conoscenza umana. L’ignoranza è una mancanza di ragioni conosciute. L’incertezza di Keynes è un concetto molto più intrigante della semplice ignoranza. L’incertezza, come vedremo, è l’intrinseca incommensurabilità delle probabilità. Essa è collegata alla filosofia della misurazione di Keynes, a cui è dedicata gran parte del mio nuovo libro Keynes on Uncertainty and Tragic Happiness. Questa incommensurabilità intrinseca non è dovuta a una mancanza di potere di ragionamento o all’incapacità pratica di conoscere o misurare le probabilità. È dovuta alla natura stessa del materiale della probabilità logica di Keynes. Il materiale consiste in proposizioni e ragioni parziali, non in eventi empirici … Come vedremo, questo materiale è non omogeneo, non divisibile in parti omogenee uguali e indipendenti, non finito, non chiuso, ed è caratterizzato da interdipendenza organica (parziale o totale). Così, nel Trattato sulla Probabilità Keynes non è un atomista nel suo approccio alla probabilità. La materia della probabilità è “complessa o molteplice”, per prendere in prestito le parole che Keynes usa nel suo Trattato sulla Moneta. Non esiste un’unità comune per misurare le diverse quantità di probabilità … L’incertezza di Keynes caratterizza anche i dilemmi razionali tragici. In situazioni di dilemmi tragici, non possiamo formare giudizi ragionevoli basati sulla probabilità logica (che non sono calcolabili numericamente); prevalgono l’indecisione e la vacillazione del giudizio. Nei dilemmi morali, il conflitto è tra rivendicazioni morali contrastanti ed eterogenee; nei dilemmi razionali, il conflitto è tra ragioni parziali opposte. Il conflitto è irriducibile: non può essere riconciliato attraverso la composizione o il compromesso. In Keynes il conflitto rimane aperto, come il conflitto tra interessi individuali e aggregati nella sua macroeconomia …

La seconda:

… la visione della razionalità del Trattato sulla Probabilità di Keynes è basata sulle nozioni aristoteliche di ragionevolezza ed esattezza. La ragionevolezza differisce sia dalla razionalità forte che dall’irrazionalità, mentre l’esattezza differisce dalla precisione. Fin dall’inizio delle sue riflessioni sulla probabilità, Keynes rimane costantemente contrario a un concetto numerico e calcolabile di probabilità, tranne in alcuni casi molto limitati che sono logicamente irrilevanti per la macroeconomia. Keynes non è contrario all’uso della matematica in linea di principio, anche se preferisce la logica simbolica all’algebra e ai calcoli. È contro l’applicazione cieca della matematica alla macroeconomia e preferisce il discorso ordinario per evitare fallacie logiche e una falsa aria di precisione. Per lui, è meglio avere approssimativamente ragione che precisamente torto. Gli interessa l’esattezza, non la precisione.

Insomma, Keynes non è uno humiano ortodosso, ma non è neppure un dilettante che trasferisce nell’economica le logiche della meccanica quantistica e della probabilità come la intendono i fisici. Il brano citato, assai complesso, è decisivo in questo contesto per la distinzione fra ignoranza e incertezza e per quanto afferma sulla irriducibilità del conflitto, tema che è ben presente anche in Sraffa. Per entrambi l’economia non è una scienza esatta ma un ramo dell’etica in cui il conflitto morale assume a volte caratteristiche che appartengono al tragico. Tutto questo distanzia anni luce il Keynes reale – nonostante le sue contraddizioni di uomo – dal burattino delle politiche del dopoguerra che in realtà non sono mai esistite. Giorgio Lunghini fu fra i primi a denunciare l’inconsistenza della formula politiche keynesiane, ma dopo gli studi di Carabelli chi ne parla dovrebbe vergognarsene.14 Il presupposto delle conclusioni di Sraffa richiede preliminarmente un ulteriore passaggio e cioè un più convinto distacco da strumenti matematici che non avevano alcuna capacità di misurazione reale. Il ruolo che in questo passaggio decisivo ebbero le discussioni con Wittgenstein, Piccoli e Ramsey va ulteriormente chiarito. In sostanza, per Sraffa la realtà economica andava pensata prima per poi ricorrere in un secondo tempo alla matematica, ma senza affidare a quest’ultima un compito veritativo che non poteva avere. In questa scelta certamente Sraffa era più vicino al secondo Wittgenstein, che non a Ramsey. Da questa premessa si può meglio capire la conseguenza logica che Sraffa ne trae e che si evince da questa citazione: 

Il profitto del produttore di grano, viene determinato indipendentemente dal valore, mediante il solo confronto della quantità fisica che si trova dalla parte dei mezzi di produzione con quella che si trova dalla parte del prodotto, quantità che consistono entrambe della stessa merce; e su ciò si fonda la conclusione di Ricardo che “i profitti dell’agricoltore regolano i profitti di tutte le altre industrie.” La stessa terminologia può essere espressa nella terminologia adottata in questo lavoro dicendo che il grano è il solo “prodotto base” nel sistema economico esaminato …. È forse bene avvertire qui che solo quando, nel corso della presente ricerca, il concetto di “Sistema tipo” e la distinzione fra prodotti base e prodotti non-base avevano preso forma, la suddetta interpretazione si presentò come conseguenza naturale.15

La sostanza fisica dell’economia ha qui una preminenza che ci riporta addirittura a Quesnay e al Tableau economique che infatti viene citato da Sraffa nel capitolo finale dedicato proprio alle fonti cui si era riferito.

Infine Gattei e precisamente un passaggio della sua Postfazione che riporto per intero perché in essa ricostruisce sinteticamente l’opera dell’economista:

… La nota sulle fonti del libro del 1960 è d’altronde esplicita al riguardo: l’indicazione del rigoroso indirizzo analitico che sospende ogni funzione del valore per una determinazione in termini fisici del saggio generale del profitto di un insieme eterogeneo di merci, trova il suo precedente più illustre in alcuni scritti di Ricardo e precisamente nell’Essay on the influence of a low price of corn in the profits of stocks (1815). O almeno tale è l’interpretazione data dalla nostra introduzione ai Principi di Ricardo, perché subito dopo Sraffa, con sorprendente inversione dei rapporti, precisa che solo dopo aver dato forma alla soluzione generale di Produzione di merci a mezzo merci la suddetta interpretazione di Ricardo si presentò come conseguenza naturale. Per esplicita ammissione dell’autore la connessione fra il testo teorico del 1960 e l’introduzione del ’51 ai Works di Ricardo, è quindi rovesciata rispetto alla naturale successione cronologica: non è Ricardo che introduce Sraffa alla problematica del sovrappiù, ma è piuttosto Sraffa a ricondurlo in tal senso. Se così stanno i fatti, si ha ragione di scrivere che, come i 34 anni che separano i due lavori del 26 e del 60 non sono serviti a Sraffa per farsi neo-ricardiano, ma per completare la critica alla teoria neo classica (leggi marginalismo ndr.), così i 25 anni che separano l’incarico della edizione delle opere di Ricardo e la pubblicazione dell’Introduzione, non sono stati spesi nel tentativo … celebrativo di rivalutazione di un economista del passato, ma per fornire l’apparato indispensabile per una lettura dei Works del tutto coerente con la proposta contenuta in Produzione di merci a mezzo merci.16

Alla luce di queste tre citazioni, riprendo il discorso dalle proposizioni iniziali di Produzione di merci a mezzo merci analizzandole con uno sguardo che si colloca in parte al di fuori della loro natura economica:

Consideriamo una società primitiva che produce appena il necessario per continuare a sussistere. Le merci sono prodotte da industrie distinte e vengono scambiate l’una con l’altra al mercato che si tiene dopo il raccolto. Supponiamo da prima che siano prodotte due merci soltanto, grano e ferro. Entrambe sono usate, in parte per il sostentamento di coloro che lavorano il resto come mezzi di produzione … Supponiamo che nell’insieme,  280 quintali di grano (q) e 12 tonnellate di  ferro(t) vengano usati per produrre 400 quintali di grano; mentre … 120 quintali di grano e 8 tonnellate di ferro per produrre 20 tonnellate di ferro. Le operazioni produttive dell’annata possono riassumerci nella tabella seguente:

280 q di grano + 12 t di ferro = 400 q di grano

120 q di grano + 8 t di ferro = 20 t di ferro.

…. Nulla viene aggiunto dal processo di produzione a quanto la società possedeva nel suo insieme.

Ciò che colpisce in questa proposizione è la sua simmetria. C’è in essa qualcosa che si richiama persino all’armonia, ben presente anche nelle opere di Wittgenstein se le si legge nella loro partitura e non nei loro significati e tenendo conto del suo approdo all’estetica.

Nel capitolo secondo, Sraffa introduce in nuovo elemento. Fino a ora, il suo modello era circolare e chiuso. Cosa accade però quando s’introduce una terza merce? La sua scelta cade sui porci:

240 q di grano + 12 t di ferro + 18 porci = 450 q di grano

90 q di grano, + 6 t di ferro + 12 porci = 21 t di ferro

120 q di grano + 3 t di ferro + 30 porci = 60 porci.17

Siamo sempre in uno stato reintegrativo, ma il cambiamento è un salto qualitativo radicale. Cambiano com’è ovvio le quantità, visto che c’è qualcos’altro da produrre ma specialmente e anche supponendo che le merci che si trovano nella parte di sinistra dell’equivalenza, quella dei mezzi di produzione (cioè le quantità previste di ciascuna merce per produrre le altre merci) non entrino tutte nella produzione di ciascuna delle altre due, la ragione di scambio può essere calcolata solo in modo triangolare e diviene 10 q di grano = 1 t di ferro = 2 porci. Ancor più: introdurre una terza merce o k merci è la stessa cosa, ma ha implicazioni notevoli e cioè che una di queste merci deve funzionare per forza anche da misura del valore delle altre. Se dunque diciamo che il valore di quella merce è uguale a 1, esisteranno k-1 proporzioni-equazioni per determinare i valori delle altre. Questo procedimento che va dal semplice al complesso, non va però inteso in senso diacronico e tantomeno lineare, perché il semplice costituisce sempre il nucleo da cui si riparte e che Sraffa elaborerà meglio nei capitoli successivi. Ciò che è decisivo in questo passaggio è che semplice e complesso non stanno in un rapporto gerarchico, ma di reciproca dipendenza; in altre parole, lo stato reintegrativo costituisce sempre il punto di partenza che si rinnova ogni anno solare. L’ulteriore deduzione Sraffa la esplicita in un capitolo successivo, le cui conseguenze però sono state ignorate dagli studiosi che si sono occupati di lui, tranne che da Claudio Napoleoni. Nel capitolo in questione, Sraffa afferma in modo perentorio che se una società produce un sovrappiù o surplus, il sistema economico diventa subito contraddittorio. Il surplus è il vero arcano maggiore dell’economia. Anche nella più perfetta società comunista il surplus sarebbe comunque un’entità difficile da maneggiare, proprio per i limiti della sua calcolabilità e dunque della sua equa distribuzione.18

Divagazione

Ho trovato la migliore rappresentazione scenica di questo limite del calcolo matematico applicato all’economia, in un racconto arabo della tradizione sufi, la cui origine si perde nel tempo. Il sufismo è una corrente particolare del pensiero islamico, fondato su narrazioni brevi, a volte brevissime e sulla matematica.19 Se per noi occidentali, infatti, quest’ultima è il linguaggio della scienza moderna o anche il modo in cui la natura parlerebbe a noi umani, per il sufismo essa è un ramo della mistica. Il racconto cui mi riferisco s’intitola L’eredità. Che cos’è l’eredità se non un surplus? Lo possiamo considerare appannaggio di un solo individuo, di una famiglia o più membri della stessa famiglia: siamo dunque in una relazione che potremmo definire microeconomica. Si potrebbe, pensare, allora, che in un microcosmo, le possibilità di misurazione, calcolo e distribuzione del surplus siano più semplici, ma come vedremo si tratta di un’illusione. Del racconto esistono diverse versioni, narrate da diversi maestri del sufismo. Ne ho fatto una sintesi narrativa che naturalmente rispetta il nucleo centrale di ordine matematico. 

Un giorno un maestro sufi radunò i suoi allievi alla fine di un corso per festeggiare il lavoro compiuto. Uno di essi, però, se ne stava in disparte molto scuro in volto. Il maestro si avvicinò e gli chiese cosa avesse: “Maestro, sono triste perché nonostante il vostro insegnamento io non riesco ancora a capire chi sia un vero sufi e come si deve comportare.” Allora il maestro li radunò di nuovo tutti e disse loro che avrebbe raccontato un’ultima storia. Questa è la storia che raccontò. Una sera un maestro sufi se ne andava con il suo cammello in una zona desertica perso nei suoi pensieri, tanto perso che non s’accorse che stava arrivando la notte e che non aveva un rifugio. Preoccupato, si guardò intorno e vide in lontananza una luce che poteva essere un accampamento. Accelerò e quando fu vicino vide che era così. Tre uomini stavano discutendo in modo concitato e addirittura piangendo. Quando riconobbero in lui un maestro i tre gli fecero subito posto fra loro. “Cosa avete?” Chiese il maestro. Gli dissero di essere tre fratelli e che la causa del loro pianto era l’eredità che il padre aveva lasciato loro: “Questi 17 cammelli” disse il maggiore indicandoli “sono la causa delle nostre disgrazie perché nostro padre ha lasciato scritto che fossero divisi per metà al figlio maggiore, per un terzo al secondo e per un nono al figlio minore; ma in questo modo dobbiamo ucciderne alcuni.” Il maestro ascoltò attentamente e disse:

“In aggiunta ai vostri cammelli vi offro il mio.” I tre fratelli lo guardarono increduli, ma il maestro aveva preso un bastoncino e con esso cominciato a scrivere i numeri sulla sabbia, spiegando loro: “Così in totale sono diciotto. Il maggiore ne riceverà la metà: nove. Il figlio di mezzo ne riceverà un terzo: sei. Il minore ne riceverà un nono: due.

Mentre i fratelli si abbracciavano piangendo finalmente di gioia, il maestro si allontanò con il cammello che era rimasto come resto del calcolo.

Su questo racconto si potrebbero scrivere decine e decine di pagine, ma mi occuperò solo di quello che è strettamente necessario, anche perché la sua semplice esposizione può suggerirci da sola il motivo per cui il sufismo vedeva nella matematica una corrente della mistica piuttosto che una scienza esatta del calcolo. Il maestro usa la matematica come sistema di conto, ma fra l’entità fisica dell’eredità e cioè il produit net (il prodotto netto) costituito da 17 cammelli e lo strumento di misurazione c’era uno iato prima e c’è uno iato anche dopo. Essendo il rapporto fra i numeri scritti sulla sabbia del deserto, il vento e la notte un rapporto assai precario, i tre fratelli – dopo che il maestro si è silenziosamente allontanato – forse verso la morte visto che il deserto a notte senza un rifugio è un luogo assai inospitale – continueranno a vedere 17 cammelli e potrebbero pensare, non vedendo più il maestro, di essere stati vittima di un’allucinazione e tutto potrebbe ricominciare daccapo. Tuttavia, sarebbe accaduta la medesima cosa se il maestro fosse rimasto, perché di quel diciottesimo cammello, dopo avere fatto il calcolo, solo una cosa si poteva fare: farlo sparire.

Per concludere

C’è una parte essoterica nel percorso di Sraffa ma ce n’è una esoterica. Uno dei grandi insegnamenti del racconto sufi e anche delle proposizioni finali di Sraffa riguardanti il grano, è che la misura necessita del calcolo ma che il calcolo è fatto di resti che non sono integrabili, oppure di surplus che generano contraddizioni. In sostanza, mentre in matematica due più due fanno sicuramente quattro, nella matematica applicata ad altri campi e come mi disse una sera un simpatico ingegnere, due più due fanno quasi quattro o quattro più. Per comprendere che è proprio così basterà ricordarci di tutte le volte che abbiamo cercato di montare un mobile di una famosa casa produttrice seguendo semplicemente le istruzioni fai da te del foglio di accompagnamento e renderci conto dopo molto tentativi, che bisogna usare trapani e altri strumenti per far quadrare i conti.

L’opera di Sraffa non va vista solo come un ritorno all’economia classica – anche perché egli risale addirittura fino a Quesnay – e un rifiuto dell’aberrazione marginalista, ma come un tentativo grandioso e non importa se pienamente riuscito o meno, di fondare su basi diverse la scienza economica come strumento di riorganizzazione di una comunità, piuttosto che come semplice critica dell’economia politica capitalistica; dunque un tentativo di sottrarre l’economico al giogo capitalistico per ricondurlo nel sociale. In questo senso Sraffa a me pare si collochi nel solco di Marx, ma per andare oltre, ragionando cioè come un uomo, un pensatore e un economista che si trova già nella fase di transizione e non più solo in quella di messa punto degli strumenti di una critica dell’economia politica. Quello era stato il compito prevalente di Marx e dei primi che si posero anche il problema di coprire i vuoti o le aporie lasciate dal Moro, in primis Rosa Luxemburg. Sraffa come pensatore della transizione dentro la transizione e che rimanda anche a un concetto tornato attuale: quello di economia fondamentale, da con confondersi però con i discorsi sul fondamento fatti in precedenza. Per economia fondamentale s’intende qualcosa di molto più realistico e semplice, che troviamo per esempio in questo passaggio di Marx:

… per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini.20

Anche l’economia di Sraffa parte dalle condizioni minime di sussistenza di una comunità e primitivo vuol dire solo questo. Quella che Sraffa indica come costante che non è sottoposta ad alcun cambiamento, è tale necessità riproduttiva o reintegrativa, che non dipende tanto dal volume dei prodotti, ma dalle scelte di una comunità e dal concetto di equilibrio e persino di armonia: quando si parla oggi di economia della cura non siamo molto distanti da questi concetti. Una seconda e più importante conseguenza del ragionamento di Sraffa riguarda proprio il tempo, ma che diviene in questo passaggio una discriminante. Che ne fosse del tutto consapevole o meno, è una questione da lasciare sullo sfondo, ma la concezione del tempo che è implicita nel ragionamento di Sraffa non è affatto neutra o neutrale, ma indica una propensione nel senso della circolarità del processo economico e non quella di una sua direzione lineare. Questa scelta, che è implicita anche nel brano di Marx tratto da l’Ideologia tedesca appena citato, non è solo una critica radicale alla concezione economica marginalista che vede invece l’attività economica come un flusso continuo dalla produzione al consumo secondo una linearità del tempo e senza soluzione di continuità. Tuttavia, la soluzione di Sraffa pone problemi filosofici di non di poco conto, dal momento che tempo lineare e tempo ciclico sono da sempre oggetto d’indagine per la filosofia; ma su questo mi fermo.

Che senso ha, tuttavia, tornare su questa vicenda novecentesca oggi, un secolo dopo questi discorsi che sembrano tutti provenire da uno stato giurassico del mondo? Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui forse se lo è già chiesto. Che cosa è l’economia oggi, nel dibattito pubblico? Si discute di simulazioni avveniristiche, di bit coin e altre monete virtuali, di algoritmi informatici che vengono tarati in base a criteri stabiliti da umani ma anche dall’intelligenza artificiale, il tutto governato da sofisticati calcoli logico matematici. Se si guarda alle cose da un altro punto di vista oggi l’economia non appare neppure più come appariva a Marx uno sterminato mondo di merci; o meglio, le merci continuano a circolare ma il loro flusso sembra a volte del tutto irrilevante, a meno che non s’inceppi la logistica, vero punto nevralgico che sembra sfuggire alle tre scimmiette sindacali nostrane, per esempio. La discussione pubblica però è su altro. Per chi oggi ha a che fare con l’economia come mondo a se stante e se ha dei soldi può comprare per esempio un future sul petrolio, cioè può acquistare una cosa che non avrà mai in senso fisico – un barile di petrolio. Il future è qualcosa che non esiste ma che io posso comprare oggi, per rivenderla domani: una inesistenza al quadrato, iniziata alla fine del’ottocento in un modo che oggi è ridicolmente artigianale: vendere allo scoperto cioè prima di avere comprato ciò che si venderà. Non solo, ma questa inesistenza al quadrato non è il petrolio estratto oggi ma una previsione su quello che si estrarrà nel futuro (future), magari fra un anno e che rivenderò fra cinque anni: dunque una inesistenza al cubo, ecc. ecc. Questo meccanismo finanziario che sembra ormai un automatismo è quello che insieme ad altri disastri contemporanei come il ritorno della guerra in grande stile e le emergenze climatiche, l’agricoltura sempre più inquinata, una violenza sociale diffusa indotta da uomini di potere sempre più necrofili, ci sta portando verso una soglia di non ritorno. Se l’umanità o una parte di essa si salverà e sopravvivrà a tutto questo, può essere che nel futuro post catastrofico, tornare a contare i sacchi di grano a inizio e a fine stagione piuttosto che misurare algoritmi possa tornare utile e insieme a questo anche tornare alle opere di questi uomini geniali e forse un po’ matti, caduti nel frattempo nell’oblio.


1 In Piero Sraffa, Introduzione a Ricardo, Biblioteca Cappelli, a cura di Giorgio Gattei Bologna, 1979, pag.101.

2 Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa fra lotta politica e teoria critica, Castelevecchi, Roma 2017.

3 Piero Sraffa, Produzione di merci e a mezzo merci, premessa a una critica della teoria economica, Einaudi Torino 1960, introduzione dell’autore. Altrettanto importante è sottolineare come fin dal 1926, Sraffa avesse concluso il suo affondo critico nei confronti del marginalismo e cominciato a occuparsi delle teorie del valore. 

4 Giancarlo de Vivo, Nella bufera del 900, Castelvecchi  pp. 82-3. Tali giudizi sono paradossali e abnormi in qualche caso, smentiti da altri, ma comunque interessanti per chi voglia approfondire la questione. Alcuni misteri o presunti tali si potrebbero forse spiegare con il fatto che Sraffa godeva di un supporto famigliare che non gli venne mai meno. Le buone relazioni sociali del padre, primo rettore della Bocconi, nonché le risorse economiche, gli permettevano di condurre la sua vita senza l’assillo di trovare a tutti i costi un lavoro. Keynes fu il solo a capirlo e anche per questo gli propose un’opera monumentale come la cura degli scritti economici di Ricardo, consistente di 17 volumi. Altri giudizi mi sembrano invece del tutto fuorvianti. Negare che fra Gramsci e Sraffa esistesse un rapporto intellettuale molto intenso e non solo una grande amicizia mi sembra del tutto paradossale. Il tema esula dall’intento di questo scritto ma nel libro di de Vivo ci sono testimonianze molto forti e probanti al proposito, che si ritrovano anche nei molti libri dedicati all’argomento da altri: Vacca, Canfora, Lo Piparo e Santucci e la conversazione di Sraffa con Paolo Spriano. Infine, una recente tesi di Lucia Morra – 2023 – dell’Università di Torino, approfondisce in modo assai accurato e documentato le relazione fra Keynes, Sraffa e Ramsey; dal suo lavoro si deduce quello che mi sembrava già evidente e cioè che fra i tre è esistito eccome un intenso rapporto intellettuale, seppure segnato da convergenze, forti contrasti e talvolta bizzarrie.

5 La frase è riportata nel libro di de Vivo, nel capitolo dedicato ai rapporti fra Sraffa, Keynes e Wittgenstein.

6 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus, traduzione di Amedeo Conte, Einaudi Torino 1962.

7 Il modo in cui Wittgenstein arrivò a questa intuizione, lo spiega egli stesso nella pagina datata 15.10.1916 dei Quaderni.

8 Nell’introduzione a Produzione di merci a mezzo merci del 1960, Sraffa ringrazia Frank Ramsey, Alister Watson e A.S. Besicovitch che:   

… mi hanno aiutato in parte con la matematica. Mi corre l’obbligo però di avvertire che non sempre ho seguito i loro consigli.

Infine, a conclusione dell’introduzione Sraffa ringrazia Raffaele Mattioli:

 che instancabilmente ha lavorato con me per preparare questa edizione italiana.

Se stiamo alla lettera del testo, Sraffa riconosce un ruolo a tutti coloro che lo hanno aiutato, ma c’è in questa sequenza  qualche stranezza e una vistosa assenza: proprio Wittgenstein. Tale circostanza sembrerebbe smentire l’ipotesi di Gattei di un’influenza del filosofo sugli scritti economici. Assai curioso, è che Sraffa citi i tre di cui sopra solo per l’aiuto matematico che ne ebbe, senza ricordare che tutti erano anche economisti e che Ramsey era l’autore di un’opera assai importante e che Sraffa di certo non poteva ignorare, sebbene sia stata pubblicata dopo la sua morte. Impensabile che non ne avessero discusso nelle conversazioni a tre o a due. Vuol dire che non condivideva le sue tesi, ma che preferiva evitare l’argomento e una possibile polemica? Se pensiamo a Ramsey, più che non per gli altri due, la circostanza non è affatto neutrale perché egli aveva formulato una nuova ipotesi di conciliazione possibile fra il Primo e Il Terzo libro del Capitale, un tema fortemente e polemicamente dibattuto fra i marxisti. Perché Sraffa evita di parlarne? Se seguiamo tutto il suo lavoro, ci rendiamo conto che fin da allora, probabilmente, egli era convinto che si dovesse seguire una strada diversa da quella intrapresa da Ramsey. Vediamo di raccapezzarci un po’. La pubblicazione del Terzo libro de Il Capitale, nel 1894, aveva posto la teoria economica marxista di fronte ad alcuni problemi di incongruenza fra il Primo Libro e il Terzo, su cui naturalmente si era buttata la critica marginalista.  Forse una delle ragioni della reticenza e di certi silenzi di Sraffa sta in una duplice volontà: non criticare esplicitamente certe scelte dell’Unione Sovietica in campo economico per non recare ulteriore danno a Gramsci, ma neppure trascurare il fatto che la pubblicazione del Terzo Libro del Capitale aveva posto problemi che attendevano una soluzione che egli cercava come gli altri, ma per altre strade e cioè risalendo proprio a Ricardo. Ramsey, invece, cercava la soluzione lungo la via indicata da Marx e cioè che occorreva trasformare le equazioni del valore in equazioni dei prezzi: soluzione che Sraffa non condivideva, ma verso la quale voleva mantenere un atteggiamento di rispetto, anche perché la morte così precoce e repentina di Ramsey lasciava ampio spazio a possibilità di revisione. Può essere che nelle conversazioni a due e a tre fossero emersi dubbi e ripensamenti. Forse ridurre il loro aiuto e in particolare quello di Ramsey alle sole questioni matematiche ma con la precisazione che non seguì tutti i loro consigli senza dirci però altro nel merito, voleva dire schivare la polemica. La cancellazione di molte fonti novecentesche da parte di Sraffa era dovuta alla necessità di occuparsi del problema senza entrare troppo nel merito di una diatriba fra economisti marxisti, che lo avrebbe esposto troppo e i cui termini, una volta compresa la soluzione individuata da Sraffa nel libro del 1960, sono a mio avviso più chiari, perché nel 1960 la sua sicurezza rispetto a una diversa soluzione del problema era ormai consolidata. Perché però la cancellazione riguarda anche Wittgenstein? La questione è assai complessa e verrà affrontata nelle conclusioni.

9 La questione dei rapporto fra Keynes e Sraffa non può essere del tutto elusa anche perché le loro relazioni furono improntate da grande stima reciproca ma anche animate da forti contrasti e una certa dose di emotività da parte di entrambi – stupefacente in Sraffa, la cui riservatezza era da tutti giudicata proverbiale. Keynes temeva le conversazioni con Sraffa e sono sufficienti alcuni  giudizi per testimoniarlo. Parlando alla moglie Lydia Lopuchova, di un incontro avuto con lui nel 1933 in merito alla Teoria generale, Keynes scrive:

 Piero naturalmente ha tirato fuori estenuanti difficoltà, ma per fortuna niente di grave

E dopo un altro incontro il 18 giugno del 1934:

Anche oggi ce l’ho fatta, ma di stretta misura …  riferendosi alle sei ore di discussione con Sraffa.

La rabbia con cui Sraffa, in una conversazione con Maurice Dobb definisce Keynes addirittura un reazionario la dice lunga sull’ambivalenza dei suoi sentimenti, anche perché tale giudizio è subito contraddetto dal doloroso sgomento di cui alla sua morte Sraffa si fa interprete. Come si spiega tutto ciò? La schizofrenia dei giudizi non è solo di Sraffa e non appare solo in chi si occupa di lui ma convive anche in Keynes. L’aristocratico acutissimo e sprezzante che aveva abbandonato la conferenza di Versailles sbattendo la porta e fulminato tutti qualche anno dopo con un giudizio lapidario e senza appello – Hitler è nato a Versailles – conviveva con il piccolo borghese inglese che giocava in borsa e lisciava il mondo imprenditoriale. Tutti i giudizi riportati qui sono disseminati nel libro citato di de Vivo, in particolare nel capitolo intitolato Il rapporto intellettuale fra Sraffa e Gramsci. Il materialismo storico. Per approfondire invece il ruolo che Keynes ebbe durante la conferenza di Versailles è importante il libro Lord Keynes a Versailles. Una mia riflessione su di esso si trova sulla rivista online Overleft.

10 Tale giudizio perentorio fu riferito da Amartya Sen, che tuttavia non dice per quale motivo Sraffa lo ritenesse sbagliato.

11La musica ha accompagnato tutta la vita di Wittgenstein e pur esulando dall’argomento centrale di questo scritto vale la pena di sottolinearlo almeno per un aspetto, notato anche da molti critici e cioè che le proposizioni del Tractatus si potrebbero leggere come partiture musicali

12 Figlio del deputato socialista Domenico e nipote, per parte di madre, dello statista Pasquale Stanislao Mancini si laureò in Lettere a Padova e proseguì gli studi a Firenze, dove, entrato in contatto con Prezzolini. Collaborò Giuseppe alle riviste “Leonardo” e “La Voce”. Trasferitosi nel 1912 in Inghilterra, divenne l’anno successivo professore di italiano all’Università di Cambridge, dove intrattenne relazioni di studio e amicizia con i colleghi Piero Sraffa e Ludwig Wittgenstein[2]. Fu traduttore e commentatore di Oscar Wilde, Percy Bysshe Shelley, William Shakespeare, John Keats, per editori quali Sansoni e Vallecchi. Per la collana degli “Scrittori stranieri” di Laterza tradusse nel 1914 i Drammi elisabettiani. Interventista democratico, partecipò alla prima guerra mondiale, dopo la quale si oppose al fascismo, entrando in relazione con Giovanni e Giorgio Amendola, con i Fratelli Rosselli e con Benedetto Croce, della cui filosofia fu originale divulgatore in Inghilterra e negli Stati Uniti. Fu autore di Grammatica ed estetica, tratto da «La scuola» (circa il volume di Trabalza ‘Storia della grammatica italiana’) (30 gennaio 1909). Mi sembra che Piccoli appartenga a quella schiera di intellettuali italiani – molto spesso meridionali – che hanno la caratteristica di essere al tempo stesso defilati e centrali, specialmente nel creare relazioni. Pensando a lui altri nomi si affacciano: Alberto Savinio, Mario Praz, Sibilla Aleramo, Augusto Monti , Lucio Piccolo, Michelangelo Notarianni. Sono  personalità che hanno avuto un ruolo importante nella formazione di altri, oltre che essere importanti per le opere che hanno scritto.  

13 Questo episodio è stato raccontato da molti, ne esistono diverse versioni e persino sulla datazione ci sono delle discordanze. La connessione da me stabilita fra la domanda e la fine delle passeggiate nel 1947, è smentita sia da altre versioni che a loro volta sono piene di rimandi ad altro e altrettante contraddizioni. Morra nella sua tesi, per esempio, retrodata  l’aneddoto a un viaggio in treno del ’33, altri la collocano in altri momenti e Sraffa stesso, cui fu chiesto qualcosa al proposito, rispose di non ricordare un momento specifico ma che l’uso delle due dita sotto il mento per discutere di comunicazione non verbale era stato frequente. Il tramite sembra essere proprio Raffaello Piccoli, che in quanto napoletano era avvezzo a quel gesto e ne conosceva il senso

14 Sulla rivista Overleft, ho pubblicato un saggio dal titolo La Sfinge marxiana, dedicata proprio a Piero Sraffa. Insieme a Paolo Di Marco ho tradotto e commentato le Lezioni di Cambridge. Questo studio è diventato un libro scritto a quattro mani dal titolo La dissoluzione dell’economia politica. Disponibile su Amazon.

15 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci, ultimo capitolo pag. 121.

16 Giorgio Gattei, Postfazione a  Piero Sraffa, Introduzione a Ricardo, Biblioteca Cappelli, a cura di Giorgio Gattei Bologna, 1979.

17 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci . pag. 4.

18 Piero Sraffa Op.cit.pag.7. In un certo senso, nell’esperimento mentale che Sraffa propone, il surplus è un elemento di disturbo che altera il funzionamento ‘normale’ di una comunità. Tuttavia, il ragionamento non va inteso superficialmente come un semplice esperimento mentale di tipo ‘pauperista’, anche se qualche seguace della decrescita potrebbe intenderlo in questo modo. Il pensiero di Sraffa è assai diverso ed è basato su un concetto di simmetria, che è certamente di tipo economico ma anche estetico. La comunità ipotizzata da Sraffa può benissimo decidere di aumentare i consumi e migliorare il proprio stato reintegrativo o di sussistenza; tanto è vero che nel modello a tre merci viene introdotto il consumo di carne (i porci) che all’inizio non esisteva. Il problema è diverso e cioè che il modello reintegrativo può essere migliorato ma sempre rispettando la simmetria fra mezzi di produzione e prodotto; al massimo possiamo prevedere sensatamente una certa quantità di scorte alimentari. Il surplus, invece è un’altra cosa, perché rompe la simmetria fra ciò che sta dalla parte sinistra delle equazioni e ciò che sta dalla parte destra. Per quanto riguarda la teoria economica applicata all’esperienza dei paesi socialisti sono importanti gli studi di Kalecki.

19 I matematici sorrideranno di certo a leggere queste note, facendo notare che nel caso del racconto non si parla neppure di matematica ma solo di aritmetica: pazienza.

20 Karl Marx L’ideologia tedesca, Opere complete on line. Il sito migliore per accedere alle opere è l’Indice archivio internet Marx-Engels. Aprendo il file Ideologia tedesca, al secondo capitolo dal titolo L’ideologia in generale e in particolare l’ideologia tedesca la citazione si trova nel quinto paragrafo.  Forse è bene precisare che Marx ed Engels non scrissero mai un libro dal titolo Ideologia tedesca. Questo titolo esiste solo nelle edizioni italiane e si tratta di una collezione di scritti da opere diverse.

LE TESI SULLA STORIA DI WALTER BENJAMIN

Una parte di questa riflessione è stata già pubblicata sulla rivista online Overleft (www.overleft.it), con il titolo La speranza possibile. Alla fine ho deciso di riproporlo qui nella sua forma più estesa e con alcune modifiche al fine di accorciare quelle parti che mi sono sembrate più datate rispetto al nostro presente e invece sviluppandone altre. Data la lunghezza del testo, lo pubblico in due puntate: la prima è la pars destruens della riflessione di Benjamin e si conclude con la celeberrima nona Tesi, quella in cui compare l’Angelo della storia e ha come riferimento un quadro di Klee.

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Premessa

I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo, dopo due anni di pandemia che stanno già cadendo in un eccessivo oblio, sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere quest’opera, che si può considerare il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito di tale testo, nelle diverse riletture che ne ho fatto, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita.

Introduzione

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, contraddittoria e oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920.

Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso che va ben oltre lo scritto del ‘20. Bisogna tuttavia considerare che egli si trovava in una condizione di disperazione personale e di isolamento in quel momento. Penso che se avesse avuto il tempo di rivederle, alcune oscurità avrebbe cercato di chiarirle e del resto che si tratti di un lavoro composto in uno stato febbrile lo dimostra il continuo cambiamento nell’ordine delle tesi e le due non numerate ma indicate come Tesi A e Tesi B, aggiunte per ultime. Per di più, le versioni diverse del testo e delle traduzioni rendono ancor più complesso avvicinarsi a quest’opera. Per tale ragione seguirò un mio ordine nel commentarle e non quello delle due traduzioni italiane cui faccio riferimento, peraltro diverse anch’esse nella numerazione. Per alcuni passaggi chiave farò ricorso anche all’originale in lingua tedesca. Per non appesantire la lettura con continui rimandi alle note, indicherò nel testo a quale traduzione mi riferisco, caso per caso.1   

Al grado zero della speranza

Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana ndr).

Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.   

Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, alcuni dei temi intorno ai quali si muove la riflessione, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentrop-Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Egli lo ricorderà quasi in ognuna delle Tesi che il contesto è quello. Nazismo e Fascismo trionfano ovunque, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era entrata in guerra; dall’altro c’è lo smarrimento del fronte antifascista. Portandoci in una nicchia conventuale, Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. Niente però è più salvo della prassi precedente quel momento, compresi certi sodalizi che sono stati anche i suoi. In quei politici e in quei partiti nulla può essere riconosciuto come speranza e occorre avere il coraggio di voltare loro le spalle: è uno scenario che conosciamo benissimo anche noi oggi.

La regola della meditazione conventuale è un togliersi dalla lettera della storia e il farlo implica accettare il prezzo che comporta il rifiuto di colludere con il modus operandi di poco prima; tale prezzo, tuttavia, non è tanto la brutalità degli eventi in sé e neppure la propria solitudine soltanto, ma prima di tutto un affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente. Come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente, la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. Qual è tuttavia la concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere? Lo storicismo; ma si tratta  di un termine convenzionale e tecnico che può essere frainteso e che di per sé non risponde alla necessità impellente di gettare l’allarme in un momento tragico della storia europea. Nella tesi ottava troviamo una sua maggiore concretizzazione:

La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […]. Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)

Lo storicismo assume qui un volto, non ancora del tutto definito, ma alcuni lineamenti iniziano a palesarsi. Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2023?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.

Tesi settima.  Traduzione da L’ospite ingrato.

Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Prima di commentarla tuttavia, è necessario una messa in guardia sull’uso del termine materialismo storico che appare in essa e in quella precedente, come antidoto allo storicismo e il cui compito – assai impegnativo – sarebbe quello di spazzolare la storia contropelo. Opportuno è leggere subito la prima tesi che si trova in nota, per comprendere che forse Benjamin non sta dicendo ciò che superficialmente appare2.

Stalin e Molotov

Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? Cosa significa? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita.3 Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Per farlo bisogna arrivare in fondo a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. E invece è proprio questo che il filosofo suggerisce di fare, in un modo che può apparire paradossale, ma che lo diventa di meno se leggiamo la dodicesima tesi, liberandola da alcuni aspetti datati.

   Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […]. Questa coscienza che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare del tutto il nome di un Blanqui […]. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future […]. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrifico. Entrambi, infatti, si alimentano dell’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.    

La Lega di Spartaco è la speranza precedente che Benjamin non rinnega ma che appartiene al passato, come peraltro la socialdemocrazia cui egli non ha mai riservato alcun credito. L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni, disseminate in modo non sempre consequenziale, ma che alla fine permettono una ricostruzione del suo pensiero. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa in prima istanza identificarsi con tutti i vincitori, facendo propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.4 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti cioè “le tesi”.5 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.

In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.6 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi potremmo dire il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi:

 […] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […].

Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout-court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo. 

Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica, le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci si ponessero al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Dietzgen: “è là gratuitamente”.   

L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. La conclusione ci dice però qualcosa di più e cioè che la natura non è gratis, un concetto con il quale ci troviamo decenni dopo a fare i conti in modo drammatico.7 Che dire però del paradossale elogio di Fourier? Prima di tutto che non si tratta di un paradosso, ma se mai di un uso del medesimo per arrivare a indicare altro. Ciò che importa ed è decisivo nella citazione di Fourier, aldilà delle bizzarrie che lo hanno reso famoso, è l’affermazione finale di Benjamin e cioè che le sue ipotesi, per quanto strampalate, esprimono una filosofia di fondo che è sana e cioè che rispetto alla natura il lavoro utile è quello che fa prevalentemente da levatrice a ciò che si trova già nel suo grembo. La sintesi che possiamo trarre da questo accostamento analogico è che la più strampalata ma sana fantasticheria è di gran lunga preferibile a qualsiasi progressismo impregnato di positivismo e di spregiudicatezza tattica senza etica alcuna. Alla luce di tutto ciò e proprio perché questa critica covava da tempo, si può ora commentare la prima Tesi, la sola che in tutte le versioni si trova sempre al primo posto.

Si dice che esistesse un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […] In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “Materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.

È per tutti i commentari la tesi più oscura ed enigmatica. Il racconto ce la rende più ostica, ma comincia a esserla meno se ci sintonizziamo sullo stile della sua scrittura. Benjamin usa l’apologo e persino la parabola e l’accostamento analogico, lo ha fatto in tutte le tesi; ma lascia sempre un vuoto nel mezzo, in questa tesi particolarmente vistoso. Non mi soffermerò in questo momento sul retroterra ebraico di questo tipo di scrittura. Fra la fine del racconto-aneddoto e la conclusione della tesi c’è uno iato, sebbene introdotto da una frase – Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia – dalla quale non possiamo tuttavia immaginare ciò che seguirà e che a una prima lettura è sorprendente. Cosa c’entra il manichino vestito da turco con il “materialismo storico”? Nominandolo espressamente Benjamin ci avverte che non sta usando una metafora – nella sua scrittura non vi è quasi mai posto per la metafora – bensì una complessa catena di similitudini. Come il nano gobbo seduto nel manichino costituisce il trucco meccanico per ingannare il pubblico, così la teologia, rimpicciolita rispetto ai secoli precedenti, si è insinuata nel materialismo storico, che Benjamin mette fra virgolette, facendone una macchinetta per avere sempre ragione, qualunque siano le scelte compiute, dal momento che sarebbe in linea con il solco deterministico della storia. Questa tesi, nei commentari, viene considerata come la sua radicale critica allo stalinismo e allo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Non vi è dubbio su questo, tuttavia cercherò di leggere le sue parole, oltre quel contesto perché la parte veramente interessante della tesi, è il nesso che egli stabilisce fra il trucco del manichino e la teologia che secondo Benjamin ha inquinato l’illuminazione materialista e profana di cui aveva scritto nel saggio sul Surrealismo del 1929.8 Anche in questa critica c’è da considerare un doppio aspetto: nell’immediato è una critica al Diamat staliniano come forma perniciosa di mistica materialista e spregiudicatezza senza alcuna etica, ma tale giudizio si estende come vedremo fino a comprendervi il falso progressismo nei suoi diversi aspetti.

La tesi nona, commentata e celeberrima quanto mai, suggella e chiude quella che considero la pars destruens del ragionamento di Benjamin e ci permette di andare oltre.   

Tesi nona.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove, davanti a noi, appare una catena di avvenimento, egli vede un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie  e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera.

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903


1 Le traduzioni italiane di cui mi sono servito sono: Angelus novus, tascabili Einaudi a cura di Renato Solmi e un saggio di Fabrizio Desideri: la mia edizione è quella del 1995. La seconda è Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N.3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013: questa edizione riporta anche le tesi finali che mancano nel testo einaudiano. Il testo in originale tedesco è quello dei Manuskript Hanna Arendt, che si trova anche in rete ed è corredato dalle fotocopie del manoscritto di Benjamin con le sue correzioni. Il titolo completo è: Walter Benjamin über den Begrieff der Geschichte. In questa stesura, mancano alcune tesi che verranno aggiunte più tardi e che si trovano invece nelle due traduzioni in italiano. Soltanto la prima tesi è numerata sempre così anche negli originali.

2 Questa dell’uso continuo dell’espressione materialismo storico nelle tesi è una contraddizione o almeno un’aporia non chiarita dal filosofo. Riservandomi di tornare successivamente su questo problema niente affatto minore, mi limito a porre in evidenza come l’espressione abbia almeno due significati diversi, ma si riferisca anche a due oggetti filosofici in diversi. Ecco di seguito la prima tesi nella traduzione da “L’ospite ingrato”: È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […]. In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere. Questa tesi verrà meglio commentata successivamente nel testo.

3 Naturalmente il mio giudizio, così estremo, non è un giudizio da storico. Tuttavia, proprio per rimanere in sintonia con Benjamin e per non sottoscrivere il romanissimo Carthago delenda est, ricordare le alternative che pure furono prese in considerazione, non significa fare la storia con i se, ma rifiutare appunto l’immedesimazione deterministica con il vincitore. Il determinismo assoluto non riguarda il futuro come non riguarda il passato che era pur sempre il futuro di una volta.

4 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, e l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.  

5 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.  Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa.  La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del ’36-’37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati, e specialmente in alcune note al testo, è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.  

6 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.

7 Citerò due passaggi da Dialettica della natura di Engels per la loro assonanza con le affermazioni di Benjamin e anche perché il concetto di lavoro in esse non ha nulla a che vedere con l’espressione lavoro salariato: […]  noi non la dominiamo (la natura ndr) […]  come chi è estraneo ad essa, ma le apparteniamo come carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura, consiste nella capacità, che si eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato […]. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini sentiranno, anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile sarà il concetto assurdo e innaturale, di una contrapposizione fra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il collasso del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare gli effetti naturali più remoti della nostra attività  rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda gli effetti sociali di quelle attività. […] Che cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? […]

L’interrogativo di Engels è retorico. La scrofola è simmetricamente il risultato di quel progresso nell’uso intensivo della coltivazione di patate che genera il regresso della società, come ha scritto Benjamin nel passaggio citato. Il secondo passaggio di Engels è tratto dal nono capitolo:

[…] Perché la mano non è solo l’organo del lavoro, è anche il prodotto del lavoro […] e con l’adattamento alle nuove operazioni, grazie all’eredità rappresentata dallo speciale sviluppo dei muscoli, dei legamenti e, sul lungo periodo, anche delle ossa. Grazie, inoltre, all’impiego ogni volta rinnovato di questi strumenti ereditati, ma soggetti a nuovi miglioramenti con operazioni sempre più complicate, la mano umana ha raggiunto quell’alto grado di perfezione che ha reso possibili la pittura di Raffaello, le statue di Thorwaldsen, la musica di Paganini.

8 La citazione occupa una parte importante nella strategia discorsiva di Benjamin, in tutte le sue opere, ma va pure chiarito in modo preliminare che il suo atteggiamento è lontano dal citazionismo postmoderno. Il filosofo anticipa molti temi tipici del postmodernismo, ma non cede alla lettera del medesimo. Le citazioni di Benjamin sono sempre degli exempla emblematici che permettono all’interlocutore di aderire o dissentire, ma prima di tutto di comprendere e non in astratto, quanto egli afferma, ma di collocarlo in una dimensione di concretezza e verificabilità. Siamo lontani anni luce dal procedimento post moderno la cui filosofia – non sempre espressa – è che la cultura sia solo citazione, cioè auto contemplazione narcisistica del passato e sfoggio di erudizione basato sul wit, parola che si può interpretare in molti diversi modi ma sempre gravitanti intorno alla brillantezza salottiera e discorsiva. Benjamin non ha mai compiuto questo passo, anche se sa vedere molto lontano: egli è un anticipatore del postmoderno, nel senso che ha visto prima di altri molte sue caratteristiche. La forza degli exempla di Benjamin sta nell’essere la concretizzazione di quella immagine che balena per un solo attimo nella storia e che deve essere afferrata e salvata, perché rompe il continuum dello storicismo. La citazione è dunque emblematica se evoca un balenìo del passato da riscattare nell’adesso: Resuscitare Cartagine per esempio, o cogliere nella vicenda storica dello schiavo Spartaco ciò che chiede oggi il proprio riscatto.

WALLACE STEVENS: LA POESIA SFIDA IL PENSIERO

Poets in the city: Wallace Stevens

Le Notes toward a supreme fiction (Note verso una finzione suprema) sono una meditazione in versi scritta nel 1942. L’opera è suddivisa in tre parti, intitolate: It must be abstract (Deve essere astratta), It must change (Deve cambiare) e It must give pleasure (Deve dare piacere.) Queste tre sezioni sono a loro volta suddivise in dieci stanze di 21 versi ciascuna suddivisa in sette terzine. Non sono esperto di numerologia, ma diversi critici hanno sottolineato la non casualità di tali scelte. Alle tre sezioni indicate avrebbe dovuto seguirne una quarta dal titolo It must be human (Deve essere umana), che il poeta non scrisse.

La metrica è solenne, il tono è alto: sono tutti blank verse, a volte maggiorati di un piede. È la misura più classica della poesia inglese, paragonabile all’endecasillabo, nel quale spesso Stevens sconfina, peraltro. L’uso della terzina, poi, con il suo andamento concatenato che ricorda anche il passo lento e costante di un viaggiatore che s’incammina verso una meta, sono una spia ulteriore dell’intenzione del poeta. Il richiamo dantesco è presente nel testo, ma non dobbiamo intenderlo in senso metafisico, né come citazionismo. Le Note, come ben afferma Nadia Fusini nel suo studio dedicato a quest’opera, sono una vera e propria quête, cioè un viaggio iniziatico, la cui meta però non sono le altezze del paradiso, ma quello che Stevens definirà come Canto della terra.28 L’anno in cui il poema è stato composto è per gli Usa la fine dell’illusione di star fuori dal conflitto mondiale: dopo Pearl Harbour i preparativi sono divenuti frenetici e le ultime resistenze della popolazione sono cadute. Non vi è una traccia diretta degli eventi storici nel poema – Stevens lo farà in un altro testo – ma se si torna al discorso dei due leoni, della necessità cioè che il leone del liuto non sia una pura fantasticheria ma un severo confronto con la pressione esercitata dal leone del reale, forse non è causale che la meditazione probabilmente più alta dell’intero percorso compiuto dal poeta, si collochi proprio in quel momento storico. L’inizio e cioè i primi sei versi della prima sezione indicano il tema del poema:

/Begin, ephebe, by perceiving the idea/Of this invention, this invented world,/The inconceivable idea of the sun.//You must become an ignorant man again/And see the sun again with ignorant eye/And see it clearly in the idea of it.//

(/Comincia, o efebo, col percepir l’idea/Di questa invenzione, questo mondo inventato,/L’inconcepibile idea del sole.//Devi tornare l’uomo ingenuo che eri/E vedere il sole con occhio ingenuo/ E vederlo chiaramente nell’idea.//)

Tale invocazione, non si rivolge alla musa o a figure trascendentali, ma a un efebo, immagine di una verginità dello spirito, tendenzialmente ermafrodito. Continuando sempre con la prima sezione e sempre rivolto all’efebo Stevens scrive:

/Never suppose an inventing mind as source/Of this idea not for that mind compose/ A voluminous master folded in his fire.//How clean the sun when seen in its idea/Washed in the remotest cleaness of a heaven/That has expelled us and our images …/

(/Non supporre mai una mente che crea all’origine/Dell’idea non creare per quella mente un ingombrante/Padrone avvolto in lingue di fuoco.//Com’è terso il sole se visto nell’idea/Purificato nella remota chiarità di un cielo/Liberatosi delle nostre immagini e di noi …//) 29

È solo tornando all’idea originaria del sole, che noi possiamo vederlo nella sua essenza, senza caricarlo di simboli o di idee che l’umano ha elaborato intorno alla stella: torna in questi versi una eco dell’ottava sezione di Sunday Morning.

Il tema è la meditazione sulla poesia, i suoi strumenti, il suo valore conoscitivo e il suo ruolo nella contemporaneità. La polarità immaginazione-realtà è qui in seconda linea perché la necessità primaria è porsi di fronte all’oggetto sgombri da ogni pregiudizio o idea precedente: questo il senso dell’esortazione a tornare ingenuo, rivolta all’efebo.30 È ancora una volta il tema dell’ultima sezione di Mattino domenicale, che da meditazione finale di quel percorso, diventa nelle Note punto di partenza. In Stevens, come dice ancora Nadia Fusini:

Il senso si costruisce così, per insistenza, ripetizione, ritorno31

Tuttavia un altro elemento va considerato oltre a questi: si tratta delle variazioni che il poeta introduce ogni volta che ritorna ai luoghi topici della sua poesia, variazioni che con il tempo non solo chiariscono sempre di più, con apporti continui di senso, la ricchezza della sua trama poetica, ma che diventano delle vere e proprie metamorfosi in atto. È quest’ultima caratteristica che diviene essenziale anche per chi legge: abbiamo sì la sensazione di tornare sempre laddove siamo già stati, ma il procedimento decreativo di Stevens non è una tela di Penelope, è una costruzione che si modifica ogni volta senza mai buttare via tutto quello che si era raggiunto in precedenza, ma conservandone invece una parte per trasformarla. Si tratta piuttosto di liberarsi di volta in volta delle scorie, salvando però il nucleo centrale dell’intuizione. Tale procedimento non porta all’accumulo, ma alla necessità di cambiamento che viene indicata nella seconda sezione delle Note (It must change). Torniamo però alla prima sezione intitolata Deve essere astratta. L’idea di astrazione, in Stevens, va intesa diversamente da come normalmente si pensa a questa parola, specialmente in relazione alla filosofia. Il poeta esorta l’efebo a liberarsi, nel guardare il sole, di tutte quelle ombre della lingua e del pensiero che impediscono alla visione di afferrarne la prima idea, l’idea originaria del sole. Piuttosto che di astrazione, siamo qui in presenza di un procedimento di spoliazione o rarefazione progressiva, di un invito a sospendere tutte le affermazioni fatte intorno alle cose reali, così da poterle vedere nella loro nuda essenza. È solo quando avremo tolto questi orpelli del pensiero, le scorie di cui si è detto più sopra, che – secondo Stevens – la realtà si risveglierà, al di là di ogni metaforica evasione; le cose, allora, cominceranno a parlare la loro lingua, a risuonare della loro musica: è il canto della terra.

Lo stile stevensiano, fatto di ripetizioni e accostamenti paratattici, ci permette d’introdurre un discorso che riguarda la tradizione. Vi sono concetti e parole che hanno una storia e anche un peso, se noi accettiamo di considerare il punto di vista di una tradizione che si estende a tutte le civiltà poetiche. Per rimanere in occidente, un lessico apparentemente così comune come quello usato da Stevens (il sole, il giorno e la notte), può essere accolto da uno sguardo ingenuo solo se si libera delle troppe costruzioni di senso. Le parole chiave di questa prima sezione girano intorno al tema dell’idea prima, dell’origine, su cui grava il peso della storia, ma anche quello della nostra semplice presenza di umani in un mondo che non è solo nostro. A volte il pensiero poetante di Stevens sfugge nella meditazione pura, non sempre facile da seguire, creando immagini concettuali  sorprendenti e a volte oscure, che sfociano però sempre in soluzioni che creano nuove immagini di grande limpidezza espressiva. Così nella quarta stanza Adamo è già padre di Cartesio, nel senso che la razionalizzazione matematico geometrica del mondo inizia già nell’Eden e quanto agli umani:

We are the mimics. Clouds are padagogues//… (/Noi siamo i mimi. Le nuvole i nostri maestri./) 33

L’umano turba l’idea prima e svolge un ruolo ambivalente che tormenterà il poeta per tutta la vita. Nella chiusa della quinta stanza, seppure con un tono ironico, la presenza dei sapiens sapiens rompe l’equilibrio naturale:

/These are the heroic children whom times breeds//Against the first idea – to lash the lion,/Caparison elephants, teach bears to juggle//…

(/Questi sono i giovani eroi che l’epoca genera//Contro la prima idea – per frustare il leone/Bardare l’elefante, domesticare l’orso nel circo.//) 34

Gli umani come progetto sbagliato della natura? Ci sono scienziati che lo sostengono, ma vennero tutti dopo.

Tuttavia, nella settima stanza, il destino degli umani si muta in qualcosa di diverso, cioè in un accesso possibile che sa ancora aprirsi a quell’andare fortuito verso le cose, che metta fra parentesi la ragione; allora:

/The truth depends on a walk around a lake … (/La verità dipende da una passeggiata/intorno al lago…)

e  nella chiusa della medesima:

/Perhaps there are moments of awakening./Extreme, fortuitous, personal in which//We more than awaken, sit on the edge of sleep,/As on an elevation, and behold/The academies like structures in a mist.//

(/Forse ci sono momenti di risveglio,/Estremi, fortuiti, personali, quando/…/Più che svegli, sediamo sull’orlo del sonno,/ Come su un’altura, e guardiamo/le accademie come fossero strutture di nebbia./) 35

Nell’ultima stanza Stevens si rivolge di nuovo all’efebo e torna all’umano, ma un umano che ha perso i suoi orpelli e che ritroveremo nelle opere della maturità: non più l’eroe che combatte (e siamo nel 1942!), ma l’uomo comune. Riporto l’intera sezione nella traduzione di Nadia Fusini:

/The major abstraction is the idea of man/And major man is the exponent, abler/In the abstract than in his singular,//More fecund as principle than particle,/Happy fecundity, flor-abundant force,/In being o more than an exception, part.//Though an heroic part, of a commonal,/The major abstraction is the commonal, /The inanimate, difficult visage. Who is it?//What rabbi, grown furious with human wish,/What chieftain, walking by himself, crying/Most miserable, most victorious,//Does not see the separate, figures one by  one,/And yet see the only one, in his old coat, /His slouching pantaloons, beyond the towns,//Looking for what was, where it used to be?/Cloudless the morning. It is he. The man/In his old coat, those sagging pantaloons,/it is of him, ephebe, to make, to confect,/the final elegance, non to console/Nor sanctify, but plainly to propound. //

(/L’astrazione maggiore è l’idea di uomo/E l’uomo maggiore il suo esponente, più capace/Nell’astratto che nel singolo caso,//Più fecondo come principio che come particella,/Felice abbondanza forza flor-abundante,/In quanto parte più che eccezione,//parte anche se eroica di ciò che è comune./L’astrazione più grande è il volto/Difficile, anonimo, dell’uomo comune. Chi è?//Quale rabbino, invasato di umano fervore/Quale capitano che cammini solo, piangente,/Il più miserabile, o il più vittorioso,//Non vede queste figure staccate, una per una?/E tuttavia una sola, un vecchio cappotto,/Un paio di pantaloni sgualciti, di là dal villaggio,//In cerca di ciò ch’è stato, com’era una volta.//Senza nubi il mattino. È lui l’uomo ravvolto/Nel vecchio cappotto, i pantaloni cascanti,//Di lui, efebo, dovrai fabbricare, ad arte/Confezionare l’eleganza finale, non per consolare/Né consacrare, ma solo presentare./)36

La seconda sezione s’intitola Deve cambiare. L’idea di metamorfosi è una presenza costante nell’opera di Stevens, ma in questo caso viene nominata espressamente. Dalla pittura l’accento si sposta sulla scultura, un’arte del tutto particolare, nel senso che la durezza dei suoi materiali evoca la pesantezza della staticità e quindi il contrario del cambiamento. Nella terza stanza la scultura è quella che immortala il generale Du Puy e sarà un’altra statua – quella di Bartolomeo Colleoni scolpita da Verrocchio – a occupare larga parte di uno dei suoi saggi più importanti.37

 /The great statue of general Du Puy/Rested immobile, though neighboring catafalques/Bore off the residents of its noble Place.//The rights, uplifted foreleg of the horse/Suggested that, at the final funeral,/The music halted and the horse stood still.//On Sundays, lawyers in their promenades/Approached this strongly-heightened effigy/To study the past, and doctors, having bathed//Themselves with care, sought out the nerveless frame/Of a suspension, a permanence, so rigid,/That it made their General a bit absurd,//Changed its true flesh to an inhuman bronze./There never had been, never could be, , such /A man. The lawyers disbelieved, the doctors,//Said that as keen, illustrious ornament,/As a setting for geraniums, the General,/The very Place Du Puys, in fact, belonged//Among our more vestigial states of mind./Nothing had happened because nothing had changed./Yet the General was rubbish in the  end.

(/La grande statua del generale Du Puy rimase /Immobile, mentre i vicini catafalchi inghiottivano/I residenti della nobile piazza.//La zampa destra del cavallo alzata/ Suggeriva che all’atto conclusivo del funerale/La musica/s’era arrestata e il cavallo ristette immobile.//La domenica gli avvocati passeggiando/Accostavano l’effigie austera in alto levata/Per studiare il passato, e i dottori,//Dopo accurati lavacri,indagavano la struttura/Inerte sospesa a una permanenza tanto rigida/Che rendeva il generale alquanto ridicolo,//E mutava la carne vera in bronzo inumano./Non c’era mai stato, né avrebbe potuto, un uomo/Così gli avvocati dubitavano, i dottori//Dicevano che il generale, la piazza Du Puy stessa,/Erano l’ornamento illustre, perfetto/Per i gerani, il vanto, la testimonianza//Tra le vestigia del nostro intelletto./Nulla era accaduto poiché nulla era mutato./Eppure il generale finì nell’immondizia.//)38

Una sottile ironia percorre l’intero testo, evocando al tempo stesso l’immutabilità della storia e il suo peso: la statua sopravvive a tutti coloro che hanno popolato quella piazza, ma solo come immagine sinistra d’immutabilità. Vale forse la pena di ricordare che non è estranea all’ironia il ricorso stesso a una figura come un generale tutto sommato anonimo, nel quale si possono anche identificare due personaggi diversi, anche se penso che si riferisca a quello che ebbe una parte importante nella Rivoluzione Francese. Nella stanza che segue, la quarta, Stevens contrappone alla staticità della scultura, l’immagine degli opposti che danno vita la cambiamento:

/Two things of opposite nature seem to depend/One another, as a man depends/On a woman, day on night, the imagined//On the real. This is the origin of change./Winter and spring, cold copulars, embrace/And forth the particulars of rapture come.//

(/Due cose di opposta natura sembrano dipendere/L’una dall’altra, come l’uomo dipende/Dalla donna,/il giorno dalla notte, l’immaginato//Da ciò che è reale. Questa è l’origine del mutamento/L’inverno e la primavera, gelidi congiunti, s’abbracciano/E alla luce nascono i particolari dell’estasi./)

La chiusa della sezione è ancora più esplicita:

/The partaker  partakes of that which changes him./The child that touches takes character from the thing,/The body, it touches. The captain and his men//Are one and the sailor and the sea are one./Follow after, O my companion, my fellow, my self,/Sister and solace, brother and delight.//

(/Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta./Il bimbo che tocca prende il carattere della cosa,/Del corpo che tocca. Il capitano e i suoi uomini//Sono tutt’uno e così il mare e i marinai./Seguita tu compagno, mio prossimo, me stesso, /Sorella e sostegno, fratello e diletto.//) 39

In questi versi Stevens rovescia la figura dell’ipocrita lettore di Baudelaire, ripreso da Eliot, per farne una figura del tutto diversa. Penso che il poeta di Hartford, in ogni caso, avesse in mente il secondo e non il primo perché, pur essendo identiche, le due formule hanno un senso diverso, dal momento che una citazione ha comunque un altro valore rispetto all’originale. Il verso di Baudelaire smascherava il linguaggio aulico e la figura sacrale del poeta contrapposta all’uomo comune, rovesciando al tempo stesso il linguaggio amoroso nel suo controcanto e invitando il lettore a uscire egli stesso dall’inganno e dalla complicità con il poeta. L’ipocrita lettore di Eliot, invece, s’inscrive nel solco del Tramonto dell’Occidente, per citare il libro di Spengler. Quello che Stevens propone al lettore è un patto di tipo nuovo, che spazza via ogni indulgenza verso il narcisismo del decadere, che del verso di Baudelaire hanno fatto in troppi, proponendo invece un patto di fratellanza e di sorellanza fondato sulla comune appartenenza al genere umano.40

Nella quinta stanza, all’inizio, Stevens ritorna al tema delle cose che permangono dopo di noi (un tema carissimo anche a Borges), ma in questo caso, esse a differenza della statua, esse sono un esempio di mutamento:

/On a blue Island in a sky-wide water/The wild orange trees continued to bloom and to bear,/Long after the planter’s death. A few limes remained,//Where his house had fallen, three scraggy trees weighted /With garbled green. These were the planter’s turquoise/And his orange blotches, these were his zero green,//A green backed greener in the greenest sun./…

(/Su un’isola azzurra in un ampio cielo d’acqua/gli aranci selvaggi seguitarono a dar fiore e frutto,/molto tempo dopo la morte del piantatore. Rimanevano//dov’era caduta la sua casa, tre scabri alberi di cedrina/grevi di mutilo verde./ Erano le chiazze turchesi e arance/del piantatore, erano il suo verde assoluto./…) 41

L’agricoltura, la base di ogni vita, delle stagioni che ritornano, i colori fulgidi ma anche normali di una natura che il lavoro umano non ha distrutto, ma valorizzato. Le stanze finali andrebbero citate tutte e per intero, sia per la loro bellezza, sia per la densità che esprimono. In esse, precisamente nell’ottava, appare rapidamente un’altra delle figure di Stevens, Nanzia Nunzio, la sposa di Ozymandias, che rimanda a Shelley. Metafora dell’incontro fra uomo e donna ma anche di realtà e immaginazione, il matrimonio non può essere mai del tutto raggiunto ma sempre sul punto di esserlo. Il poeta romantico inglese, evocato in questa sezione, torna della decima e ultima con la citazione del vento occidentale come fattore di mutamento continuo, di rimescolamento e metamorfosi ininterrotta.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere ed è fra le tre la più complessa e anche quella in cui il pensiero poetante entra ed esce dai confini che lo separano dalla filosofia. Il piacere di cui il poeta intende trattare è di ordine estetico e conoscitivo. La figura centrale di questa parte è il canonico Aspirin, non lontano dall’Angelo, anzi, tappa di avvicinamento a questa figura che il poeta metterà compiutamente in scena alla fine di Auroras of autumn.

Per delineare i contorni del piacere che la poesia deve dare Stevens ricorre a una serie di esempi, fra i quali scelgo per primo quello della festa.

/We drank Meursault, ate lobster Bombay with mango/Chutney. Then the Canon Aspirin declaimed/of his sister, in what a sensible ecstasy/She lived in her house…

(/Bevemmo Meursault, mangiammo aragosta Bombay/con salsa di mango. Poi il Canonico Aspirina declamò/della sorella/in quale estasi composta/abitasse la sua casa/)

Quando leggiamo questi versi, non sappiamo chi sia il soggetto della narrazione. L’iniziale noi si riferisce a un gruppo generico di persone. Con il secondo verso il Canonico Aspirina diviene protagonista del testo, ma è qualcun altro che sta parlando di lui. Il linguaggio è colloquiale e piano, il setting facile da definire: una festa importante, vista la preziosità dei cibi.  

Il Canonico Aspirina declama, una parola altisonante e in apparenza distante dall’atmosfera famigliare e ciò che egli declama è ancora più sorprendente: come sua sorella viva felice nella propria casa. Per lei, la sorella, tutto questo rappresenta una concreta estasi, un’altra coppia di termini di una certa importanza. Tuttavia, ancora  una volta, i protagonisti del canto sono destinati a cambiare rapidamente, ma è sempre qualcun altro che parla di volta in volta di loro. La sorella del Canonico è ora divenuta la figura in primo piano, solo che – come vedremo presto – è assente. Questa prospettiva tridimensionale costruita attraverso il linguaggio rimanda alla pittura: 

/…She had two daughters, one/Of four, and one of seven, whom she dressed/The way a painter of pauvred colors paints.// But still she painted them, appropriate to their poverty…./ 

(/Aveva due figlie, una /di Quattro anni l’altra di sette, che abbigliava/come dipinge un pittore parco di colore./Ma pur le dipingeva, in maniera conforme/alla loro povertà./)

Il dipingere, in questo caso, diviene metafora della poesia e sembra che Stevens stia suggerendo che anche la poesia può essere fatta di elementi poveri e prendere ispirazione dalle cose più comuni; per esempio una serata famigliare e colloquiale.  C’è di più: i colori, le forme, gli strumenti, sono appropriati alla loro povertà. Quanto al modo di procedere del testo è anch’esso assai pittorico e al lettore sembra quasi di assistere alla composizione di un affresco: prima un dettaglio sulla tavola imbandita, poi un personaggio, poi un altro. Solo alla fine del canto, forse, riusciremo ad afferrare il senso dell’intera composizione? Ci aspetteremmo qualcosa di più sulla sorella; invece, dopo aver continuato a descrivere i colori usati da lei, il Canonico tace. 

/The Canon Aspirin, having said these things,/Reflected, humming an outline of a fugue/Of praise, a conjugation done by choirs.//Yet when her children slept, his sister herself/Demanded of sleep, in the excitements of silence/Only the unmuddled self of sleep, for them/ 

(/Il Canonico Aspirina, dette queste cose, rifletté, canticchiando una fuga abbozzata/di elogio, una coniugazione per cori//Però quando le bimbe dormivano, sua sorella/chiese per se stessa il sonno/nel giubilo del silenzio/per loro soltanto l’io inconfuso del sonno./) 42

Questi versi sono davvero sorprendenti e polisemantici! Non solo tutto quanto precede è un parlare di assenti, ma nel momento in cui la sorella – vera protagonista della serata e della festa che si svolge proprio a casa sua – si materializza, lo fa per porre fine alla serata. La fuga improvvisata dal Canonico, anticipa quel momento di silenzio ed esaurimento del parlar conviviale, che precede i saluti di congedo. La composizione finale della scena ci fa comprendere, come in una retrospettiva, che la serata era andata avanti da molto tempo e che la sorella si era assentata proprio per mettere a letto le due figlie.

Fermiamoci un momento e poniamoci una domanda. I versi di cui sopra sono tratti dalla quinta stanza. Se Stevens, nella stanza successiva, avesse cambiato scenario, nessuno – credo – potrebbe pensare che quella precedente non sia risolta. La sua complessità, la tridimensionalità e le qualità pittoriche sono tutti elementi adeguati e coerenti con la situazione. Tuttavia, il Canonico Aspirina (un personaggio metafora della poesia stessa) non può fermarsi a questo.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere, ma si tratta di un piacere diverso da quello che può scaturire dalla rappresentazione di una festa conviviale, sebbene anche da questo la poesia possa partire. Del resto, Stevens lo aveva scritto nel primo canto di questa terza sezione:

/To sing jubilas at exact, accustomed times,/……./To speak of joy and to sing of it, borne on/the shoulders of joyous men,… This is a facile exercise …

(/Cantar jubila a scadenze esatte e fisse,/… parlar di gioia e cantarne,/portati a spalla da uomini gioiosi … Questo è un facile esercizio …/) 43

Anche condividere una festa può essere un facile esercizio. Ciò che accade nella sesta sezione è la trasformazione alchemica di quell’esperienza concreta, in sé già preziosa, in una metamorfosi che trasfigura la sostanza dell’esperienza festa, ora che essa è finita. Il silenzio che segue e che era stato anticipato dalla intonazione di una fuga, diviene il preludio a qualcosa d’altro. Il Canonico – tornato nel frattempo a casa sua e in procinto di addormentarsi – vive l’esperienza della solitudine, quel vuoto che segue gli incontri conviviali piacevoli.

/The nothingness was a nakedness, a point,// Beyond which fact could not progress as fact./

(/Il nulla fu una nudità, un punto/Oltre il quale il fatto in quanto fatto naufragava./)

Il piacere di condividere una festa non può essere esteso in modo indefinito, in quanto evento concreto, ma solo essere trasfigurato e tale processo ha a che fare con un materiale diverso, di tipo mentale. Si tratta di intonare il nudo fatto con la sua trasfigurazione e allora cosa vede il Canonico Aspirina?

/So that he was the ascending wings he saw/And moved on them in orbits’ outer stars/Descending to the children’s bed, on which// They lay. Forth then with huge pathetic force/Straight to the utmost crown of the night he flew./The nothingness was a nakedness, a point// Beyond which thought could not progress as thought./…

(/Così egli divenne le ali stesse della visione che vedeva/e ascese alle orbite più lontane delle stelle/discese al letto delle bimbe, dove/esse dormivano. Poi con impeto di passione/volò diritto al culmine della notte/Il nulla fu una nudità, un punto/oltre il quale il pensiero come tale naufragava./) 44

Le orbite delle stelle più lontane e il letto delle bambine sono i due estremi di una più ampia armonia che va oltre il pensiero perché è fusione fra la sostanza materiale delle cose e la sostanza materiale della mente. Tale più ampia consapevolezza non proviene dal pensiero o da un occhio che guarda dal di fuori e che domina la scena, ma da una percezione che sta internamente sia alle cose comuni, sia a quelle più vertiginose: le stelle più lontane (metafora delle altezze cui può aspirare la poesia) e il letto dove dormono le nipotine hanno la stessa importanza. In questi due canti Stevens non si limita a riproporre uno dei leit motiv  più celebrati della sua opera e cioè il confronto fra il leone del liuto e il leone della pietra, di cui si è già scritto a proposito del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra.

Nella parte conclusiva del sesto canto, il poeta fa un passo in più:

/He had to choose. But it was not a choice/Between excluding things. It was not a choice// Between, but of. He chose to include the things/That in each other are included, the whole, /The complicate, the amassing harmony.//

(/Dovette scegliere ma non fu una scelta /fra termini che si escludono. Non fu una scelta fra/ma di. Scelse di includere le cose/che s’includono a vicenda, l’intero/ la complessa, l’affollata armonia./) 45

Questi sono i versi chiave. Nel suo volo, il Canonico Aspirina viene messo di fronte a una delle antinomie tipiche del pensiero occidentale e si rende conto che la visione le comprende entrambe. Invece di insistere sulla mancanza che il poeta avverte dopo avere condiviso con altri l’esperienza a tutti comune, scopre l’impossibilità di separare l’esperienza comune dall’immaginazione. La sintesi è una nuova armonia in cui le figure stesse dei due leoni vengono superate. Essa è una quarta dimensione che potremmo paragonare al puro colore della pittura astratta, quando ogni sembiante figurativo si è dissolto. Tuttavia, il materiale della mente e quello dell’immaginazione non sono fatti di una sostanza diversa rispetto alle normali cose. Un chiaro di luna e un tramonto ci scuotono anche prima della loro trasfigurazione in versi memorabili. Se non fosse così la metamorfosi non sarebbe neppure possibile. Perciò la realtà non è solo il fardello del mondo, ma anche la sorgente di ogni ispirazione. Il poeta è un demiurgo e questo implica anche un passaggio nel silenzio e nella solitudine, un momento di vuoto; ma solo un momento, perché quando la metamorfosi è compiuta, nulla è andato perso. Soltanto separando perdiamo qualcosa, sia nel caso in cui rimaniamo legati e prigionieri alla lettera degli avvenimenti, sia perseguendo le rotte delle stelle come fuga, cadendo così in un vuoto spiritualismo. Il poeta demiurgo vola fra queste due polarità, ma Stevens ci sta forse suggerendo che per chiunque tale esperienza è possibile. Naturalmente siamo distanti dal modo ridicolo in cui una formula apparentemente simile è venuta in auge nel post modernismo italiano della fine degli anni ’90 e cioè che chiunque è poeta; ma nel senso che chiunque può raggiungere il concreto materiale della propria mente e della propria immaginazione, nei modi diversi accessibili a ciascuno. Quando siamo commossi fino alle lacrime, quando siamo colpiti da un ricordo improvviso, tale emozione non è differente da un processo di trasfigurazione. Il nudo fatto non è più presente in quel momento, ma è capace di agire a distanza di tempo e di luogo. Che tipo di esperienza è questa? È forse separabile da quel volto, quella voce, quel tramonto che hanno provocato il ricordo e fatto scattare quell’emozione? La poesia è più intensa, il poeta demiurgo è partecipe di esperienze comuni come tutti ma anche memorabili per chiunque, così che tutti possiamo a nostra volta rispecchiarci nelle medesime; altrimenti non potremmo. Probabilmente la grande poesia è quella in cui è attiva anche una capacità di sospendere il giudizio, di accedere a una dimensione astratta e per Stevens astratto non è l’opposto di concreto ma un andare verso un’esperienza concreta come se la si facesse per la prima volta. In definitiva, qual è allora la differenza fra il condividere il piacere di una festa e la poesia che la trasfigura? E fra il poeta e la persona comune nel sentire un’emozione? Abbiamo visto come per Stevens è un demiurgo, ma egli accompagna la parola a un aggettivo molto particolare: debole.

/The man-hero is not the exceptional monster,/But he that of repetition is most master./

(/L’uomo eroe non è il mostro eccezionale;/ma colui che della ripetizione è il miglior mastro./) 46

Soltanto tornando più volte alla stessa esperienza e raffinandola sempre di più è possibile intensificarne il senso: ma ripetere è l’opposto del separare e chi separa troppo cade in quello che i greci definivano hybris, l’arroganza, l’imporre ordine. Il nome del canonico – Aspirina – appare al fine del percorso, niente affatto una bizzarria. L’aspirina, con la sua debole effervescenza, scioglie comunque gli acidi e le incrostazioni, permette alla visione di togliere all’esperienza comune ciò che è troppo comune, per farla risplendere di una luce diversa: il debole demiurgo e l’aspirina condividono tale peculiarità e anche il poeta deve rinunciare alla propria di finzione, eccetto che in un caso:

…../ the fiction of an absolute-Angel,/Be silent in your luminous cloud and hear/The luminous melody of proper sound./ 

(/la finzione di un Angelo assoluto,/sii silente nella tua nube luminosa e ascolta/la luminosa melodia del suono appropriato./) 47 

Nella figura dell’Angelo precipitano (e uso il termine nel significato di reazione chimica) tutte le altre figure di cui di volta Stevens si è servito: ora è diventato l’Angelo della realtà che condivide la sostanza umana e quella divina, che altro non è se non  la parte eccedente noi stessi, ma che a noi ritorna sempre, senza allusioni a un favoloso altrove.

Stevens, coerentemente a quanto veniva scoprendo, rinunciò a darci una definizione esaustiva della Finzione Suprema, limitandosi a fornircene alcune Note, sebbene abbia lasciato qualche traccia della direzione che avrebbe preso la parte non scritta del Poema. Come Mosè egli ha puntato il suo dito verso la terra Promessa della Finzione Suprema. L’armonia molteplice è la contemplazione pacata e accolta del confine, cioè del limite: lo sguardo che da lì e per un attimo coglie l’intero, stando però un passo indietro. Qualcosa di simile deve aver sentito Michelangelo Buonarroti quando, nell’affrescare la Cappella Sistina, lasciò uno spazio vuoto fra il dito di Dio e quello dell’uomo.

Questa terza sezione del poema è quella nella quale Stevens raggiunge i toni più alti, le vette più estreme. Proprio in questo punto, però, la meditazione s’interrompe e la famosa quarta sezione, It must be human, rimane nella penna del poeta. Perché? Ed è proprio vero poi? Su tale mancanza i critici si sono arrovellati e hanno pure interrogato lo stesso Stevens, il quale – con il suo solito modo disarmante – ha risposto in modo a mio avviso esauriente, esponendo i motivi per cui la sezione quarta non fu scritta nella forma in cui lui stesso all’inizio aveva in mente: oppure, come sono propenso a credere, che abbia finto di avere in mente. Seguiamo il suo ragionamento. In una lettera all’amico Henry Church Stevens scrive:

Il nucleo della faccenda è espresso nel titolo…  E in un’altra lettera a Simons: Non ho certamente definito la finzione suprema, le note si limitano ad affermare alcune caratteristiche necessarie ad una finzione suprema48

E continua più avanti, sempre rivolta a Montague:

Per molto tempo ho pensato di aggiungere alle note altre sezioni, una in particolare – Deve essere umana -…Che il lavoro di un uomo rimanga incompiuto, è spesso un fatto intenzionale. Ad esempio, se devo pensare ad una finzione suprema, non riesco ad immaginare niente di più fatale che il definirla categoricamente e senza le necessarie cautele.” 49

A furia di pensarlo come un poeta oscuro, capita di equivocare la chiarezza di Stevens anche quando parla in prosa: forse basterebbe avere il semplice coraggio di prenderlo alla lettera. Quando il poeta afferma che il nocciolo della questione sta nel titolo, dice il vero perché il titolo è lì a dirlo. Le sue non sono Note about, circa oppure on (sulla)  finzione suprema, ma toward. Cosa significa la parola inglese usata da lui? Significa verso, indica cioè una direzione ma non il raggiungimento di una meta specifica, nella forma almeno della meditazione sulla propria poesia e poetica. In un’altra dichiarazione Stevens dice qualcosa di più che illumina definitivamente la questione anche a questo proposito, che illumina il senso delle note. Stevens sente di avere raggiunto il limite oltre il quale il pensiero poetante rischia di diventare filosofia pura e semplice, perciò la definizione di finzione assoluta non può essere raggiunta in poesia; ma manchiamo forse d’indicazione sulla terra promessa della finzione suprema? Niente affatto. Dopo avere toccato il vertice del linguaggio e dello stile alto e dopo essersi allontanato dall’umano troppo umano cioè, dopo avere indicato la via di una spoliazione della tentazione di rendere tutto antropomorfo, dopo avere indicato nell’idea prima della cosa il suo punto di arrivo, Stevens, vuole reintegrare l’umano in tutto questo, un umano però cosciente dei suoi limiti, ma anche della sua grandezza nell’insieme del cosmo.

Nadia Fusini ha bene intravisto questo percorso quando afferma nell’opera già citata:

C’è una curva che si descrive, una traiettoria che piega verso la terra. Comprendiamo che la finzione suprema, se fosse dato raggiungerla, avrebbe quell’inclinazione verso l’umano. 50

Ma non è forse vero – allora – che la quarta sezione non è affatto mancante ma che è stata scritta da Stevens in un altro modo, come una messa in pratica – se così si può dire – di quanto aveva intuito nei punti più alti delle Note? Se posso usare una analogia un po’ ardita direi che lo Stevens che giunge al punto più alto delle note è un Mosè alato che indica la terra promessa e che lo Stevens che scrive il poema le Aurore d’autunno, Un giorno qualunque a New Heaven, The rock e l’Opus postumus, è un Mosè che ha perso le ali ma che non ha rinunciato ad entrare nella terra promessa e che anzi ha compreso che per raggiungerla doveva farlo in altro modo, magari a piedi e anche senza farsi troppo riconoscere. E quale è la terra promessa cui Stevens finalmente approda? Semplicemente quella cui la sua poesia tende fin dagli inizi, in un processo di metamorfosi continua grazie alla quale la meta diventa sempre più chiara al poeta stesso: quel canto della terra e quel linguaggio semplice delle cose colte nella loro essenzialità, la luce che emana anche ciò che è comune e quotidiano.

Nei suoi grandi poemi finali ha raggiunto questa misura e infatti il tono altissimo delle Note cede il passo a quello meditativo e più sommesso, ma non basso: è lo splendore tenue ma costante della maturità autunnale, la luce che non abbaglia ma che rende tutto intimo e confortevole, è il tono di un umano finalmente reintegrato e riconciliato con le cose, persino con la roccia, cioè con il nocciolo duro e più ottuso della terra. La poesia di Stevens fa risplendere tutto questo della sua luce che non è più quella delle vertigini, che evocano:

il favoloso altrove che non esiste e che se anche esistesse non ci servirebbe qui dove siamo” 51

ma il canto di ciò che è più comune: della materia che risuona, della realtà che ha la sua musica. Nei suoi poemi finali Stevens dà a ciò che è più comune la dignità di essere parte di un cosmo.


28 Nadia Fusini, Note sulla finzione suprema, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag.33.

29 Op. cit. pp. 29-30

30 Quella che Stevens mette in atto è un invito alla sospensione del giudizio che diventerà ancora più chiaro in opere successive e in particolare in Aurore d’autunno. Il criterio della sospensione del giudizio ha una lunga storia nella filosofia occidentale. Se modernamente può essere fatta risalire a Kant e a come il filosofo tratta l’aspetto fenomenico dell’esperienza e poi nel ‘900 a Husserl, nell’antichità greca lo troviamo in Sesto Empirico. Stevens non ci lascia tracce evidenti dei suoi possibili riferimenti a questi autori o altro, tuttavia il modo di procedere sembra avere qualche ancoraggio a tali autori, in particolare quelli più antichi, insieme a Husserl.

31 Nadia Fusini, Op. cit. pag. 10.

33 Op. cit. pp.64-5

34 Op. cot. pp. 66-7

35 Op. cit. pp.70-1

36 Op.cit. pp. 77-8. Fusini a piè pagina del testo inglese e della sua traduzione cita molto opportunamente alcuni passaggi di lettere che Stevens indirizzò a Church e a Herringman e che si ricollegano a questo testo, ma che sono pure espressioni assai note che Stevens ha usato in altri contesti. Una l’abbiamo già citata, ma riproporla qui mi sembra assai significativo: “Caro Church, per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta, e la poesia non è che la difficile ricerca di questo.”

37 Wallace Stevens L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum editore, pp.77-112.

38 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, pp 84-5

39 Nadia Fusini, op. cit. pp.86-7.

40 Charles Baudelaire, I fiori del male, in Tutte le poesie, a cura e traduzione di Claudio Rendina con saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1972, pp.50-1.

41 In questo caso ho preferito la traduzione di Massimo Bacigalupo in Wallace Stevens Harmonium, Einaudi pag. 465.

42 Op. cit. pp.480-1

43 Op.cit. pp. 474-5

44 Op. cit. pp. 480-1

45 Su questo passaggio decisivo occorre soffermarsi molto, anche perché le differenze nelle traduzioni sono rilevanti. Il testo in lingua originale, le giustifica tutte, ma esse non sono ovviamente neutre l’una rispetto all’altra. Mi riferisco in particolare all’ultimo verso: The complicate, the amassing harmony. Ho scelto la traduzione di Nadia Fusini che rispetta prima di tutto la presenza della virgola fra l’aggettivo complicate e ciò che segue. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma non lo è affatto perché a mio giudizio Stevens voleva proprio distaccare i due concetti: l’armonia in altre parole non è complessa perché affollata, ma neppure il contrario. Detto ciò, alla traduzione affollata io avrei preferito la parola molteplice, ma è del tutto ragionevole che Fusini abbia fatto la sua scelta perché in una lettera a Simons riportata in calce alla traduzione, Stevens usa gli stessi termini anche in prosa.Non mi convincono invece le traduzioni che vedono nell’aggettivo amassing qualcosa che ha a che fare con l’accumulo. Da Nadia Fusini pp.112-13.

46 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema, terza parte, stanza nona. La traduzione è mia

47 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, in Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, I millenni Einaudi, Torino, pp. 484-5

48 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag 53. Il corredo di lettere che Fusini mette in calce alle tradizioni è preziosissimo. Ho mescolato in questo caso due citazioni da lettere diverse, ma si può dire che in ognuna di queste missive, Stevens ritorna più volte sullo stesso argomento precisandolo sempre di più.  

49 Op. cit. pag 154 nota 22

50 Ivi.

51 L’espressione è usata da Nadia Fusini nella sua introduzione alle Aurore d’autunno, Adelphi, Milano 2012, pag 42. Fusini ricorda l’assonanza con un’analoga espressione usata da Kafka.

WALTER BENJAMIN: STRADA A SENSO UNICO

Introduzione

Questo testo così particolare fu pubblicato nel 1928 ma scritto nel 1926, anche se alcune parti riprendono gli appunti di un viaggio attraverso la Germania compiuto da Benjamin nel 1923. L’opera è una sorta di bric-à-brac, un mix di osservazioni su cose e oggetti quotidiani, improvvise e rapide illuminazioni sugli argomenti più disparati, serie analisi cui fanno da contrappunto ironiche e bizzarre riflessioni: si avverte già in questo testo la fascinazione che i surrealisti esercitavano su Benjamin, anche se i saggi sul movimento verranno dopo. Se si pensa ad alcune opere precedenti e successive a questa, Strada a senso unico è un piccolo ma ricchissimo laboratorio di cui il filosofo si serve per riprendere, modificare, ampliare discorsi precedenti e aprirne di nuovi. L’influenza di Asja Lācis sulla genesi dell’opera, inutilmente negata decenni dopo da Adorno e Scholem, è invece del tutto evidente e tale magma è anche una traduzione in immagini di quello che Benjamin pensava di avere appreso da lei e una continuazione solitaria dell’esplorazione di Napoli che avevano fatto insieme nel 1925. Ne pubblico alcuni frammenti, con rari commenti, nella Rubrica Critica del pensiero unico perché a quasi un secolo di distanza mi sembra un testo molto attuale. L’edizione che ho scelto è quella a cura di Giulio Schiavoni, Piccola Biblioteca Einaudi, 2006 perché in essa sono presenti anche le Appendici, scritte successivamente in forma di appunti e anche per il bel saggio introduttivo di Schiavoni stesso.

Poiché l’esergo, a mio giudizio,  fa pienamente parte del testo e ne anticipa una delle caratteristiche salienti e spiazzanti, mi sembra opportuno cominciare proprio da questo:

Questa strada si chiama via Asja Lācis dal nome di colei che da ingegnere l’ha aperta dentro l’autore.

L’omaggio dietro il quale si può leggere certamente anche una dichiarazione d’amore, ha due elementi che balzano subito all’occhio: la perentorietà del dettato e quella parola – ingegnere – il cui uso può lasciare perplessi, ma che comincia a chiarirsi da subito, dal titolo sorprendente del primo fra i diversi capitoli o capitoletti di cui consiste il libro e del suo incipit, altrettanto perentorio:

STAZIONE DI SERVIZIO

La costruzione della vita dipende in questo momento assai più dai fatti che dalle convinzioni, E anzi, da un genere di fatti che quasi mai, finora, da nessuna parte, sono diventati fondamento di convinzioni … In simili circostanze una vera attività letteraria non può pretendere di svolgersi in un ambito riservato alla letteratura. Una reale efficacia della letteratura può realizzarsi solo attraverso un netto alternarsi di azione e scrittura: in volantini, opuscoli, articoli di rivista e manifesti deve plasmare quelle forme dimesse che corrispondono alla sua influenza … Solo questo linguaggio immediato si dimostra all’altezza del momento in modo attivo. Le opinioni sono per il gigantesco meccanismo della vita sociale quel che è l’olio per le macchine. Non ci si mette davanti a una turbina inondandola di lubrificante: se ne spruzza un po’ sui perni e snodi nascosti che bisogna conoscere. …

Una stazione di servizio ci introduce idealmente nel territorio di una città, ma il capitolo successivo s’intitola Stanza della prima colazione. Dalla città alla casa sembra che Benjamin stia costruendo una sorta di città o casa ideale e allora quel termine – ingegnere – ci porta in un mondo che è al tempo stesso artificiale e prefigurante  di qualcosa, come lo era per esempio per il costruttivismo sovietico in quegli anni.  

CANTIERE.

Lambiccarsi pedantescamente il cervello per creare prodotti – materiali visivi, giocattoli o libri – adatti ai bambini è sciocco. Sin dall’illuminismo è questa una delle fissazioni più stantie dei pedagoghi. La loro infatuazione per la psicologia impedisce di accorgersi che il mondo è pieno dei più incomparabili oggetti dell’attenzione e del cimento infantili. … È che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose. Si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici, o di giardinaggio, in quelli di sartoria e falegnameria. Nei prodotti di scarto, riconoscono la faccia che il mondo rivolge proprio a loro, … I bambini in tal modo si costruiscono il proprio mondo oggettuale, un piccolo mondo dentro, un piccolo mondo dentro il grande, da sé …

MINISTERO DEGLI INTERNI.

Quanto più un uomo è avverso alla tradizione, tanto più inesorabilmente assoggetterà la sua vita privata alle norme che vuole innalzare a legislatrici di un  futuro assetto sociale. È come se quelle gli imponessero di configurarle, loro che ancora non sono realtà da nessuna parte, almeno nell’ambito della sua personale esistenza. L’uomo, invece, che si sente in armonia con le più antiche tradizioni del suo ceto o del suo popolo, pone talvolta la sua vita privata in aperto contrasto con le massime di cui si fa intransigente sostenitore in pubblico e senza il minimo turbamento di coscienza. Scorge in cuor suo nel proprio contegno la riprova più convincente dell’irrefutabile autorità dei principi da lui professato. Si distinguono così i tipi politico dell’anarco-socialista e del conservatore.

XIV.

Dalle più antiche usanze dei popoli sembra giungerci come un monito a guardarci dal gesto dell’avidità nell’accogliere ciò che riceviamo con tanta ricchezza dalla natura. Perché alla madre terra,noi non siamo in condizioni di regalare niente del nostro. Per questo ci si addice mostrare rispetto nel prendere … Questo rispetto traspare nell’antica consuetudine della labatio. Anzi, è forse questa remotissima esperienza morale che si è conservata sotto altra forma nello stesso divieto di raccogliere le spighe dimenticate o di raccogliere i grappoli d’uva caduti, che devono ritornare alla terra e agli antenati dispensatori di benefici … ma se un giorno la società sotto la spinta del bisogno o della cupidigia avrà a tal punto tralignato da poter ricevere i doni della natura solo predando, da spiccare i frutti ancora acerbi per piazzarli sul mercato … allora la terra s’impoverirà e la campagna darà cattivi raccolti …

REVISORE GIURATO DEI LIBRI.

Il nostro tempo, quale antitesi per eccellenza al Rinascimento, si contrappone in particolare alla situazione in cui fu inventata la stampa … La comparsa di quest’ultima in Germania, cade nell’epoca in cui il libro per antonomasia, il libro dei libri, grazie alla traduzione della Bibbia fatta da Lutero, divenne patrimonio popolare. Ora tutto fa prevedere che il libro in questo sua forma tradizionale stia andando incontro alla sua fine. Mallarmé … che vedeva bene cosa stava maturando, nel Coup de dés ha per la prima volta acquisito alla pagina a stampa le tensioni grafiche della rèclame … La scrittura, che nel libro stampato aveva trovato un asilo, ove condurre un’esistenza autonoma, dai cartelloni pubblicitari vien trascinato nelle strade, e assoggettato alle brutali eteronomie del caos economico … Se alcuni secoli fa aveva cominciato pian piano a coricarsi e da iscrizione retta era diventato manoscritto  semi adagiato su leggii per poi stendersi alla fine nel letto del libro stampato, ora comincia … a rialzarsi da terra. …. E prima che il contemporaneo arrivi ad aprire un libro è piovuto sui suoi occhi un turbine talmente variabile di lettere colorate e rissose, che le probabilità di penetrare nell’arcaico silenzio del libro si sono per lui assai ridotte … Ma è fuori di dubbio che l’evoluzione della scrittura non resterà all’infinito legata alle pretese di dominio di una caotica condizione della scienza e dell’economia, e che anzi arriverà il momento in cui la quantità si tradurrà in qualità e la scrittura, e le scritture sempre più s’addentra, nel campo grafico della sua nuova eccentrica ricchezza di immagini, conquisterà di colpo contenuti adeguati. A questa scrittura per immagini i poeti, potranno collaborare solo se dischiuderanno a se stessi i campi i cui si compie la costruzione di essi: quelli del diagramma statistico e tecnico. Con la creazione di una scrittura variabile internazionale essi rinnoveranno la propria autorità nella vita dei popoli e scopriranno una funzione in confronto alla quale tutte le aspirazioni al rinnovamento della retorica si riveleranno antiquate fantasie.   

Benjamin riprenderà questa tematica in tutti i suoi saggi successivi. Questo brano e in particolare i passaggi che si riferiscono alla pubblicità mi hanno riportato però a un testo poetico che probabilmente Benjamin non conosceva ma che è decisivo perché il suo autore fu fra i primi nel contesto europeo e comprendere il ruolo che stava acquisendo la pubblicità: mi riferisco a La passeggiata, scritta da Palazzeschi nel 1913.

  1. Libri e prostitute si possono portare a letto.
  2. Libri e prostitute intrecciano il tempo. Dominano la notte come il giorno e il giorno come la notte.
  3. Libri e prostitute non fanno vedere a nessuno che per loro i minuti sono preziosi. Se però si entra in confidenza con essi, si finisce per accorgesi di quanta fretta hanno. Mentre noi ci sprofondiamo in loro, non la smettono di contare.
  4. Libri e prostitute hanno sempre un amore infelice gli uni per gli altri.
  5. Libri e prostitute:entrambi hanno un loro genere di uomini che vivono di loro e li maltrattano. I libri i critici.
  6. Libri e prostitute in case pubbliche. Per gli studenti.
  7. Libri e prostitute: di rado vede la loro fine uno che li ha posseduti. Sono soliti scomparire prima del disfacimento.
  8. Libri e prostitute raccontano così volentieri e così bugiardamente come lo sono diventati. In realtà, spesso neanche loro se ne accorgono. Per anni si corre dietro a tutto “per amore” e un giorno ecco che quale corpus ancora in carne si trova sul marciapiede, quel che per motivi di studio” si era sempre librato sopra esso.

IX. Libri e prostitute amano girare il dorso quando si mettono mostra.

X. Libri e prostitute figliano molto.

XI. Libri e prostitute: “Vecchia beghina. Giovane puttana”. Quanti dei libri su cui oggi la gioventù è tenuta a studiare, erano un tempo malfamati.

XII. Libri e prostitute mettono in piazza,le loro beghe.

XIII. Libri e prostitute: le note a piè pagina sono per gli uni quello che sono per le altre i soldi nella calza.

IV

Non per niente si usa parlare di “nuda” miseria. Il lato più deleterio della sua esibizione – che comincia a divenire abitudine sotto la legge del bisogno e tuttavia rende visibile un millesimo soltanto della miseria nascosta – non è la compassione o la non meno spaventosa coscienza di personale immunità che si fa strada nello spettatore, ma la vergogna di costui. Impossibile vivere in una città tedesca dove la fame costringe i più miserabili a campare delle banconote con cui i passanti cercano di coprire una nudità che li ferisce.    

PRONTO SOCCORSO

Un quartiere quanto mai caotico, un intrico di strade da me evitato per anni, mi apparve di colpo dotato di un suo ordine quando un giorno vi si trasferì una persona amata. Fu come se alla sua finestra avessero installato un riflettore e questo fendesse la zona con fasci di luce.

SEGNALATORE D’INCENDIO

L’idea che ci si fa della lotta di classe può trarre in inganno. Non si tratta, in essa, di una prova di forza in cui si decida la questione di chi vince e chi perde, né di uno scontro al cui termine al vincitore andrà bene e allo sconfitto male. Pensare così significa dare ai fatto un travestimento romantico. Perché la borghesia, sia che vinca o che soccomba nella lotta, è comunque condannata a perire dalle sue interne contraddizioni che le riusciranno fatali nel corso del suo sviluppo. La questione soltanto se essa perirà per mano propria o per mano del proletariato. Continuazione o fine di un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria saranno decise dalla risposta a questo punto. La storia nulla sa dell’infinito di bassa lega simboleggiato dai due gladiatori perennemente in lotta. Solo ero scadenze fa i suoi calcoli il vero politico. E se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione guerra chimica), tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite la miccia va tagliata. Intervento, rischio e rapidità del politico sono una questione di tecnica, non di cavalleria.

CONSULENZA FISCALE   

Nessun dubbio: esiste una segreta connessione fra la misura dei beni e la misura della vita, voglio dire fra tempo e denaro. Quanto più futilmente è occupato il tempo di una vita, quanto più sfaldati, multiformi ed eterogenei, mentre il grande periodo caratterizza l’esistenza dell’uomo superiore. Molto giustamente Lichtemberg propone che si parli di “rimpicciolire” anziché di abbreviarlo; lo stesso osserva: “Qualche dozzina di milioni di minuti fanno una vita di quarantacinque anni e qualcosa”. Dove è in uso una moneta di cui una dozzina di milioni di unità non significano niente, bisognerà che la vita venga calcolata in secondi anziché in anni, in modo da apparire ragguardevole come somma. E in conformità a ciò verrà frazionata come un rotolo di banconote:l’Austria non riesce a perdere l’abitudine di calcolare in corone.

L’ARTE DI RACCONTARE

Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il globo. Eppure noi siamo poveri di storie singolari. Da cosa dipende? Dal fatto che non ci raggiunge più nessun avvenimento che non sia già imbevuto da spiegazioni … una metà della parte del narrare consiste infatti nel mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta. In questo gli antichi erano maestri, prima di tutto Erodoto. Nel quattordicesimo capitolo delle sue Storie si trova il racconto di Psammenito. Quando il re egizio Pasammenito fu sconfitto e catturato dal persiano Cambise, Cambise fece in modo da umiliare il prigioniero. Comandò di mettere Psammenito sulla strada lungo la quale avrebbe dovuto muovere la processione trionfale dei Persiani. E fece altresì in modo che il prigioniero vedesse passare sua figlia che andava con l’anfora alla fonte come serva. Mentre tutti gli egiziani si lamentavano elevando alte grida a questo spettacolo, solo Psammenito rimase muto e immobile con gli occhi fissi a terra; e quando poco dopo vide passare suo figlio passare portato in processione al patibolo, anche allora restò immoto. Ma quando poi scorse nelle file dei prigionieri uno dei suoi servitori, un vecchio caduto in povertà, allora si percosse il capo con i pugni e diede tutti i segni di un profondo cordoglio – Da questa storia si vede di che natura sia il vero racconto. L’informazione si consuma nell’istante della sua novità … Non così il racconto … Esso conserva la propria forza raccolta all’interno e sa dispiegarsi anche dopo lungo tempo. Così Montaigne è tornato al racconto del re egizio e si domandato: perché si lamenta solo alla vista del servitore e non prima? La risposta di Mantaigne è: “Dacché era già traboccante di cordoglio, bastò soltanto una minima aggiunta perché questa abbattesse gli argini.” La storia può essere interpretata in questo modo. Ma essa lascia spazio anche ad altre spiegazioni. Può farne la conoscenza chiunque abbia formulato la domanda di Montaigne nella cerchia dei propri amici … Quel che è certo è che tutti i reporter la spiegherebbero in men che non si dica. Erodoto non la spiega neppure con una parola. La sua narrazione è di estrema aridità. Ecco perché  a distanza di millenni questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado scatenare meraviglia e riflessioni. Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia dì anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione fino al giorno d’oggi.   

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