PENSARE CON I PIEDI

Garrincha

Premessa

Una versione di questo articolo fu pubblicato sulla rubrica culturale del Wall Street Journal Italia nel 2014. Ho modificato il testo in alcune parti troppo datate e aggiunte altre riflessioni più contemporanee.

Ho rubato il titolo di questa riflessione rapsodica ed estiva sul calcio e nel pieno del mondiale femminile che si sta concludendo a uno degli scrittori più grandi che di questo gioco hanno scritto: Osvaldo Soriano, una perdita gravissima per la letteratura mondiale, tanto più dolorosa perché avvenuta in età giovane e nel pieno della sua creatività, il 29 gennaio del 1997. Un ricordo personale mi lega alla sua morte. Nel 1996, pochi mesi prima del suo decesso, partecipai insieme a mio figlio Ulisse al primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo che si tenne nelle zone della guerriglia zapatista del Messico. A quell’incontro parteciparono anche molti artisti, pittori, scrittori e mi colpì l’atteggiamento di rispetto che quelle popolazioni avevano, con tutti i loro problemi, nei confronti delle arti. La musica, in particolare, essenziale in qualunque momento della vita e a qualunque prezzo. Ci raccontarono delle fughe notturne, mentre erano inseguiti dall’esercito, ma sempre trascinandosi dietro la marimba, lo strumento prediletto dalle popolazione indigene del centro America: e non è come dire fuggire nella giungla con una marimba in spalla, che assomiglia a un piccolo pianoforte! Che anche la letteratura godesse dello stesso credito e rispetto non lo sospettavo, però: fra tutte le arti, è la meno avvicinabile per popolazioni con un tasso scarso di alfabetizzazione. Certo, il sub comandante Marcos era ed è anche uno scrittore, pubblicava racconti con lo pseudonimo da tutti conosciuto di Don Durito della Lacandona, ma sembrava più un suo vezzo che altro. Mi accorsi che non era così quando morì Soriano: ero tornato da mesi dal Messico e la notizia del suo decesso fu un fulmine a cielo sereno. Quello che più mi colpì fu il lutto dell’intera America Latina e quello delle comunità zapatiste. La guerriglia si era fermata, tutti si erano fermati e Marcos aveva parlato dello scrittore argentino nel cordoglio unanime di una comunità di indios, esclusi da tutto, ma che piangevano la morte di uno degli ultimi cantori dell’America latina. Avendoli conosciuti, la vista di quelle donne e di quegli uomini immobili, raccolti in un silenzio teso, mi commosse quanto mai. Nessuno scrittore europeo potrà avere un cordoglio così unanime e sentito. Lo ebbero in passato i grandi maestri della narrativa (i funerali di Victor Hugo per esempio), oppure i jazzisti statunitensi di colore (Charlie Parker), ma sempre più raramente possono più averlo da noi dove da tempo non interpretano più i sentimenti profondi di un popolo: forse sono certi cantautori o interpreti a poter suscitare un’emozione così forte. Le ragioni sono tante e non è il caso di parlarne in questa sede, se non per due di esse che mi riportano anche al tema di queste riflessioni. L’America Latina, pur con tutti i contrasti fra i diversi popoli, ha, fra gli altri, due fortissimi legami comuni, la lingua e l’identità india, riscoperta di recente ma fondamentale quanto mai. Nel vivere collettivamente, in una grande cerimonia corale, il lutto per la morte di Soriano, c’era tutto questo.

Il calcio e i suoi miti

Osvaldo Soriano

Pensare con i piedi è il titolo della sua raccolta di racconti più famosa, con una sezione finale interamente dedicata al calcio. Inizio però da un altro racconto, contenuto in un’opera meno nota, dal titolo Artisti, pazzi e criminali. Il libro raccoglie una miscellanea di scritti che stanno sul crinale fra giornalismo e narrazione. Si tratta di testimonianze in diretta, pubblicate nel supplemento del quotidiano l’Opinion, che si chiamava La Historia de vida. Come s’intuisce dal titolo dell’inserto, il materiale era costituito da testimonianze di vita, raccolte con il registratore. Soriano le trasformava in racconto, cercando il più possibile di rimanere fedele al personaggio intervistato. È un genere che lo scrittore medesimo definisce assai difficile perché, come nel caso in questione, i testimoni non sempre hanno capacità linguistiche e narrative tali da interessare un lettore; ma nello stesso tempo, lo scrittore non può manipolarle più di tanto, ma deve piuttosto lavorare di cesello sul materiale che ha. Il racconto in questione s’intitola Il riposo del re del centrocampo e il personaggio che rende la sua testimonianza, è Obdulio Varela, un nome che starebbe benissimo in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Anche chi, come il sottoscritto, è un grande appassionato di calcio, forse non lo ricorderà, ma sicuramente non gli saranno estranei altri suoi due connazionali, Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino, gli autori dei due gol che diedero all’Uruguay il titolo mondiale nel 1950 e che hanno ispirato anche una famosa canzone di Paolo Conte: Sudamerica. Obdulio Varela era il capitano di quella squadra, un gigante buono del centrocampo, abituato alla fatica e condannato a Una vita da mediano, come recita la canzone che Ligabue ha dedicato al centrocampista dell’Inter e della nazionale Lele Oriali. In quella memorabile finale del 1950, Obdulio fu cattivo e lucido quanto bastava per mettere paura ai brasiliani. Non si può raccontare con altre parole un brano struggente e perfetto come questo, se non segnalandolo.

A parte qualche incursione poetica (Saba e Pasolini), anche in Italia sono stati i romanzieri a dedicarsi al calcio e direttamente sulla stampa sportiva. Memorabili le cronache di Luciano Bianciardi sul Guerin sportivo diretto da Gianni Brera e altrettanto memorabili quelle di Brera medesimo. Il fuorigioco mi sta antipatico, il titolo con cui da Stampa Alternativa, ha ripubblicato di recente le risposte di Bianciardi alle lettere dei lettori, dimostra una volta di più che il calcio non è l’ultima delle lenti attraverso le quali si può guardare a una società intera. Partendo dal gioco e dalle sue tattiche, Bianciardi metteva alla berlina i vizi nazionali, lo faceva da grande istrione provocatorio qual era, ma sempre documentato, anche in materia calcistica. Un capitolo a parte, meritano poi le radiocronache. Quelle di Niccolò Carosio erano esempi di narrazione orale, talvolta vere e proprio invenzioni che con la partita in oggetto avevano un relazione assai complessa. Carosio veniva dalla retorica fascista, che, seppure depurata, ancora si avvertiva nel tono che usava e nelle cadenze. A lui mi lega un altro ricordo personale. Chi per primo mi avvicinò al calcio e me ne fece appassionare fu mio padre. Proprio con lui, nel 1962, ascoltai la radiocronaca della partita Cile Italia, ai mondiali che si tenevano nel paese sudamericano. La radiocronaca fu un esempio di linguaggio epico moderno. L’Italia, bistrattata da un arbitraggio scandaloso e menata niente male dai cileni, perse due a uno, fra gli alti lai del cronista. Purtroppo per Carosio, di quella partita il film esisteva e molti anni dopo, incuriosito, volli vederlo: l’esito fu grottesco. Carosio aveva trasformato una partita combattuta e che l’Italia aveva giustamente perso, in una battaglia campale, nel racconto della quale confluivano frustrazioni che con il calcio avevano poco a che vedere! Oggi le cronache come quella di cui sopra non sarebbero più possibili: la televisione non permette voli pindarici, le immagini smascherano facilmente la retorica e tutto sommato non è un male. Tuttavia, ogni nuova tecnologia e linguaggio ha la sua retorica e quella di oggi consiste in interminabili chiacchiere sul calcio, ma senza le invenzioni linguistiche che tenevano incollati i lettori agli articoli scritti dai grandi narratori o giornalisti di un tempo. Questo mi riporta al Soriano di Pensare con i piedi. È un libro complesso, che ci offre uno spaccato dell’Argentina con tutti i suoi immaginari: dal mito di Buenos Aires, al tango e naturalmente al calcio. Il nomadismo è un altro tema di fondo di questo romanzo picaresco, insieme alla particolarità della natura argentina, specialmente a sud, dove finisce il mondo, per parafrasare Bergoglio. Proprio nella valle del Rio Negro e in Patagonia, sono ambientati i capitoli finali che danno poi il titolo all’intero libro. Sono tre i racconti più importanti: Il rigore più lungo del mondoIl figlio di Butch Cassidy e Finale con i rossi a Ushuaia, il capoluogo della provincia argentina della Terra del Fuoco. Difficile capire dove finisce la testimonianza e comincia il sogno, quando i personaggi sono inventati, oppure talmente realistici da superare ogni fantasia. Nei tre racconti succede di tutto, ma sull’ultimo in particolare mi soffermo: è la storia di un mondiale di calcio che si sarebbe svolto nel 1942, nella Patagonia argentina, giocato da fuoriusciti dai paesi in guerra e da chi si trovava in Argentina per motivi di lavoro. Secondo la ricostruzione di Soriano, pare che gli indiani mapuche, partecipanti anche loro al torneo, approfittando di una pausa, rubassero le porte dal campo di calcio per impedire la sconfitta della loro squadra! Tutto inventato? Forse no, perché la Fifa ha dichiarato di avere avuto notizia di quello strano torneo, ma di non essere in grado di dire chi lo vinse.

Il calcio oggi

Mi sono chiesto molte volte in che cosa consista il fascino del calcio e perché è diventato lo sport della globalizzazione come nessun altro, tanto da coinvolgere persino gli Stati Uniti. La domanda si ripropone oggi ancora di più perché siamo arrivati a un punto critico: il calcio maschile è in una crisi profonda e rischia di fare la fine della rana cinese di un famoso racconto, che a furia d’ingrassare finì per esplodere. Tenendo sullo sfondo questo scenario che riprenderò nelle conclusioni, provo a suggerire qualche risposta sul perché del fascino di questo gioco, come è nato e come si è evoluto nel tempo. Il football è lo sport moderno, democratico e di massa per eccellenza, legato alla fisicità del corpo, ma senza protesi: anche i casi di doping documentati dimostrano che non portano a nulla, nel senso che in un gioco collettivo con così tanti giocatori in campo, le dinamiche sono troppo complesse.1  La parola democratico forse stupirà, ma proverò a dimostrarlo. Altri due sport condividono lo stesso appeal, il ciclismo e un tempo anche il pugilato, ma il secondo è caduto molto rispetto a decenni fa nella popolarità. Il ciclismo è fatica e mantiene la sua capacità di mobilitare le folle, ma solo in certi momenti. Il calcio è stato lo sport della classe operaia, degli oratori nei paesi cattolici e dei campetti di periferia e sulle spiagge ovunque: per quella strada e nel tempo ha radunato intorno a sé masse di spettatori impensabili per qualunque altro sport: non stupisce che stia avvenendo anche per il calcio femminile, nonostante la scarsa copertura mediatica in Italia, ma non altrove. Quanto alle altre discipline, il paragone con le Olimpiadi della Grecia antica è proponibile solo per l’atletica leggera, perché la distanza fra gli atleti e l’uomo o la donna comuni è tanto grande quanto lo era allora. Vedendo correre Usein Bolt e Marcel Jacobs, assistere ai lanci di una giavellottista come Kelsey Lee Roberts, oppure vedere la campionessa di salto con l’asta Isimbaeva, la sensazione è di guardare delle statue in movimento: si può rimanere stupefatti, ma la distanza che ci separa da loro è incommensurabile: assomigliano di più agli dei di un moderno Olimpo che non a umani come noi. Chi gioca a calcio è diverso dagli altri, anche oggi che è cresciuto il tono atletico e questo vale anche per le donne. Abituati anche per via della pubblicità, ad ammirare i bicipiti di Cristiano Ronaldo, ci sfugge che il calciatore e la calciatrice media sono uomini e donne comuni, a volte persino bruttin*: è sufficiente guardare le formazioni quando le riprese televisive le inquadrano durante l’esecuzione degli inni nazionali. Il caso storico più eclatante, dolce e tragico al tempo medesimo, è quello di uno dei più grandi calciatori di sempre: il brasiliano Manoel Francisco dos Santos, detto Manè Garrincha. Nato nello stato di Pau, egli era un bambino della giungla, che viveva fra fiumi e foresta tropicale. Ingenuo fino poter sospettare una psicologia mai divenuta veramente adulta, fin da bambino fu afflitto da diversi difetti congeniti dovuti alla malnutrizione e addirittura – secondo alcune fonti – a una leggera forma di poliomielite. Oltre allo strabismo, Garrincha aveva la spina dorsale deformata da uno sbilanciamento del bacino, le ginocchia afflitte da disturbi congeniti e operate più volte. Infine, l’ultimo problema, addirittura stupefacente per un calciatore: una gamba sei centimetri più corta dell’altra, a causa di un’operazione! In quale altro sport avrebbe potuto eccellere? Eppure Garrincha fu fra i più grandi di sempre. Il soprannome gli viene proprio dal suo corpo gracile e gli fu dato dalla sorella: la garrincha è un piccolo uccello minuto e simpatico. Al campione brasiliano ha dedicato un racconto assai bello Ugo Riccarelli, lo scrittore romano purtroppo scomparso, nella sua più bella raccolta, intitolata L’angelo di Coppi. La sua storia è costellata di aneddoti che tutti brasiliani conoscono. Uno assai divertente accadde durante la cerimonia di premiazione nei mondiali del ’58 in Svezia. Mentre sfilavano sul palco d’onore Garrincha, del tutto estraneo a quanto stava accadendo e perso nel suo mondo, si rivolse al capitano della squadra chiedendogli:

“Ma cosa sta succedendo?”

“Manè, abbiamo vinto il mondiale” rispose il compagno sorpreso e lui di rimando:

“Sì, ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”

Per concludere

Ciò che ingrassa troppo il calcio maschile è notorio: il denaro, ma anche la pretesa che sia uno spettacolo a ciclo continuo, distribuito praticamente su tutti i giorni della settimana per poter alimentare il circo mediatico delle piattaforme. L’anno calcistico scorso e quanto accaduto in questa sessione estiva del mercato costituiscono una ulteriore accelerazione di questo fenomeno. Tuttavia, potrebbe non essere un male che l’Arabia Saudita diventi un cimitero degli elefanti sia per ex calciatori, sia per teleutenti che hanno voglia di spendere soldi per assistere a un finto campionato. Gli altri continueranno a guardare il calcio europeo, che tuttavia perde pubblico in continuazione. Il calcio femminile potrà rilanciare l’interesse verso il gioco? In Italia sembra di no, ma nel nostro caso abbiamo a che fare con lo stereotipo sessista che ha ben altre e più gravi manifestazioni in altri ambiti: dalla violenza maschile sulle donne, alla misoginia diffusa. Solo la rete televisiva LA7 trasmette la domenica una partita del campionato femminile di serie A. Il pregiudizio, poi, che non si tratti di vero calcio, pur non espresso, è largamente pensato. Eppure chi ha assistito all’ultima finale del mondiale femminile fra Inghilterra e Spagna dovrebbe convincersi che di calcio si tratta. Una partita bellissima e avvincente, meritatamente vinta dalla spagnole anche contro il loro allenatore e calciatrici spettacolari come Olga Carmona e specialmente Aitana Bonmatì. Brave anche le inglesi campionesse d’Europa, con una portiera straordinaria  come Earps.

Come andrà a finire? È possibile che il calcio maschile esploda per i suoi debiti e gli stipendi esorbitanti, ma non sarà la fine del calcio. Anche in Italia le squadre con i conti a posto e che fanno campionati brillanti senza spendere molto ci sono già, specialmente in provincia. Qualche tonfo clamoroso ci sarà e c’è già stato: altri ne verranno e non sarà un male.               

Aitana Bonmatì Women’s Champions League – FC Bayern München vs FC Barcelona 21.04.2019

1 Vi è un altro aspetto della modernità nello sport  e cioè le discipline motoristiche, che sono un altro mondo a se stante. Quanto al doping c’è una distinzione da fare fra il doping vero e proprio,i cui casi nel calcio sono molto limitati e l’uso di integratori che probabilmente è causa di patologie anche gravi ma che non erano e non sono considerati doping e sono largamente usati anche da chi fa sport dilettantistico.

FESTIVAL DELLA LETTERATURA WORkING CLASS

Insorgiamo con i lavoratori GKN

  · 

✊ Rompiamo l’assedio, una spallata dopo l’altra e raccontiamola noi questa storia!

Ultimi preparativi per ospitare al presidio ex-GKN il 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗳𝗲𝘀𝘁𝗶𝘃𝗮𝗹 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗶 𝗹𝗲𝘁𝘁𝗲𝗿𝗮𝘁𝘂𝗿𝗮 𝘄𝗼𝗿𝗸𝗶𝗻𝗴 𝗰𝗹𝗮𝘀𝘀 𝗶𝗻 𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮: incontri con autori e autrici da tutta Europa e tanti tanti eventi culturali, tra cui una 𝗺𝗼𝘀𝘁𝗿𝗮 𝗱’𝗮𝗿𝘁𝗲 𝗲 𝗱𝗶 𝗳𝗼𝘁𝗼𝗴𝗿𝗮𝗳𝗶𝗮 che rimarrà per tutta la durata del festival.

La giornata di 𝘀𝗮𝗯𝗮𝘁𝗼 𝟭 𝗮𝗽𝗿𝗶𝗹𝗲 si chiuderà con un concerto di Iena, Tamburini di Batucada Agogo e dj Muffa.

Tutto il programma nell’evento👇

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LA MONACA SENZA MONASTERO

Introduzione 1

Marianne Moore nasce a Kirkwood nel Missouri. Figlia di un ingegnere e inventore, cresce nella casa del nonno. Nel 1905 frequenta il Bryn Mawr College in Pennsylvania, ove si laurea quattro anni dopo. Insegna all’Indian Industrial School di Craslile fino al 1915, l’anno che segna una svolta nella sua vita perché comincia a pubblicare poesie. Viaggia molto in Europa, in compagnia della madre. Come osserva Laura Cantelmo,2 quello compiuto dalle due donne è un vero e proprio Grand Tour in stile ottocentesco, ma avvenuto negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale. Le tracce della presenza di Moore nei luoghi canonici dove gli artisti di tutto il mondo si ritrovano (Parigi, per esempio), sono scarse, per il semplice fatto che  – pur frequentandoli – lei mantenne riservata la propria identità; difficile, peraltro, immaginarsela a fare bisboccia e a ubriacarsi in un bistrot insieme a Joyce o a Picasso! La sua poesia attira l’attenzione di Ezra Pound, William Carlos Williams, Hilda Doolittle; ma specialmente di T.S. Eliot e di W. Auden, che scriveranno su di lei due celebri saggi. Dal 1925 al 1929, lavora come editore della rivista letteraria e culturale The Dial. Fu grazie a lei che pubblicarono i primi versi Elizabeth Bishop e Allen Ginsberg. La sua fortuna è costante, ma lei è del tutto schiva e per niente incline a partecipare intensamente alla vita letteraria, se non tramite le corrispondenze e qualche lettura pubblica, oltre che naturalmente nel ruolo di editore. Nel 1951 venne premiata con il Pulitzer e il Bolligen Prize. Piuttosto che frequentare gli ambienti letterari, preferisce gli incontri di pugilato o di baseball e in generale le manifestazioni sportive, cui si reca indossando un cappello a tricorno e un mantello nero. È una grande ammiratrice di Mohammed Alì.

Non è mio costume iniziare un saggio su un poeta, o chiunque altro, dalla sua biografia, ma nel caso di Marianne Moore vale la pena di farlo perché pochi altri artisti e artiste della sua grandezza sembrano del tutto fagocitati dalla loro opera, tanto da vivere solo in essa. In Moore, però, c’è anche qualcosa di più e di ancor più affascinante: perché, come abbiamo visto, era anche profondamente radicata nella società nei suoi aspetti popolari più vistosi. Baseball e pugilato sono quanto di più statunitense e maschile si possa immaginare.

Nel saggio più importante a lei dedicato, T.S. Eliot afferma, fra l’ altro, che:

… le sue poesie fanno parte del piccolo corpo della poesia durevole, scritta nel  nostro tempo; di quel piccolo corpo di scritti, in mezzo a ciò che passa per poesia, nel quale una sensibilità originale e un’intelligenza alacre e un sentimento profondo si uniscono a tenere in vita la lingua inglese. 3

Tenere in vita una lingua non è davvero cosa da poco. La sua poesia, però, non ammalia il lettore con fuochi artificiali, ma gli impone una severa disciplina dell’ascolto. Lina Angioletti ha fatto un lavoro egregio nel tradurre un testo che vede il compasso fra l’italiano e l’inglese, aprirsi al massimo della sua estensione. Tutto in Moore è statunitense, linguisticamente; nonostante dietro ogni testo si avverta la presenza di una cultura che travalica i confini americani e sa essere vastissima e profonda, nonostante l’eclettismo.

Il Bestiario

La capacità di Moore nell’osservazione della natura sa mantenersi in equilibrio fra esprit de geometrie ed esprit de finesse, sa alternare il microscopio al telescopio, ma sempre tenendo il rigore scientifico a contatto con la sapienza del cuore. Fatta questa premessa, la sua opera potrebbe essere descritta come una straordinaria Arca di Noè, dove trovano posto specie reali e immaginarie, qualcuna estinta. Eppure, se pensiamo ai bestiari tradizionali, oppure al modo in cui l’animale è stato rappresentato nel cinema americano del ‘900, da Walt Disney per esempio, si coglie subito la distanza che separa i suoi animali da quelli rappresentati da altri. La differenza è ancora più vistosa se si considera che Moore era una profonda conoscitrice dei maggiori autori che ne hanno trattato: infatti, che fra le sue opere spicca la traduzione delle favole di La Fontaine. Inoltre, si può intuire da molti riferimenti, che i classici greci e latini costituiscono una parte importante del suo patrimonio culturale. Tale diversità poggia, a mio avviso, su due pilastri: prima di tutto la considerazione che quella umana è una specie animale come le altre, con caratteristiche di speciazione proprie. Questo primo aspetto taglia alla radice la tentazione di rendere l’animale antropomorfo. Il secondo pilastro è l’identificazione con l’animale, come avviene per esempio in questo testo densissimo, che si colloca a metà strada fra una dichiarazione di poetica in versi e lo svelamento del suo atteggiamento esistenziale.

Emerges daintly, the shunk -/don’t laugh – in sylvan black and white chipmunk/regalia. The inky thing/adaptedly white with glistening/goat-fur, is wood-warden. In his/ermined well-cuttlefish-inked wool. He is/determination’s totem. Out-/lawed? His sweet face and powerful feet go about/in chieftan’s coat of Chilcat cloth.//He is his own protection from the moth,//noble little warrior. That/otter-skin on it, the living pole-cat,/smothers anything that stings. Well, – /this same weasel’s playful and his weasel/associates are too. Only/wood-weasels shall associate with me./

 /si affaccia con grazia, – non ridete -/ la puzzola con le insegne silvestri,/bianche e nere dello scoiattolo. Fatta d’inchiostro,/mascherata di bianco in una lucida/pelliccia di capra. È custode del bosco. Nella sua/ ermellinata, intinta nell’inchiostro della seppia,/è il totem della determinazione/È un fuorilegge? Il muso dolce e le zampe potenti/vanno in giro in un manto regale di panno di Chilcat./ Trova in sé la protezione dalla tarma,//minuscola e nobile guerriero. Quella/pelle di lontra che la copre, la moffetta vivente,/spegne qualunque aculeo. Ebbene,/questa stessa mustela ama giocare,/e come lei le sue compagne. Solo/le mustele del bosco saranno mie compagne./ 4

Ciò che colpisce in questi versi è la sapiente mescolanza di esattezza della descrizione, tenerezza e ironia: frutto di una lunga osservazione e di un’attenzione viva al dettaglio minimo. Il linguaggio ricercatissimo, fatto di un lessico preciso ma non proprio comune, arricchisce il manto dell’animale e lo fa risaltare in tutta la sua ricchezza. La puzzola, tuttavia, è nota anche per l’odore sgradevole che emana per tenere a distanza gli indesiderati. Non ridete, esorta la poetail lettore a fare, poi lo invita a seguirla in una descrizione che è un piccolo capolavoro di virtuosismo: alla fine scatta l’identificazione, assai ambivalente e capace di affermare quel tanto che basta intorno a se stessa. Figlia del bosco e della macchia lei stessa, così attenta nel tenere a distanza critici, chiacchieroni e uomini, Moore si sente vicina alle mustele, ma il verso finale indica anche l’opposto e cioè che saranno loro a cercarla per associarsi con lei: nel reciproco possibile riconoscimento e dunque nella identificazione seppure parziale con l’animale, si rivela (nel doppio senso del verbo), ma solo per un attimo, quel desiderio intimo di distanza dai propri simili che Marianne Moore ha coltivato per una vita intera. L’appartenenza di tutte le specie animali alla natura organica disegna il perimetro della comunanza che quella umana intrattiene con la fauna e in misura minore la flora (presente, seppure non con la stessa abbondanza nella sua opera). Ciò che manca nella poesia di Moore è la certezza tutta umana della superiorità, per decreto indiscutibile, di una specie sull’altra e della nostra su tutte le altre. Rispondo subito a un’obiezione, che sarà forse già sorta nel lettore: è pur sempre un occhio umano quello che osserva e una mano umana quella che scrive. L’obiezione è sensata, ma se ci si ferma a tale constatazione credo si rischi di rimanere ai margini esterni della poesia di Moore. La constatazione ha un valore nel senso di riconoscere che la specie umana ha elaborato un linguaggio con il quale sembra poter parlare e scrivere di tutto e potersi esprimere su qualsiasi argomento: tale tratto costituisce una sua caratteristica di speciazione. Tale constatazione, peraltro, non afferma nulla su come gli animali possano vedere eventualmente noi, cosa che almeno per ora ci è in larga parte preclusa. Possiamo constatare che alcune specie sono in grado di svolgere compiti che noi assegniamo loro; possiamo pure osservare che alcune domestiche sono in grado, fino a un certo punto, di interpretare il linguaggio umano,5 ma riuscire a dire veramente qualcosa su come ci vedano il cane o il gatto di casa, rimane un mistero impenetrabile: figurarsi gli altri animali! Del resto, gli antropologi sono assai cauti quando si tratta di indicare le differenze fra la nostra e le altre specie. Levi-Strauss, per esempio, propose un atteggiamento minimalista, limitandosi a constatare ciò che è visibile: per esempio, che l’animale, a differenza di noi umani, non cuoce il cibo che mangia, sebbene anche in questa materia ci siano stati esperimenti recenti con le scimmie antropomorfe che ridimensionano anche tale aspetto, ma solo limitatamente ai primati a noi più prossimi. Del resto ci sarà pure una ragione per cui tutte le religioni arcaiche nascono intorno all’animale totemico oppure al culto arboreo: la natura organica è da sempre fonte di mistero religioso e non ha mai smesso di esserlo neppure con l’avvento delle religioni positive. Ciò che colpisce nella poesia di Marianne Moore è riscoprire nel cuore di una società iper tecnologica come quella statunitense, la prima natura e la presenza animale come qualcosa di irriducibile. Moore si avvicina a questi fratelli e sorelle viventi con lo stesso ammirato stupore con cui Montaigne, si avvicinava in pieno ‘700 ai popoli lontani per tradizione e costumi dall’Europa. La cultura occidentale, con lui, scopriva l’altro umano da sé, per Moore l’altro da noi per eccellenza rimangono le specie animali diversa dalla nostra. Su questo passaggio chiave s’innesta un altro aspetto della sua meditazione intorno alla cultura di specie: quella umana ha una capacità maggiore delle altre nel rendere visibile e percepibile l’individuo, possiede cioè la possibilità d’individuazione. Sembra tuttavia di capire, dagli esempi scelti e da uno in particolare, che tale prerogativa della specie non sia fra le più notevoli per Moore. La poesia cui mi riferisco è una delle più celebri dell’intera raccolta ed è proprio questa di cui si occupa anche Wallace Stevens nel saggio dal titolo Su una poesia di Marianne Moore:6

He “digensteth harde yron” “Digerisce durissimo ferro”

/Although the aepyornis/or roc that lived in Madagascar, and/the moa are extinct,/the camel-sparrow linked/ with them in size – the large sparrow/Xenophon saw walking by a stream – was and is/a symbol of justice./…

/Sebbene l’aepyornis/o roc, che viveva in Madagascar,/e il moa siano estinti,/il cammello-passero, che è loro parente/per statura – il gigantesco passero/che Senofonte vide presso un fiume – fu ed è/simbolo di giustizia.

L’animale di cui si parla è lo struzzo: la descrizione, ancora una volta, coglie con mirabile esattezza la sproporzione fra la possanza del corpo e la minuscola testa. La combinazione lessicale cammello-passero, esattissima nel descrivere (il movimento ondulatorio della corsa dello struzzo ricorda quella del cammello), non è solo scientifica, ma predispone alla simpatia, che diviene poi empatia. Tuttavia, è il verso finale di questo incipit perentorio ad attirare l’attenzione: perché mai lo struzzo sarebbe un simbolo di giustizia? 

This bird watches his chicks with/a maternal concentration – and he’s/been mothering the eggs/at night six weeks – his legs/their only weapon of defense./…

… How could he, prized for plumes and eggs and young,/used even as a riding-beast, respect men/hiding actor-like in ostrich skins, with the right hand/making the neck as if alive/and from a bag the left hand strewing grain, that ostriches//might be decoyed and killed! Yes, this is he/whose plume was anciently/the plume of justice;…

/Questo uccello vigila i suoi piccoli/con materna attenzione – e le uova/le ha coccolate per sei settimane/anche di notte – le sue zampe  essendo/l’unica arma in loro difesa./

…. Come può lui che è pregiato per le piume, le uova e i suoi piccoli,/ed è usato persino come cavalcatura, rispettare gli uomini/che si mascherano con pelli di struzzo – muovendo/il collo con la mano destra, come se fosse vivo, e spargendo/ con la sinistra il grano che tengono in un sacco//per adescare e uccidere gli struzzi!sì,questo è l’uccello/la cui piuma era nei tempi antichi/la piuma di giustizia;…   

La nobiltà dell’animale e la crudeltà del cacciatore si confrontano in questa densa descrizione e nella scelta della piuma di struzzo come simbolo della giustizia appare quasi il nesso inscindibile e tragico fra senso di colpa e caratteristiche di specie (la nostra è onnivora con tutte le conseguenze del caso, ma è anche predatrice e calcolatrice). Lo struzzo è il solo regale esemplare di altre specie similari ma estinte, un paradosso della natura se si pensa al suo corpo.

/The egg piously shown/as Leda’s very own/from which Castor and Pollux hatched,/was an ostrich-egg….

/L’uovo indicato religiosamente/come l’uovo autentico di Leda,/da cui nacquero Castore e Polluce,/era un uovo di struzzo.

Il richiamo classico conferisce un surplus di nobiltà all’animale, ma apre le porte alla tragica conclusione.

/Six hundred ostrich-brain served/at one banquet, the ostrich-plume-tipped tent/and desert spear jewel-/gorgeous ugly egg-shell/goblets, eight pairs of ostriches/in harness, dramatize a meaning/always missed by the externalist.//The power of the visible/is the invisible; as even where/no tree of freedom grows,/so-called brute courage knows./Heroism is exhausting, yet/it contradicts a greed that did not wisely spare/the harmless solitaire//or great auk in its grandeur:/unsolicited having swallowed up/all giants bird but an alert gargantuan/little-winged, magnificently speedy running bird./The one remaining rebel/is the sparrow-camel./

/Seicento cervelli di struzzo/serviti ad un banchetto, la tenda e la zagaglia/con pennacchi di struzzo, le orrende coppe/ricavate da uova di struzzo e ingioiellate,/otto coppie di struzzi/ben bardati, danno un senso drammatico/a un simbolo che sfugge sempre ai superficiali//La potenza del visibile/ è l’invisibile; e lo sa bene/anche là dove non cresce l’albero della libertà,/il coraggio che chiamano brutale./L’eroismo è qualità estenuante ma non si oppone/a una cupidigia che non ha risparmiato/saggiamente l’innocuo solitario// o la grande la nella sua maestà:/perché l’indifferenza ha sterminato/tutti i maggiori uccelli, tranne questo magnifico corsiero,/alacre Gargantua con ali minime./quest’ultimo superstipe ribelle/è il passero cammello./

L’episodio storico cui si fa riferimento in questi versi è una cena di Eliogabalo, per preparare la quale fu sterminato un considerevole numero di struzzi. Nella poesia di Marianne Moore il modo di concepire il rapporto fra natura e cultura parte dalla considerazione che anche le altre specie animali possiedono una cultura e non semplicemente un adattamento funzionale all’ambiente che popolano, oppure un adattamento forzato, come avviene con le specie più domestiche che finiscono davvero per assumere tratti umani, almeno per quanto attiene ad abitudini, malattie e nevrosi.

Agonismo, mondo animale e umano

La biografia di Marianne Moore non contiene nulla di particolare, a parte il suo curriculum letterario e la passione per due sport come baseball e pugilato. L’eccentricità non spiega da sola tali frequentazioni e neppure le spiega del tutto l’ipotesi che avesse bisogno di un passatempo qualunque per proteggere il suo mondo interiore dalle invasioni della realtà; anche perché, nella parte finale della sua opera, vi sono testi che affrontano di petto queste passioni extra letterarie, specialmente il baseball. L’antagonismo, la sfida, appartengano assai al mondo animale e forse lei vedeva nello sport proprio questo: un aspetto della specie umana che si avvicinava alla lotta animale, mentre non era per nulla interessata alle dispute intellettuali del mondo letterario. Un testo emblematico s’intitola proprio Baseball and writing (Il baseball e la scrittura):

Fanaticism?No. writing is exciting /and baseball is like writing./You can never tell with either/how it will go/or what you will do;/…

Fanatismo? No.Scrivere è eccitante/ e il baseball somiglia allo scrivere./Per l’uno e per l’altro non si può/mai dire come andrà/o che farai/…

It’s a pitcher’s battle all the way – a duel – /A catcher’s, as, with cruel/puma paw…

Battaglia per il pitcher tutto il tempo – un duello -/battaglia per il catcher, se, con quella/sua crudele  zampata da leopardo…  

La poesia prosegue proponendo altri esempi di agonismo animale e si conclude con un vero e proprio inno a questa battaglia, che tuttavia rimane nell’ambito della rappresentazione, dove il conflitto stesso viene ad assumere un’eleganza e un suo stile:

…”Yes,/it’s work; I want you to bear down,/but enjoy it/while you are doing it”./….

/Studded with stars in belt and crown,/the Stadium is an adastrium./O flashing Orion,/your stars are muscled like the lion./

… “Sì,/ è lavoro; voglio vedervi vincere ma voglio/che la vittoria/sia divertimento”.

/Tempestato stelle nella citura e nella corona,/lo Stadio è un adastrio,/O scintillante Orione,/Ogni tua stella ha muscoli degni di un leone./7

Le ragioni di fascino di questa chiusa sono tante, prima di tutto l’analogia fra la cintura di Orione – celebrata anche nel monologo finale di Blade Runner dal replicante morente –  e uno stadio: ancor più l’adastrio, difficile da mettere a fuoco perché la parola riguarda la pallacanestro, ma anche un tipo di gatto e che si trova anche in racconti di fiction. L’insieme si traduce in una linguaggio epico assai originale.

Un altro testo assai significativo è Combat Cultural:

One likes to se a laggard rook’s high/speed at sunset to outly the dark,/or a mount well schooled for a medal;/tucked up front legs for the barrier -/or team of leapers turned aerial.//

Piace vedere il volo di un corvo attardato /che al tramonto vuol battere la note,/o un cavallo ben addestrato a vincere medaglie;con le zampe raccolte a superare la barriera -/o saltatori in gruppo fatti aerei.//

I due animali mettono entrambi alla prova i loro limiti e l’occhio umano che ne ammira le gesta è quasi invisibile. La forza di questo incipit sta nell’immagine sintetica che crea fra la solitudine del corvo proteso nella notte e il cavallo in gara, che, con una rapidissima metamorfosi, diventa prima gruppo di cavalli e poi aerei in volo. Quest’ultima immagine è l’innesco per la seconda quartina, dove la scrivente umana esce dall’ombra:

 I recall a documentary/of Cossacks: a visual fugue, a mist/of swords that seemed to sever/heads from bodies – feet stepping as though through /hatp-strings in a scherzo. However,

Io mi ricordo di un documentario/sui Cosacchi; una fuga visiva una caligine/di spade che sembravano spiccare/teste da corpi – e quei piedi, mobili/come tra corde d’arpa in uno scherzo. A me, però,/

Il richiamo guerresco evocato dalle spade dei Cosacchi avvicina gli umani a un elemento selvaggio che è certamente parte del mondo animale, ma è solo un attimo perché nella quartina successiva avviene un rovesciamento di prospettiva, aperta da quel however che sospende la scena:

the quadrille of Old Russia for me:/with aimlessly drooping handkerchief/snapped lake the crack of a whip;/a deliciously spun-out-level/frock-coat skirt, unswirled and a-droop//in remote promenade…

mi piace di più la quadriglia della vecchia/Russia: quel fazzoletto abbandonato/a caso e colto a volo in uno schiocco/di frusta;e quella gonna delirante/in un vortice e poi distesa e liscia/in una solitaria promenade …

Dalla guerra alla danza con vestiti sontuosi che sfavillano e l’immagine femminile al centro, la guerra stessa diventa simulazione. Nella parte successiva si torna alla lotta. Imprigionati in sacchi scomodi – infondo come lo sono le divise militari – i combattenti esprimono nella loro gestualità:

… “Some art, because of high quality,/is unlikely to become high sales”;

 Un’arte che, per l’alta qualità/non sarà mai merce d’alto consumo

Infine la chiusa:

 These battlers, dressed identically – /just one person – may, by  seeming twins,/point a moral, should I confess;/we must cement the parts of any/objective symbolic of sagesse.

Combattenti vestiti in modo identico – /una persona sola – ci sembrano gemelli e perciò possono,/lo confesso, indicarci una morale: noi dobbiamo/cementare le parti di qualunque/obiettivo simbolico che esprima la sagesse./

Non ho trovato altri testi in cui la lotta animale si ammanti di un richiamo alla guerra così esplicito, a cominciare dal titolo – Combat. Il concatenarsi rapidissimo di analogie conferisce a queste quartine, dalla posa così composta sulla carta, un ritmo vertiginoso. Il corvo che combatte con la notte è anche un animale che evoca sventura e infatti dal cavallo in gara si passa all’animale come strumento di guerra: l’addomesticamento e il suo uso bellico furono infatti la prima trasformazione tecnologica che diede ai combattenti la superiorità su altri. Questa poesia fa parte della raccolta Oh, essere un drago, siamo nella parte finale della sua opera poetica, successiva al 1951, l’anno in cui Moore aveva ottenuto i maggiori riconoscimenti: è un testo che risente senz’altro di lunghe riflessioni sul tema della guerra che, seppure lontana dal continente americano, aveva toccato da vicino la generazione cui Moore appartiene ed era poi continuata con la Guerra Fredda. Proprio per la sua unicità va considerato a mio avviso come un testo definitivo. Anche nella guerra è attivo un elemento estetico e Moore non lo esorcizza, ma nel monito finale emerge la necessità di saper trasformare in elemento simbolico la lotta, prima che essa degeneri in altro. Il simbolico occupa in questa poesia lo stesso ruolo che i rituali di combattimento e sottomissione hanno nel mondo animale ed è il solo strumento per la specie umana per trasformare la guerra in altro. Quando gli umani non sono più in grado di fare questo, sappiamo cosa accade; ma questo spiega anche l’attaccamento della poeta al mondo animale. In una delle sue incursioni pubbliche, ecco infatti come Moore risponde a una domanda dei suoi interlocutori su tale argomento:

Perché questo smoderato interesse per gli animali e per gli atleti? Sono soggetti ed esemplari d’arte, non credete? E pensano ai fatti loro. Pangolini, buceri, giocatori di baseball: né curiosi, né predaci – non tirano mai in lungo la conversazione; non ci mettono in soggezione; sono nella loro forma migliore quando meno ci badano…” 10

Quando lessi per la prima volta questa risposta, mi sovvenne un’immagine famosa: quella di Marilyn Monroe in compagnia del giocatore di baseball Joe Di Maggio. Nella fotografia lei cammina con un’espressione delle sue, fra lo svagato e il seducente, mentre lui le trotterella a fianco, con il suo corpo massiccio, un volto da luna piena dal sorriso francamente ebete, immagine di un tipo di sportivo che sa fare solo quello che sa fare e niente altro, incarnando una specie di perfezione del gesto o della prestazione dentro la quale si risolve felicemente tutta la sua umanità. Forse era proprio questo che attirava anche Moore: una forma di innocenza primaria, la ricerca di una verginità degli esseri viventi che lei – educata alla rigida etica presbiteriana –   spingeva oltre l’umano, oltre lo stesso peccato originale.

L’umano e la storia nella poetica di Moore

Proprio l’incursione nel mondo dello sport permette di aprire lo sguardo sul continente più misterioso della poesia di Moore: quale immagine dell’essere umano ci restituiscono i suoi versi? Per guardare all’umanità Moore sceglie pochi esempi emblematici, uno in particolare: l’istituzione che per eccellenza fa da cerniera fra personale e pubblico, fra domestico e sociale e cioè Il Matrimonio, una delle istituzioni che più allontana la specie umana dalle altre, nonostante qualunque specie abbia le proprie modalità di socialità e riproduzione della vita. Il testo, assai complesso e denso, si presenta come un vero e proprio trattatello in forma di poesia, ma è anche fortemente teatrale, con veri e propri dialoghi interni fra i due protagonisti principali. Il rifiuto radicale e irriducibile del matrimonio come istituzione è espresso in modo netto nel suo incipit, che ha la funzione di una chiave musicale che stabilisce il tono e il timbro dell’opera intera.

/This institution,/perhaps one should say enterprise/out of respect for which/one says one need not change one’s mind/about a thing one has believed in,/requiring public promises/of one’s intention/to fulfil a private obligation:/I wonder what Adam andEve/think of it but this time,/this fire-gilt steel/alive with goldeness;/how bright it shows – /“of circular traditions and impostures,/committing many spoils”,/requiring all one’s criminal ingenuity/to avoid!/Psychology which explains everything/explains nothing/…

Questa istituzione,/o forse è meglio definirla impresa,/ in ossequio alla quale/si suol dire che non bisogna mutare d’opinione/su una cosa in cui si sia creduto,/che pretende pubbliche promesse/di tener fede/a un obbligo privato:/mi domando che cosa ne pensino/Adamo ed Eva,/di  questo acciaio indorato a fuoco,/tutto lucente d’oro;/e come splende -/di tortuoso tradizioni e inganni,/che sono causa di tante rovine,/a cui si può sfuggire solamente/con tutta l’inventiva criminale!/La psicologia che spiega ogni cosa/non spiega niente,/8

La perentorietà di questi versi va considerata anche tenendo conto che si tratta di una poesia scritta nel 1923, quando movimenti di contestazione del matrimonio non erano neppure pensabili. Nella cultura anglosassone esistevano precedenti illustri fra ‘700 e ‘800, oppure in Europa a seguito della diffusione di idee anarchiche e socialiste; ma erano suggestioni che poco avevano messo radici aldilà dell’oceano. Eppure, come vedremo in certi passaggi, Moore anticipa – a modo suo – istanze femministe che appariranno negli anni ‘70. Certo, gli anni ’20 sono anche quelli definiti ruggenti e immortalati nei romanzi di Fitzgerald, durante i quali – per citare un sociologo di quegli anni: le donne che frequentavano i bar clandestini dove si bevevano alcolici non assomigliavano più alle nostre nonne – ma riguardavano una porzione di mondo che poco interessava a Moore. Inoltre, ciò che colpisce di questo incipit è l’assenza di preambolo, la poesia inizia in medias res e denuncia la lunga riflessione ed elaborazione interiore che la precede; se tutti i testi di Moore appaiono pensati e meditati a lungo, frutto di osservazioni minuziose e reiterate nel tempo, questo è certamente uno dei più meditati. In secondo luogo, la lunghezza stessa del testo e l’ampiezza dei temi trattati; tanto che lo si potrebbe definire un poemetto con una sua autonomia rispetto all’insieme dell’opera. La chiusa dell’incipit – la psicologia che non spiega nulla – è la metafora di tutto ciò che il linguaggio poetico di Moore rifiuta, a cominciare dagli orpelli che le nuove scienze umane, psicanalisi compresa, hanno costruito intorno al rapporto fra i sessi e l’eros. Definito così il perimetro entro il quale si muove il testo, Moore risale alle origini del mito biblico, chiedendosi cosa ne pensassero Adamo ed Eva del primo tentativo di matrimonio fallito. Prima di arrivare al dialogo serrato fra loro due, Moore delinea i caratteri dei due personaggi. 

… Eve: beautyful woman -/I have seen her/when she was so handsome/she gave me a start,/able to write simultaneusly/in three languages – /English, German and French – /and talk in the meantime:/equally positive in demanding a commotion/and in stipulating quiet:/”I should like to be  alone”;/to which the visitor replies,/”I should lie to be alone:(/why not to be alone together?”

… Eva: una donna stupenda -/io l’ho veduta/quando era così bella/da farmi sussultare,/capace di scrivere simultaneamente /in tre lingue diverse -/inglese, tedesco, francese – : /e di parlare nello stesso tempo;/perentoria nel chiedere emozioni/come nel contrattare la sua quiete:/ A me piacerebbe restar sola”;/cui l’ospite risponde:/”A me piacerebbe restar solo;/perché non stare soli insieme allora”?/

Eva è dunque una donna moderna che potremmo definire emancipata – tanto che forse nel nostro immaginario finisce per assomigliare più a Lilith che a Eva – ; questa parte del testo si conclude con la proposta di un patto che viene da Adamo: perché non essere soli insieme?

La descrizione di Adamo è ambivalente: Anche lui ha la sua bellezza ma è anche distressing, parola che può essere tradotta con sconvolgente (è la scelta di Lina Angioletti) ma anche con angosciante. Anche Adamo è magnifico, ma è pure un mostro mitologico, nel senso che può parlare di tutto: dalla storia, al bene e al male come se fosse lui stesso un idolo. Anche in questo passaggio Moore anticipa una critica degli atteggiamenti patriarcali maschili che sarà un tratto del pensiero femminista. Dopo la descrizione sommaria di entrambi, che verrà tuttavia ripresa in altri passaggi, inizia la drammatizzazione teatrale del loro rapporto. I due dialogano, o meglio esprimono – come se davvero  fossero soli e insieme – i loro punti di vista sull’altro e l’altra da sé, in un crescendo che si presta molto bene alla rappresentazione. Questa parte è la più complessa e densa di citazioni e rimandi interni 9

… He says:- What monarch would not blush/to have a wife/with hair lie a shaving-brush”?/…

Egli dice: Quale monarca non arrossirebbe /ad avere una moglie coi capelli/uguali a un pennello per la barba?/…

L’uomo parla come un monarca, che pretende una donna sempre in ordine e da esibire in società. Lei risponde:

… She says: “Men are monopolists/ of stars, garters, buttons/and other shining baubles”/unfit to be the guardians/of another person’s happiness”./

… Lei dice: gli uomini sono dei monopolisti di “medaglie, bottoni, giarrettiere, e altre scintillanti cianfrusaglie”.- /…

Esteriorità e feticismo hanno sempre a che fare con l’esibizione di trofei. In un crescendo che oscilla fra ironia e invettiva, il dialogo rasenta l’insulto reciproco. Il virgolettato non è un vezzo, ma corrisponde al fatto che esso avviene – in molti casi – tramite citazioni da autori assai famosi o sconosciuti, dui cui Moore si serve per disegnare un quadro che va dall’incomprensione assoluta allo stereotipo di: una moglie è una bara. 10

E ancora:

… She says, “This butterfly/This waterfly, this nomad/that has proposed/to settle on my hand for life”…

Lei dice: “Questa farfalla,/questa mosca d’acqua, questo nomade/che ha chiesto la mia mano/per farvi sopra il nido per la vita”/ -…

… He says, “you know so many fools/whoa re not artists

… Lui dice: “E tu conosci tanti pazzi/che artisti non sono …

Questi due versi sono assai sottili. Alla descrizione della propensione maschile a sistemarsi, il testo giustappone la propensione femminile a lasciarsi intortare da uomini e artisti fasulli e dal dubbio fascino. Tali crescendo paradossali s’interrompono per nuove descrizioni che fanno da contrappunto al non dialogo fra i due contendenti. Assai significativa questa descrizione di entrambi:

 … he loves himself so much,/he can permet himself/no rival in that love

… egli ama se stesso a un punto tale/che in questo amore non si può permettere/ alcun rivale./

…. She loves herself so much,/she cannot see herslf enough – a statuette of ivory on ivory/the logical last touch/to an expansive splendor/arned as wages for  work done

 … lei ama se stessa a un punto tale/ – statuetta d’avorio senza avorio,/ultimo tocco logico/al dilatarsi di uno splendore/guadagnato in mercede di un lavoro compiuto/. ..

Le due forme speculari di narcisismo dimostrano come Moore non ignori affatto la complicità femminile che si offre allo sguardo maschile come orizzonte esclusivo della propria identità negata.  Inseguire tutti i passaggi del testo ci porta in un dedalo di immagini a volte molto efficaci in altre meno, ma la sintesi è evidente in questo passaggio che introduce il finale:

… “Everything to do with love is mystery; it is more tha a day’s work/to investigate this science.”/One sees that  it is rare -/that striking grasp of opposites/opposed each to the other, not to unity,/

… “Tutto ciò che ha a che fare con l’amore/è mistero; e non basta un giorno solo/ad esplorare a fondo questa scienza”./Ci si accorge quanto sia cosa rara – /quel bizzarro insieme di contrasti/opposti l’uno all’altro, non all’unità/ …

Nessun cedimento al mito della complementarietà, magari con il tramite della procreazione e dell’invito cristiano a moltiplicarsi. Quella che Moore mette in scena è un’opposizione irriducibile che solo l’istituzione coatta del matrimonio cerca di ridurre. Al testo, aggiungerei un elemento extra testuale che, tuttavia, alla radicalità dei versi rimanda: la coerenza della poeta statunitense, tanto da apparire come una moderna e sorprendente figura virginea, o una paradossale Persefone, come la definisce Laura Cantelmo nel saggio già citato. Etica ed estetica sembrano combaciare in lei come una sfida aperta al romanzo famigliare, che sarebbe facile tentazione costruirle intorno, esistendone tutti gli elementi, a cominciare dal suo rapporto esclusivo e simbiotico con la madre. Eppure, il farlo sarebbe una scelta del tutto errata. Ogni tentativo di costruire intorno a Moore un’aneddotica, s’infrange contro un muro elastico che è fatto d’ironia e auto ironia. L’immagine che ci ritorna indietro, quanto più si voglia indagare nelle pieghe della sua biografia, è quella della Sfinge; ma una sfinge sempre pronta a sorridere, seppure da una distanza irriducibile per l’interlocutore.

Le note e l’attività editoriale

La lettura delle note permette di reperire le fonti delle molte citazioni e suggestioni, quasi sempre spiazzanti, certamente poco riconoscibili anche da chi possiede una cultura discreta. Esse sono la testimonianza dei suoi vasti interessi, prima di tutto scientifici. La letteratura non ha una presenza preponderante: i nomi più ricorrenti sono quelli di La Fontaine, Henry James e Anatole France, qualche citazione da Shakespeare; oppure i classici come Senofonte ed Erodoto. Si coglie una certa propensione per la cultura francese, ma filtrata dall’opera di autori poco di moda, seppure grandi; l’interesse per l’Italia è altrettanto presente, seppure in forma minore. Molti sono i riferimenti alla pittura e ai pittori, non sempre famosi, a parte Giorgione, Dürer e Leonardo da Vinci; ma, specialmente, il suo interesse  è rivolto alle riviste e, in particolare, quelle allegate ai grandi quotidiani americani, oppure illustrate, che si occupano di flora e fauna. Amava molto la divulgazione, sia quella alta sia quella più popolare. Nella breve introduzione alle note, scritta da lei stessa, Moore afferma fra l’altro:

 … Ma poiché in tutto ciò che ho scritto vi sono versi in cui il nucleo più interessante è preso in prestito, e non sono ancora riuscita a liberarmi di questo ibrido metodo di composizione, mi sembra semplicemente onesto dar conto delle mie fonti.11

Il corredo di note è quanto mai eclettico e vasto, ma sarebbe errato attribuirle una forma di citazionismo. Prima di tutto, come lei stessa afferma, il suo è uno scrupolo dettato da onestà intellettuale. L’affermazione va presa alla lettera, ma c’è un elemento in più da prendere in considerazioe e cioè il valore che per ha per lei l’analogia, o l’immagine che una semplice parola o una citazione le susciatano. In alcuni casi tali parole non vanno considerate nel loro contesto perché non esiste una vera teorizzazione a monte o a valle che giustifichi il prelievo: sono semplici spunti che innescano la sua immaginazione.

Infine la sua attività editoriale, che fu assai significativa per gli autori che tenne a battesimo. La casa editrice Dial Press fu fondata addirittura nel 1840, ma il periodo che interessa è quello che inzia nel 1929, quando la rivista diventa lo strumento di maggiore influenza nella diffusione della letteratura modernista nei paesi di lingua inglese. L’anno di svolta fu il 1920, quando Scofield Tahyer e James Sibely Watson rifondarono the Dial come rivista letteraria. Furono loro a pubblicare William Butler Yeats e specialmente The Waste land di Eliot negli Usa. Dal 1920 al ’23 Ezra Pound fu il corrispondente estero di riferimento. Nel solo primo anno di pubblicazione troviamo i massimi autori contemporanei, fra cui lei stessa. Fra gli autori troviamo pure Bertrand Russell perché la rivista propose una saggistica che andava oltre lo stretto carattere letterario, occupandosi di cultura in senso lato con una forte predilezione i saggi sulla pittura contemporanea; infine corrispondente dalla Germania fu Thomas Mann e Hugo von Hofmansthal da Vienna. Nel 1926, da collaboratrice, Marianne Moore ne divenne la direttrice insieme a Watson. 

Per concludere

Come collocare Marianne Moore nella letteratura statunitense del ‘900? Nel suo caso è assai più difficile ricostruire una genealogia: il dato biografico può avvicinarla a Emily Dickinson, mentre il suo verso lungo ha ragioni differenti da quello di Whitman ed è assai più controllato di quello a volte troppo debordante del Bardo statunitense. La natura è certamente presente anche in Dickinson, ma non nel senso grandioso che assume in Moore: il dato scientifico, peraltro, è troppo novecentesco per risalire troppo alla tradizione, se non nel senso dell’eclettismo già ricordato dei riferimenti cui Moore ricorre.  Una seconda questione riguarda le istanze femministe e la critica al patriarcato che qui e là e specialmente in Il matrimonio sono presenti nella sua opera. Quale fu l’atteggiamento di Moore nei confronti dei movimenti degli anni’60, che lei di certo conobbe poiché negli Usa iniziarono ben prima che nel contesto europeo? La domanda suona retorica e la risposta è scontata: se ne tenne a distanza. Rifiutò per se stessa il matrimonio, con una determinazione che non ammette repliche, ma vi è una nota aristocratica nel suo passare nel mondo come una monaca senza ordine monastico, capace di costruire intorno a sé il proprio eremo, senza alcun compromesso possibile. In questo rimane profondamente statunitense e individualista. Fu una donna libera nel difendere e preservare le sue scelte, ma la dimensione collettiva e sociale non le apparteneva. Anche tale atteggiamento affonda le sue radici nella filosofia individualista e trascendentalista statunitense, rigorosamente bianca, che ha in Ralph Waldo Emerson il padre e – almeno per una prima fase – anche David Thoreau, che poi di distanziò dal suo maestro con il saggio sulla Disobbedienza civile e la netta opposizione allo schiavismo. Per queste ragioni e per stile personale di vita, Moore non poteva che essere lontana dagli eccessi verbali e comportamentali degli anni ’60 e ’70. Seppe riconoscere in alcuni casi il talento di chi era molto distante da lei: infatti, fu severa nei confronti di Allen Ginzberg, ma lo pubblicò nella rivista Dial, riconoscendo in lui la sola voce veramente significativa di quei movimenti. 


4 Marianne Moore, Poesie, a cura e traduzione di Lina Angioletti,  pp.256-7

5 Recentemente si sono compiuti esprimenti opposti con le scimmie antropomorfe: alcuni uomini e donne si sono chiusi in gabbia insieme a loro, comportandosi nello stesso modo e imitandoli. Pare che uno degli effetti, dopo la sorpresa, sia stata una grande ilarità da parte delle scimmie.

6 Il saggio di Stevens in cui scrive di questa poesia si trova in L’angelo ncessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum. Il testo di Marianne Moore si trova in Marianne Morre, Le Poesie, traduzione acura di Lina Angioletti, Adelphi  Milano 1981 pp.204-5.

7 Op.cit. pp. 419-23.

10 Questa citazione è riportata anche nel libro di Adelphi come esergo al saggio di W.H. Auden sulla poesia di Marianne Moore, alla pagina 521. L’originale inglese si trova nella Prefazione al libro A Marianne Moore reader, New York, 1961, p. XVI.

8 Op.cit. 135-49.

9 Ivi.

10 Sul significato delle note e delle citazioni in Moore rimando a un capitolo successivo.

11 Op.cit. pag. 460.


1 Una parte del saggio che segue è stato pubblicato sul numero 17 della rivista Smerilliana del 2015. In tempi successivi ad esso, le nuove e ripetute letture del testo mi hanno permesso di cogliere valenze che erano state lasciate in secondo piano, in un certo senso fagocitate dal Bestiario della poeta, che certamente costituisce uno dei motivi di maggior fascino della sua opera. Pur rimanendo centrale anche nelle letture successive, esso va posto in relazione ad altre problematiche e in particolare riferita al tema del rapporto fra animali e specie umana, che è infondo un altro del grande mistero e fascino di questo testo.

2 Laura Cantelmo, Il mondo in una stanza  in Con la tua voce, a cura di Gabriela Fantato e nota critica di Maria Attanasio, La vita felice, Milano 2010. Il saggio è stato ripubblicato anche sulla rivista online Overleft.

3 T.S. Eliot, Il fascino di un microscopio: in Marianne  Moore, Poesie, Taduzione di Lina Angioletti, Adelphi, Milano, 1991, pag. 518

LE VITE IMMAGINARIE, I MIMI E I DIALOGHI CON LEUCÓ

Premessa

Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Il cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo ora nel blog con qualche modifica.

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo, per esempio, è stato nell’immaginario collettivo, più importante di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge.

Le vite immaginarie e I mimi di Marcel Schwob fanno parte di quest’ultima categoria. Le opere risalgono alla fine dell”800, in un’epoca di svolta della storia europea, quando cominciava a profilarsi quella crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera che ricorda il Giano del mito classico. Esse hanno lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca; tuttavia le loro radici profonde affondano nella classicità. Esse richiamano alla memoria, nel titolo, le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi 1.

Allo stesso modo I mimi, opera certamente meno celebre della prima ma non per questo minore, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: che la verità di una vita stia nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca spasmodica del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare “al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale”2. Affermazione sorprendente, se ci pensiamo bene; perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte e cioè la ricerca dell’universalità. In realtà, la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune. Rispetto all’avvento di una società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma del suo contrario.

Canone e anti canone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe, la più diversa fra tutte, rispetto alle altre sue, sebbene una traccia di continuità si possa riscontrare nel riferimento al mito come fonte d’ispirazione. Pavese era un conoscitore profondo e acuto delle opere di Károly Kerényi e di altri studiosi, ma I dialoghi sono opera letteraria, governata da una tensione dialogica che rimanda al teatro.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quelli immortalati dagli scrittori più celebrati del ‘900, ma dagli effetti dirompenti, a tanti anni di distanza.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e dicendo questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjant subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione del personaggio: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni d’inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure altri che come la Deledda in Italia, continueranno imperterriti nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista.

Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto, i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiamo alla struttura sotterranea rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico d’ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo, però, Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto e il premio è la gloria. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro.

Pavese segue un percorso diverso. Egli cerca, nelle pieghe del mito, la risposta al mistero, si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, si pone l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata … Orfeo gli risponde: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla”3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. 4.

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.5.

Parole straordinarie e quanto mai attuali in una società che vive sospesa fra il paese dei balocchi e la guerra di tutti contro tutti. L’illusione dell’orgia continua, della festa perenne, di un’ansia dionisiaca selvaggia, nascondono il delirio di onnipotenza; occorre il senso del limite, ma questo non cancella la necessità di accettare quella sfida. È necessario, oggi come ieri, scendere nel proprio inferno; la consapevolezza nasce dall’incontro con il limite, il canto è ancora una volta la risposta. Il paradosso di Pavese emerge qui in tutta la sua forza: il ricorso al mito è indispensabile anche se non gli si può più credere alla lettera. Esso apre ancora, come sempre, le porte alla sublimazione simbolica: senza quest’ultima vi è soltanto il pendolo depressivo che oscilla fra le esaltazioni dell’orgia o gli agiti, nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine.

Il maestro e gli allievi

Schwob, per ragioni anagrafiche, va considerato il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900; ma il suo esempio è tutt’altro che solitario. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges, che gli attribuisce un ruolo primario come ispiratore:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve qualcosa.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. In altre culture letterarie ha pesato meno che da noi il pensiero negativo. Tuttavia, sempre Schwob, ci dimostra come fosse possibile un’interpretazione diversa da quella letterale della morte di dio, così come appare nello Zarathustra nicciano. Anche i suoi Mimi prendono spunto dalla morte di Pan (così s’intitola proprio l’ultimo dei racconti dell’opera), ma egli non ne tira le conseguenze filosofiche. Pur prendendo atto della fine egli rilancia il mito come narrazione: ritesse la tela assumendo la maschera di personaggi inventati ma plausibili che ci offrono vie d’uscita laterali; Pavese, in fondo farà, a modo suo, la stessa cosa.

Nel ‘900 e dopo Nietzsche, invece, il mito come narrazione è sostituito dal concetto filosofico di mito; si parlerà, per esempio, in modo del tutto improprio, di mito del superuomo, espressione – questa – che contiene più di un’imprecisione.

È ipotizzabile un’influenza diretta di Schwob su Pavese? La voluminosa antologia della critica pavesiana non ne parla: né Givone né altri, che si sono occupati in modo particolare dei Dialoghi con Leucò vi accennano. Soltanto Roberto Speziale lo fa di sfuggita nella quarta di copertina de I Mimi 6

Bisogna però considerare che la fortuna di Schwob in Italia è recente. Introdotto dagli Adelphi, il libro ha vissuto una fortuna limitata alla cerchia dei francesisti e poco più. Rilanciato dalle traduzioni recenti dalla casa editrice Azimut e oggetto di nuove attenzioni è stato di nuovo proposto dalla casa editrice Adelphi, ma ci troviamo sempre in un ambito ristretto. È difficile ipotizzare una conoscenza diretta da parte di Pavese della sua opera, ma di certo lo scrittore delle Langhe conosceva Borges e può essersi imbattuto nel suo giudizio su Schwob.

Forse, semplicemente, accade che scrittori anche lontani e indipendenti l’uno dall’altro, fiutino nell’aria le stesse atmosfere o le stesse necessità e diano risposte analoghe. C’è un’aria di famiglia che si avverte leggendo questi tre libri, le loro diversità non cancellano quel sentire comune che li percorre. La ragione del loro fascino può essere rilanciata oggi perché il contrasto evidente fra un razionalismo positivista imperante, di carattere puramente tecnologico, cui fa da contraltare un agito che salta la mediazione del simbolico, ci stanno portando in un vicolo cieco. Queste opere ci ricordano che il simbolico esiste e che è necessario per vivere, non per intrattenerci. Nel nostro mondo postmoderno, una vulgata largamente diffusa ritiene che ogni narrazione sia divenuta impossibile perché tutto è alla luce del sole, verificabile, documentato, senza mistero. Il narrare, in tale contesto, non può che essere sempre più confinato in generi: il giallo, la fantascienza ecc..

Quale sciocca miopia! Faccio tre semplicissimi esempi che smentiscono questa illusione ottica. Negli Stati Uniti d’America, secondo decine e forse centinaia di migliaia di persone Elvis Presley non è morto nella data indicata dai suoi biografi e forse per alcuni è ancora vivo! Sempre nella patria della tecnologia più avanzata un’alta percentuale di statunitensi, dopo aver visto il film Capricorn one, si convinse che gli astronauti non erano mai sbarcati sulla Luna, ma che quell’evento non fosse altro che un’ingegnosa messa in scena hollywodiana girata nel deserto del Nevada. Infine l’Italia: in occasione del decennale della morte di Moana Pozzi, abbiamo assistito a seri programmi televisivi in cui commentatori tutt’altro che sprovveduti, avanzavano più di un dubbio sulla sua morte. Se per avventura rimanessero solo questi documenti e testimonianze, fra le poche cose conservate della nostra civiltà e fra mille anni capitassero nella mani di colonizzatori extraterrestri, Elvis Presley e Moana Pozzi verrebbero considerati eroi come Achille e Cassandra, mentre l’avventura lunare statunitense rientrerebbe nella infinita catena di narrazioni sull’argomento: dalla Storia vera di Luciano di Samosata, passando all’Orlando Furioso e via di seguito.

Del mito inteso come narrazione fantastica non si può fare a meno perché esso contiene una verità che non può essere detta degli storici. Non si tratta naturalmente di sostituire una ricerca di verità a un’altra, di attribuire a queste avventure dello spirito lo stesso rango. La razionalità storica, la cura certosina della ricostruzione minuta e documentaria parla alla nostra ragione, la narrazione fantastica parla al nostro inconscio: abbiamo bisogno di entrambi. Le commistioni indebite, le confusioni e quant’altro, hanno spazio proprio nei momenti storici in cui la pari dignità fra questi modi di cercare la verità viene cancellata e repressa. Nascono allora gli apprendisti stregoni che mescolano tutto con tutto arbitrariamente, invadendo i campi degli altri perché non riconoscono più il loro; oppure perché costretti da una cultura che riconosce solo certi statuti e percorsi, tendendo a eliminarne altri.


1 Marcel Schwob, Vite immaginarie, prefazione dell’autore, traduzione di Cristiana Lardo, Azimut editore, Roma 2005, p.9

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4.Ivi, p. 77

5.Ivi, p.79

6 Marcel Schwob, I mimi, a cura di Roberto Speziale, :duepunti edizioni, Palermo 2006.


 

 

 

OLTRE IL NULLA, VIVERE POSTUMI! CATASTROFE E DESIDERIO IN CORMAC McCARTHY. Prima parte

Premessa

IN MEMORIA DI CORMAC MCCARTHY

La sintassi cinematografica come stile

Nella Trilogia della FrontieraOltre il confine, Cavalli selvaggi, Città della pianura –  McCarthy inizia il suo corpo a corpo con la cinematografia e lo fa rendendo feroce e prosaica l’epopea del West, attaccando dunque la rappresentazione edulcorata fornita dal cinema hollywoodiano, con una parola che descrive fino al dettaglio più crudo, come avviene in questo passaggio tratto da Meridiano di sangue:

A ciascuna di quelle piccole vittime, sette anzi otto, era stato fatto un buco nella mandibola ed erano stati appesi per la gola ai rami spezzati di un mesquite. Fissavano senza occhi il cielo nudo. Calvi e pallidi e gonfi, come larve di un essere inimmaginabile…”. 1

Vi è un personaggio chiave che riassume in sé tutti gli altri della trilogia: quello del giudice, sempre in Meridiano di sangue.

Egli è un uomo che può infarcire i suoi discorsi di citazioni letterarie, addirittura tratte dai Vangeli o dalla Bibbia e che guarda il mondo degli umani dall’alto, come un eroe tragico dell’antichità. In realtà, è un capobanda che raduna intorno a sé, sbandati di ogni genere. Ambientato nella seconda metà dell’800, nella zona di confine fra Usa e Messico, il romanzo si basa su un ampio corredo di documenti ufficiali. Le azioni compiute della banda non servono alcuna causa, sono semplicemente l’espressione di una crudeltà che non ha scopi e non ne vuole avere, se non quello del proprio potere sadico sugli altri e del bottino. La conquista della frontiera diviene qui un puro avanzare e saturare lo spazio, occupare il territorio, distruggerne ogni cultura precedente, a cominciare da quella dei nativi, fondarvi una legge che coincide e s’esaurisce soltanto nella quantità di violenza e di terrore che è in grado di sprigionare 2

Vi è un secondo modo altrettanto importante di rapportarsi al cinema: la scelta stilistica di asciugare il più possibile il linguaggio, depurandolo da ogni effetto speciale per raggiungere un registro anti eroico, ma diversamente epico. Il brano che segue è tratto dal primo dei suoi romanzi, Il buio fuori:

Ormai intorno al carro si accalcavano diverse centinaia di persone, e tutti parlavano in un brusio crescente. Il sole era esattamente sopra di loro. Sembrava appeso lassù in un’abbagliante immobilità, come se si fosse fermato, forse sorpreso di vedere ancora sulla terra quei pupazzi di fango che ci erano stati messi tanto tempo prima. Gli uomini sulla passerella avevano cominciato a sfilare davanti alla porta, qualcuno in punta di piedi, per andare a vedere i resti nel cassone del carro.”3

In questa scena, una prima protagonista è la folla di uomini e di donne che s’avvicina a un carro, sul quale è successo qualcosa; è la situazione tipica che si crea dopo un incidente, oppure sulla scena di un delitto. Il secondo protagonista è il sole. Esso è appeso, abbagliante, immobile, sorpreso. Ognuno di questi aggettivi, anche i due più apparentemente ovvi come il secondo e il terzo, non lo sono affatto se consideriamo l’intera sequenza. L’ultimo, inoltre, accoppiato al primo, fa scattare una dilatazione di senso. Il sole può essere appeso e sorpreso soltanto se diventa metafora e questo si chiarisce meglio nel prosieguo del brano, laddove prende vita una doppia metamorfosi. La prima è quella di cui è oggetto, implicitamente, il sole stesso, la seconda riguarda le centinaia di persone. Questa doppia trasformazione, da sole a dio e da persone a pupazzi di fango, crea un corto circuito. Il sole, scrive McCarthy, era esattamente sopra di loro. Questa ulteriore descrizione chiarisce meglio perché esso è appeso. Chi può vedere in questo modo e da dove si può vedere in questo modo? L’esperienza di essere esattamente sopra gli altri, a meno di non ritenersi dio stesso, presuppone che esistano, le alte torri, i grattacieli e le macchine da presa appese al loro cavalletto. Il sole-dio, in realtà, è dunque un sole-dio-torre-macchina da presa; quest’ultima riprende dall’alto tutta la scena, come avviene in un set cinematografico. La moltitudine che s’avvicina al carro, invece, è fatta di uomini-pupazzi di fango.

L’asimmetria accentua l’ironia, implicita nel designare la specie umana con un’espressione che ci riporta al testo biblico. Se, infatti, natura (il sole) e tecnica (la macchina da presa come espressione moderna della capacità umana di costruire protesi e utensili) possono mutare e mostrarsi sempre in ogni tempo storico con eguale potenza e come sfingi indecifrabili che osservano dall’alto – al pari di dio – le vicende umane, cioè i pupazzi di fango rimangono quelli che sono ed erano. L’unica differenza percepibile fra natura e sviluppo della tecnica (dalle torri alla macchina da presa), è l’immutabilità dei processi che le riguardano, prerogativa quest’ultima che entrambe spartiscono con la divinità.

Cosa vogliono rappresentare queste poche righe così intense e dense? Un dio stanco degli esseri umani o una semplice trasposizione della finzione letteraria del narratore onnisciente ottocentesco nei nuovi abiti di una macchina da presa totalizzante? Fatto sta che questo brano così apparentemente semplice ci svela da subito (siamo all’inizio del suo percorso letterario), uno degli elementi costitutivi della cifra stilistica di Cormac McCarthy: il suo particolare rapporto con l’immagine e con il cinema.

Naturalmente ci sono altri aspetti decisivi, qui già in atto, che il romanziere riprenderà in ogni sua opera: la reciproca indifferenza fra natura e storia, dove la prima è una sfinge (il richiamo a Leopardi è d’obbligo), risplende spesso di una bellezza abbacinante e vive di una vita propria di cui anche gli esseri umani fanno parte, ma – si direbbe – non più in una posizione privilegiata.

Nello stesso romanzo, alcune pagine più avanti abbiamo una seconda modalità stilistica che si richiama al cinema:

Prenditi un sedia, la invitò una donna.

Grazie.

L’altra era presso la stufa, e attizzava il fuoco rivoltando le ceneri grigie e smorte. Non sei sposata? Chiese.

No signora.

…………..

Dov’è tuo figlio?

Come?

Ho detto dov’è tuo figlio.

Non ne ho.

Il bambino, il bambino cantilenò la vecchia.

Non c’è nessun bambino.4

Le peculiari caratteristiche di questo dialogo balzano subito all’occhio: mancano le virgolette che solitamente delimitano un dialogo dall’altro. Le parole delle due donne scorrono in contemporanea alle azioni compiute dalla terza donna che si trova nella stanza. Movimento e parola non possono essere scisse l’una dall’altra, la loro mescolanza e la contemporanea eliminazione di quasi tutti gli accorgimenti più propriamente specifici della scrittura narrativa, alludono ancora una volta al cinema e anche, nel caso specifico in modo più evidente, trattandosi di una scena che avviene in un interno, al teatro rappresentato sul palcoscenico.

Se la scrittura narrativa di McCarthy è fin dalle origini impregnata di teatralità e di suggestioni cinematografiche, corre subito l’obbligo di dire in che modo lo sia, tema assai rilevante dal momento che anche molta narrativa contemporanea, specialmente italiana, s’ispira abbondantemente alla tecnica cinematografica5.

Come abbiamo visto McCarthy inizia il suo percorso ripensando al mito della frontiera, sfidando perciò il cinema statunitense proprio sul genere western, il più hollywoodiano per definizione, ancorato inoltre a quel segmento della storia degli Usa che affonda le sue radici in un mito tipicamente moderno.

In secondo luogo McCarthy accoglie della grammatica e della sintassi del cinema tutto ciò che può rendere ancora più essenziale la scrittura, togliendole ogni orpello non necessario o di gratuito ammiccamento al lettore.

Basta questo per indicare la differenza che separa il suo modo di accostarsi al cinema rispetto alla deriva contemporanea, dove si cerca d’imitarne gli effetti speciali.6 La Trilogia trova in due altre opere un completamento e uno spostamento al tempo stesso. La prima, Sunset limited, è più o meno contemporanea a La strada (mi riferisco alla stesura non alla data di pubblicazione in Italia delle due opere). La seconda, ma in realtà precedente, è Suttrie, del 1979.

Sunset limited è un’opera teatrale che ha come protagonisti un bianco (nichilista) e un nero, che lo ha appena salvato da un tentativo di suicidio sotto il treno Tramonto limitato, traduzione letterale e quanto mai significativa del titolo inglese.

Suttrie, invece, è il nome di un uomo che, dopo avere abbandonato una vita borghese di agi e anche i suoi tormenti religiosi, decide di vivere in riva a un fiume, in una capanna abbandonata. La sua compagnia sono gli animali che abitano il corso d’acqua e i suoi dintorni; non quelli più domestici, bensì i più primitivi: insieme a loro una pletora di sbandati di ogni tipo, compreso il buffo, paradossale e strampalato Harrogate, una figura a metà strada fra animalità selvaggia e umanità, che riecheggia nel nome la parola Arrogance. Nel fiume, nei suoi detriti, in coloro che ne abitano le sponde, sembra riversarsi, come in un grande lavacro, tutta l’epopea americana. Alle origini della narrativa statunitense troviamo infatti un fiume, Il Mississipi quello su cui Hukleberry Finn compie le sue avventure e diventa adulto. Huck Finn è il romanzo di formazione per eccellenza dei coloni bianchi ed è certamente un romanzo solare e aperto, sul futuro positivo, di chi ha un mondo davanti a sé da esplorare. Da questo mondo erano naturalmente esclusi i neri e i nativi. In Suttrie sembra compiersi un destino: il fiume non è più fonte di vitalità ma piuttosto un rifugio e  una discarica.

Sunset limited

Con i romanzi Questo non è un paese per vecchi e successivamente con La strada  McCarthy abbandona il West e compie un balzo temporale di duecento anni. Il primo dei due, tuttavia, non riesce a mio avviso nell’intento perché troppo didascalico: la trasposizione del paradigma della crudeltà dalla conquista dell’ovest all’America contemporanea risulta un po’ forzata, espressione di una tesi troppo precostituita, anche se plausibile da un punto di vista sociale.


1 Cormac McCarthy Meridiano di sangue, traduzione di Einaudi, Torino

2 Con il giudice, lo scrittore crea con lui un personaggio anti eroico, ma individuando una strada radicalmente diversa da quella seguita da larga parte della narrativa novecentesca europea. Quest’ultima, infatti, ha cercato fino all’estenuazione l’irrisione e la parodia: ha sì smitizzato l’eroe, ma ha finito per rinchiudersi nella dimensione di un disperato nichilismo, a volte sarcastico, più spesso semplicemente irridente.

3 Cormac McCarthy, Il buio fuori, traduzione  di Raul Montanari, Einaudi, Torino 1999, pp. 73-4

4 Op. cit.pag.96.

5 Per un lungo periodo di tempo dopo la sua nascita, la settima arte ha saccheggiato la letteratura, facendo di alcuni grandi romanzi, il soggetto ideale per sceneggiature e film. Per alcuni di essi si è trattato di una vera e propria apoteosi: sono diciannove (otto delle quali in Italia), le pellicole che hanno per soggetto I miserabili di Victor Hugo, per non parlare di Guerra e pace, di Anna Karenina, dei Promessi sposi. La narrativa, maggiore o minore che fosse (pensiamo anche a I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, La cittadella ecc. e così via), è stata un serbatoio inestinguibile.  La televisione, quella italiana con la gloriosa tradizione degli sceneggiati, curati da registi di prim’ordine e attori altrettanto prestigiosi, fu in passato uno strumento d’indubbia promozione del gusto letterario, nutrendo una generazione intera e influendo anche sulla vendita dei libri. Era abbastanza normale, poi, per i registi, rivolgersi agli scrittori per le sceneggiature. Tutto questo fino alla fine degli anni ’60. Dal decennio successivo in poi si assiste a un movimento in senso contrario, che raggiunge in tempi recentissimi il suo culmine. È il romanzo a rifarsi sempre più spesso al cinema e sono sempre più rari invece i registi che collaborano con scrittori: le coppie Cerami-Benigni e Handke-Wenders sono eccezioni, quello di Cristina Comencini, scrittrice e regista, un altro caso a sé. Il primo in Italia a scrivere un romanzo con una tecnica molto vicina, forse troppo, alla sceneggiatura, fu Pasolini, con Teorema, nel 1969. Lo stesso Pasolini, con Petrolio, si accingeva ad approfondire quella strada con ben altra consapevolezza, purtroppo interrotta tragicamente dal suo assassinio. Anche il nouveau roman francese, tuttavia, in anni precedenti, si era avvicinato al cinema. L’ècole du regard si poneva, infatti, come una poetica capace d’influenzare sia la narrativa sia la tecnica filmica: Jean-Luc Godard fu al tempo stesso un convinto assertore di quella poetica, ma anche colui che la sviluppò portandola fino all’esasperazione. Anche certe descrizioni estranianti del primo Le Clézio risentono di tali influenze e lo stesso si può dire del Calvino di Palomar.  La narrativa di McCarthy rientra in questo percorso di avvicinamento al cinema, senza per questo ipotizzare un’influenza diretta da parte dell’ècole du regard o altri su di lui, anche perché i segni distintivi che lo rendono diverso sono troppo forti e decisivi.

6 Non parlo dei prodotti più dozzinali e di consumo che poco hanno a che vedere con la scrittura letteraria, mi riferisco, come esempio, a un solo romanzo altrettanto recente perché fra tutti è certamente il più dignitoso e il suo autore uno scrittore fra i migliori della sua generazione: il primo capitolo di Caos calmo di Sandro Veronesi. Il crescendo che lo contraddistingue sembra essere preso di sana pianta dalla sequenza di venti minuti del primo Indiana Jones (non ha alcun’importanza che i temi siano diversi, anzi è un’aggravante.) L’effetto di tale ritmo incalzante sul lettore è quello di togliergli sì il fiato, ma arrivati alla fine, l’insieme dei fatti narrati, la concatenazione degli stessi, assomiglia troppo al cliché del film d’azione e questo toglie tragicità alla morte di Lara, con cui il capitolo si conclude. Ne abbiamo viste a iosa di queste sequenze, ciò che conta è il paradigma. In Indiana Jones, dopo una serie di fughe, ammazzamenti, colpi di scena, acrobazie d’ogni genere, citazioni d’altri film, quando tutti sono finalmente sull’elicottero, accade che un finto serpente ricrei un momento di tensione ulteriore; si tratta, però, di uno scherzo (come se fosse normale scherzare in quel modo dopo una decina d’ammazzamenti e quant’altro), che getta una luce ironicamente retrospettiva su tutto ciò che è stato visto in precedenza. Era tutto uno scherzo, non soltanto quella parte finale, siamo dentro i recinti prestabiliti del genere avventuroso e con quella scena Spielberg ce lo ricorda; infatti, egli non vuole certamente proporci un film tragico. Veronesi, invece, lo vorrebbe, ma la sequenza è talmente sovraccarica di colpi di scena che essa alla fine risulta tragicamente falsa, un escamotage che serve a traghettare il lettore verso il secondo escamotage: la scelta di Paladini, che decide di vivere nella sua automobile parcheggiata davanti alla scuola della figlia Claudia. Da questo secondo escamotage, si approda al terzo, (l’incontro con la donna salvata in mare, con prevedibile scena di sesso in differita.) Nel mezzo si ha la sensazione che il romanzo proceda solo in attesa della scena madre successiva e che gli altri incontri, molti dei quali scontati peraltro, servano a riempire un vuoto.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Prima parte

Il denaro nelle rappresentazioni letterarie.

Introduzione

Il testo che ripubblico in questo blog, fa parte di un libro collettivo intitolato L’ideologia del denaro, tra psicoanalisi, letteratura e antropologia, a cura di Adriano Voltolin, edito da Bruno Mondadori. Il lavoro nacque all’interno del percorso di studio della Società di Psicoanalisi Critica. Il volume contiene saggi che affrontano la tematica del denaro da diversi punti di vista. Quello che spettava a me, come ambito di mia competenza era la presenza del denaro nella letteratura, un tema vastissimo e che tuttavia, non potevo affrontare senza entrare un poco nel merito dello specifico economico, anche perché uno dei testi da me presi in considerazione e cioè Il canto dell’Usura di Ezra Pound è sorprendente proprio per la capacità del poeta di rendere poetica una materia che sembra rifuggirne. Anche per questa ragione lo ripropongo nella rubrica Critica del pensiero unico e non in quelle più legate alla letteratura in senso stretto.

Del testo originale non ho cambiato nulla perché mi sembra quanto mai attuale. Tuttavia, all’inizio della premessa, esso contiene una rapida frase sul nesso fra baratto ed economia monetaria, che non mi sento più di sottoscrivere in quella forma sbrigativa. Mi sono convinto di ciò dopo avere letto due libri recentissimi che, facendo riferimento ad altrettante ricerche antropologiche sul campo, non ancora disponibili quando questo saggio fu scritto, hanno messo in discussione diversi luoghi comuni intorno alle questioni economiche, fra cui proprio la questione assai annosa del baratto. I due libri in questione sono L’alba di tutto di David Graeber e David  Wengrow (di cui in questo blog si trova già una breve presentazione)  e Il debito gli  ultimi 5000 anni di David Graeber. Infine, data la lunghezza del saggio, l’ho diviso in tre parti, lasciando l’ampia bibliografia alla fine della terza parte.         

Prima parte.

Premessa

Del denaro, della sua penuria o abbondanza, si parla e si scrive da sempre; soltanto la guerra e l’amore occupano uno spazio più ampio in letteratura. Dal momento in cui la circolazione monetaria sostituì il baratto, quanto d’arcano la contraddistingue ha occupato le menti e i cuori e fatto scorrere le penne sulla carta. La letteratura in materia è sterminata e occuparsi di tale argomento richiede prima di tutto, che si delimitino i binari entro i quali condurre un’esplorazione qualsiasi.

Mi sono ispirato a due diversi ordini di necessità: il primo è l’aderenza ai tempi in cui viviamo. La crisi capitalistica mondiale rende di bruciante attualità i discorsi sul denaro: se ne parla ovunque come mai di recente era accaduto, l’economia entra nelle case e nella vita quotidiana di tutti, sconvolge ordini sociali e famigliari; tutto questo pone un’esigenza di concretezza. Il primo criterio, dunque, è proprio quello di partire da ciò che la nuda e cruda realtà ci mette davanti agli occhi. Non è stato difficile trovare tre testi che sembrano scritti per questo. Il primo è di Èmile Zola, s’intitola L’argent (Il denaro) e fa parte del monumentale ciclo Rougon-Macquart, che consta di diciotto romanzi. Il titolo perentorio non necessita di molte note aggiuntive. Con gli altri due testi ci avviciniamo ai nostri tempi poiché si tratta di opere scritte  contemporaneamente o successivamente lo sconvolgimento provocato dalla Grande Depressione degli anni ’30, successiva alla crisi strutturale del 1929: Il Canto XLV, detto anche dell’Usura, dai Cantos di Ezra Pound e L’orologio americano di Arthur Miller, del 1982.

Questa la realtà; tuttavia, intorno denaro sono sempre fiorite le favole e anche oggi non si smette di raccontarle e di crederle. Del resto non c’è da stupirsi perché se è vero che di esso si scrive e si parla da sempre, è altrettanto vero che per millenni lo si è considerato esclusivamente in termini morali, oppure favolosi. Solo recentemente il denaro è stato oggetto d’indagine scientifica; precisamente dalla metà del Settecento in poi, quando l’economia smise di essere una questione di destino, di vacche grasse e magre, di maledizioni bibliche e successive cornucopie, per avviarsi verso la propria autonomia come scienza, seppure umana.

Uno sfondo arcano, tuttavia, permane e scriverne non può prescinderne. Intorno al denaro fioriscono le leggende, le mistificazioni interessate, si affollano gli imbonitori, proliferano le truffe, le illusioni e le depressioni; lo stesso gioco d’azzardo, che aumenta in modo esponenziale proprio nei momenti di maggiore crisi economica, sta a dimostrarlo. Bisogna tenerne conto e cercare d’interrogarsi sulla necessità di questa permanenza nella psicologia profonda degli individui e delle masse. Per farlo ho attinto all’immenso serbatoio delle fiabe, privilegiando alcuni tratti che in esse si ripetono, a qualche aneddoto e per ciò che riguarda tempi a noi più vicini ho scelto alcune pagine illuminanti tratte da Massa e Potere di Elias Canetti.

Nel pieno degli anni ’90 mi capitò di seguire un’inchiesta televisiva sulla nascente new economy, che allora nessuno chiamava ancora così. Il protagonista era un finanziere di rango che operava per una delle tante società che allora nascevano come funghi; uno di quei veri e propri guru della nostra epoca, che le definizioni giornalistiche indicano come gnomi della finanza. Si cominciava con una panoramica sui suoi appartamenti: case bellissime e senza pacchianerie, da vero signore. Seduto su un divano, però, il nostro moderno principe rivelava di lavorare, da sei anni a quella parte, per un numero variabile dalle 12 alle 16 ore al giorno (esattamente come il fruttivendolo sotto casa mia, che non chiude mai, nemmeno la mattina di Natale). Allo sgomento dell’intervistatrice egli rispondeva sorridendo che avrebbe continuato per altri due anni per poi ritirarsi e godersi finalmente la vita. L’inchiesta proseguiva e, dopo alcuni minuti dedicati ad altri protagonisti dell’economia globale, la macchina da presa inquadrava di nuovo il nostro personaggio. La rapidità della sequenza faceva pensare al telespettatore che si ritornasse al momento dell’intervista appena ascoltata; invece non era così. La giornalista, con grande abilità, aveva montato due spezzoni diversi, fra i quali la distanza temporale era di circa due anni. Alla reiterata domanda sul proprio futuro l’uomo, la seconda volta, rispondeva di non essere sicuro di ritirarsi.

Non bisogna essere il dottor Freud per capire che nel 99% dei casi questi uomini non se n’andranno mai perché il meccanismo della dipendenza agisce su di loro in forme ancor più forti, perché inconsce e nutrite dal senso di colpa. I guadagni sono talmente ingenti da creare dipendenza dalla società che permette loro di conseguirli; lasciare il campo avrebbe il sapore dell’ingratitudine, nonostante possano essere scaricati in qualsiasi momento dai loro datori di lavoro. A questo si aggiunga un altro fattore: i guadagni provenienti dalla speculazione, dai marchingegni dell’ingegneria finanziaria fino all’insider trading, largamente praticato nonostante le foglie di fico della legge, per la loro mole consistente e arbitrarietà, spingono a credere che l’accumulo di denaro si auto alimenti: quando con una semplice movimentazione di capitali, essi si raddoppiano in pochi giorni, come è accaduto per alcuni anni prima del crollo, lo scarico d’adrenalina permette di superare momentaneamente la fatica.

Questi uomini sono costretti a rimandare tutto al dopo e quello che colpiva sempre più in quell’intervista era la solitudine del protagonista, l’impossibilità d’avere rapporti stabili. Come i rapinatori di banca o i giocatori di professione essi non possono smettere, anche se sognano continuamente di farlo. L’abile giornalista fingeva di credergli e preparava molto bene le sue trappole; s’era messa nella posizione di quei personaggi femminili dei noir americani degli anni ’60, in cui il protagonista maschile dice alla bella di turno frasi del tipo: ‘faccio l’ultimo colpo e poi andiamo alle Bahamas, a Tahiti, alle isole Salomone’ ecc. ecc. La conclusione di quelle storie portava i loro protagonisti dritti dritti in un monolocale a Sing Sing, l’esito più probabile nel caso del finanziere è la consumazione rapida di ogni esperienza vitale, oppure una lunga terapia analitica; spesso entrambe le cose.

Come si possa reggere una vita del genere è facile da immaginare e tutti ne sono a conoscenza, salvo poi stracciarsi le vesti contro il narcotraffico.

Ebbene, uomini del genere, così manifestamente incapaci di capire quali conseguenze ha su loro stessi la vita che fanno, possono decidere di spostare capitali enormi da una parte all’altra del globo, chiudere e aprire società, realizzare ricchezze immense in pochi giorni o far fallire in due settimane un intero stato. Tuttavia può accadere anche il contrario: che a causa di un investimento sbagliato o del puro caso – come accadde qualche anno fa a un giovane guru inglese che aveva comprato alcune aziende giapponesi una settimana prima del terremoto di Kioto che le avrebbe rase al suolo – possano trovarsi senza nulla nel giro di una settimana.

Per ritrovare un analogo manifestarsi di tale alternanza fra disperazione ed euforia, senso di onnipotenza e annichilimento di ogni prospettiva, bisogna ricorrere alle  fiabe: una particolarmente famosa è quella dell’asino che cacava monete.

Asini che cacano monete, pesciolini d’oro e … altre bestie.

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti dei Fratelli Grimm è un testo assai complesso, la cui analisi richiederebbe un saggio intero. Riassumo la parte della vicenda che riguarda il tema del denaro.1 Il primo di tre fratelli, allontanati da casa dal padre, riceve in dono un asino magico che a comando caca monete d’oro. Naturalmente l’uomo pensa di avere risolto tutti i suoi problemi; non solo, ma diviene prodigo in modo del tutto sconsiderato, non curandosi minimamente di proteggere il prezioso segreto di cui beneficia, con il risultato che si fa rubare l’animale dall’oste presso il quale si era fermato per cenare. L’asino verrà, alla fine della fiaba, riconquistato dal fratello minore, grazie all’astuzia e alla capacità di non affidarsi semplicemente alla fortuna. Il primo dei due, infatti, ha una fiducia cieca nelle potenzialità delle facoltà magiche dell’asino, pensa che la fatica di vivere sia del tutto scomparsa, si specchia come un narciso nell’onnipotenza apparente che lo rende cieco rispetto all’inganno dell’oste. La dinamica della fiaba riflette molto bene le alterne fortune del gioco, compreso quello di borsa. Chi si affida solo alla buona sorte incappa fatalmente anche in quella cattiva, senza mezze misure: può avere tutto come può perdere tutto in un solo attimo.

Le fiabe più interessanti rispetto al tema che qui si tratta sono, tuttavia, quelle che hanno a che fare con l’avidità e la ricchezza. Sono molte e si trovano in tutte le culture: una particolarmente bella è Il pesciolino d’oro, di cui Pushkin ci ha lasciato una mirabile versione in prosa. Altre, di cui esistono diverse versioni, rappresentano molto bene le conseguenze dell’avidità. Una per tutte è quella intitolata Il pescatore e sua moglie.

Un uomo entra in possesso di un talismano magico che gli permette di esaudire ogni desiderio. Lo dice alla moglie e lei comincia ad avanzare richieste sempre più smodate, finché non chiede di diventare come dio: quando il desiderio viene formulato, la magia scompare e i due si ritrovano nella condizione di partenza.

Questa tipologia di fiabe rappresenta molto bene le conseguenze della ricerca spasmodica del godimento (che è cosa ben diversa dal desiderio e dalla sua realizzazione), ma anche l’impossibilità di sottrarsi a tale pulsione, una volta che si sia imboccata quella strada. La psicologia del nostro gnomo della finanza non è diversa da quella della moglie del pescatore!

Per concludere scelgo un’altra fiaba, ancora dei Fratelli Grimm, intitolata La giubba verde del diavolo, per i suoi echi faustiani. Eccone l’inizio:

C’erano una volta tre fratelli che allontanavano sempre il più piccolo di loro; quando vollero andarsene per il mondo, gli dissero: -Non abbiamo bisogno di te, vattene da solo-. Così lo abbandonarono ed egli dovette procedere solo; giunse in una gran brughiera ed era molto affamato. Nella brughiera c’era un cerchio di alberi: vi si sedette sotto e si mise a piangere. D’un tratto udì un rumore e, quando si guardò attorno, vide venire il diavolo con una giubba verde e un piede di cavallo. – Che cos’hai, perché‚ piangi?- disse. Allora egli gli confidò la sua pena e disse: – I miei fratelli mi hanno scacciato -. Disse il diavolo: – Voglio aiutarti: indossa questa giubba verde, ha delle tasche che sono sempre piene di denaro; puoi prenderne fin che vuoi. In compenso però voglio che per sette anni tu non ti lavi, non ti pettini non‚ preghi. Se muori in questi sette anni, sei mio; ma se rimani in vita, sarai libero e ricco fino alla fine dei tuoi giorni-.

Il protagonista segue puntualmente le indicazioni del diavolo, ma dopo un po’ di tempo tutti lo evitano a causa del suo aspetto orribile e dell’odore che emana. Per farsi accettare, allora, l’uomo compie atti di generosità continui. Di peregrinazione in peregrinazione, una sera, in un’osteria, sente piangere un uomo:

“… Il giovane gli domandò che cosa mai lo affliggesse tanto, e il vecchio disse che non aveva più soldi; era in debito con l’oste che l’avrebbe trattenuto finché‚ non avesse pagato. Allora il giovane dalla giubba verde disse: – Se è tutto qui, di denaro io ne ho a sufficienza: pagherò per voi -. E liberò l’uomo dai suoi debiti. Il vecchio aveva tre belle figlie e gli disse di scegliersene una in moglie come ricompensa. Ma quando giunsero a casa e la maggiore lo vide, si mise a gridare all’idea di sposare un essere così orrendo, che non aveva più aspetto umano e sembrava un orso. Anche la seconda fuggì via e preferì andarsene per il mondo. La terza invece disse: – Caro babbo, se gli avete promesso una sposa, ed egli vi ha aiutato nel momento del bisogno, vi ubbidirò -. Allora il giovane dalla giubba verde si tolse dal dito un anello, lo spezzò, ne diede metà alla fanciulla e tenne per s‚ l’altra; e nella prima scrisse il proprio nome, nell’altra il nome di lei, pregandola di serbare con cura la metà dell’anello. Rimase ancora un po’ di tempo con lei, e infine disse: – Ora debbo prender congedo, rimarrò lontano per tre anni, siimi fedele in questo periodo di tempo; quando tornerò celebreremo le nostre nozze. Se invece non torno sei libera, perché‚ io sarò morto, ma tu prega Dio che mi tenga in vita -. In quei tre anni le due sorelle maggiori della sposa si fecero beffe di lei e le dicevano che avrebbe avuto un orso per marito al posto di un uomo normale.”

L’uomo prosegue nel suo viaggio, comperando regali per la futura moglie e compiendo altri atti di generosità. Allora Dio s’impietosisce di lui e gli permette di arrivare indenne alla fine dei sette anni. Il giovane s’incontra con il diavolo e gli restituisce la giubba verde:

“… Poi se ne andò a casa, si ripulì per bene e si mise in cammino per recarsi dalla sua sposa. Quando giunse al portone d’ingresso, incontrò il padre; lo salutò e disse di essere lo sposo, ma quello non lo riconobbe e non voleva credergli. Allora egli salì dalla sposa, ma anch’ella non voleva credergli. Infine egli le domandò se avesse ancora la metà dell’anello. Ella rispose di sì e andò a prenderla; anch’egli prese la sua, l’accostò all’altra e si vide che le due parti combaciavano perfettamente: egli non poteva che essere il suo sposo E quand’ella vide che era un bell’uomo, si rallegrò, lo amò e celebrarono il matrimonio. Le due sorelle, invece, erano così furiose di aver perso quella fortuna, che lo stesso giorno del matrimonio l’una si annegò, mentre l’altra si impiccò. La sera, bussarono alla porta e si sentì un brontolio; quando lo sposo andò ad aprire, ecco il diavolo in giubba verde, che disse – Vedi, adesso ho due anime in cambio della tua! – “

La morale di questa fiaba è molto sottile. Non c’è atto di bontà che possa fare tornare i conti se si stabilisce un patto demoniaco con il denaro; neppure dio può farlo. Non ha alcuna importanza che le due sorelle siano rappresentate come cattive, perché questo accade in ogni fiaba. In questo caso, la novità è che c’è sempre un prezzo da pagare, anche quando a pagarlo è un malvagio! Tale prezzo può essere occulto, o altrove come nel caso dei meccanismi finanziari. Chi consegue ingenti guadagni speculativi non vede dove si è verificato il danno che fa da contrappeso al saldo positivo delle movimentazioni dei capitali che gestisce: non lo vede, ma il danno – da qualche parte – c’è sempre!

Queste fiabe tuttavia, ci suggeriscono anche altre considerazioni: prima di tutto che l’associazione fra escrementi, monete e diavolo è antichissima e nasce ben prima che Martin Lutero definisse il denaro sterco del demonio.2

Un altro esempio di comportamenti causati dall’avidità ci proviene dall’antichità e viene ripreso da Elias Canetti in Massa e potere, in un breve paragrafo alle pag. 107 e 108, intitolato Il tesoro.3 Si tratta di un aneddoto ricordato da Plutarco in La vita di Pompeo.

Durante una spedizione in Africa la flotta di Pompeo giunse nei pressi di Cartagine;  alcuni soldati s’imbatterono casualmente in un tesoro che li rese ricchi. Non appena la notizia si sparse fra i militari delle altre legioni, si diffuse la voce che i cartaginesi avevano nascosto ricchezze immense un po’ dappertutto e sotto terra. In preda a un delirio crescente l’esercito romano si sbandò, tutti si misero a scavare, le dimensioni del tesoro crescevano quanto meno se ne trovava traccia. Pompeo, prima preoccupato, decise poi di non intervenire per nulla. Osservava divertito e in disparte quanto stava avvenendo. Dopo qualche giorno il tutto si sgonfiò: improvvisamente ciò che sembrava solido, svanì di colpo. Il tesoro semplicemente non esisteva, la diceria si era auto alimentata e con la stessa rapidità si era sgonfiata di colpo come una bolla di sapone (o come la bolla finanziaria).4

Questo atteggiamento psicologico intorno al denaro o al tesoro, è ancora una volta lo stesso del giocatore d’azzardo, di cui sono note euforie e depressioni, strettamente dipendenti dall’alternanza casuale di vincite e perdite, di cui è del tutto in balìa. Più che non l’ovvia citazione de Il giocatore sono interessanti le interviste e le riflessioni di Tommaso Landolfi e di sua moglie Idolina in materia.


1 Tutte le citazioni riguardanti le Fiabe dei Grimm sono tratte dall’edizione Einaudi.

2 La maledizione del denaro colpisce sempre chi ne parla e ne scrive e dunque colpirà anche me! Il denaro è un’ascia bipenne senza manico per cui chi la impugna infligge a se stesso gli stessi danni che infligge agli altri. Il povero Martin Lutero, quando definì il denaro sterco del demonio aveva in mente, come tutti sanno il Papa di Roma e il commercio delle indulgenze. Non poteva sapere, in quel momento, che soltanto pochi decenni dopo l’etica protestante sarebbe stata la migliore culla per il nascente capitalismo

3 Tutte le citazioni dall’opera Massa e potere di Elias Canetti si riferiscono alla pubblicazione da parte della casa editrice Adelphi, per la traduzione di Furio Jesi, Milano Luglio 2002, undicesima edizione.

4 Varrà la pena di notare di sfuggita, che l’invenzione del tesoro legata a vicende guerresche o marinare, è un archetipo che viene riciclato anche ai nostri tempi: si pensi alle spedizioni alla ricerca d’improbabili tesori in navi affondate, come nel caso del Titanic e dell’Andrea Doria. La narrazione mitica, così vivida nelle parole di Plutarco, lo è altrettanto anche nella nostra realtà.