NARRAZIONI FRA STORIA E MEMORIA: PORTOGALLO

Premessa

Ho ritrovato quasi per caso questa breve narrazione scritta molti anni fa, subito dopo il ritorno dal Portogallo. Me la ricordavo, ma per ragioni che stanno a metà strada fra casualità e rimozione, si era persa nei meandri di chiavette e computer. Le ragioni per un eventuale oblio ci sono tutte. Quel viaggio, insieme a Laura, era nientemeno che il nostro viaggio di nozze, ma la scelta del Portogallo aveva una forte componente di militanza politica, espressione che oggi non userei più, ma che nel 1975 era ancora pane quotidiano. I capitani d’aprile, nel 1974, avevano posto fine alla dittatura di Caetano, l’erede di Salazar; l’esplosione di rivolta sociale che ne seguì fu accolta con entusiasmo in Italia e si formarono anche delle piccole brigate internazionali, fra cui quella italiana, composta da attivisti di diverse organizzazioni: questo gruppo italiano era stato molto presente nella caserma autogestita di Tancos a Lisbona.

La nostra partenza era prevista per il 12 dicembre, avevamo tutti i contatti giusti con le diverse formazioni politiche più formali come i partiti, ma anche informali e nate in pochi mesi. Tutte avevano appoggiato i capitani d’aprile, seppur con modalità diverse.

Pochi giorni prima della nostra partenza lo scontro divenne convulso e alla fine fu rovesciato il governo in carica presieduto da Vasco Gonçalves da parte di un gruppo di militari moderati capeggiati da Melo Antunes. Dal fervore estremo che ci aspettavamo di vedere in città, si passò nel giro di pochi giorni a un clima spettrale nel quale ci trovammo di colpo catapultati. Capimmo subito che non avremmo rischiato niente da un punto di vista personale perché non eravamo stati sottoposti ad alcun controllo particolare alla frontiera e quindi decidemmo lo stesso di avviare i nostri contatti. Fummo ricevuti da tutti, seppure nel mezzo di misure di sicurezza e luoghi improbabili degli incontri; a parte il solo che avvenne in una sede ufficiale, quella del partito comunista portoghese. Due persone, uomini per l’esattezza, coinvolti in tutte le fasi del processo iniziato nel 1974, ci fecero da guida in città, ma quando capimmo che continuare con i contatti poteva essere pericoloso per loro, prendemmo accordi su come gestire le comunicazioni dall’Italia e decidemmo che, dopo un’ultima visita a casa di un operaio – un incontro di cui vi è traccia nello scritto di allora – ci saremmo dedicati unicamente al nostro viaggio di nozze e così fu. Quella parte del viaggio però è fatto di ricordi solo nostri e nel testo di allora non c’è traccia.

A pensarci bene ad anni di distanza, tutta la vicenda è molto portoghese. Solo lì poteva accadere che dei militari ponessero fine a una dittatura e si presentassero con i fiori  nei loro cannoni per le strade di Lisbona e poi decidessero di porre fine al loro tentativo rivoluzionario ritornando nella caserme ma – cosa da non dimenticare – Melo Antunes si oppose sempre alla messa fuori legge del partito comunista e altre organizzazioni. Uno solo pagò per tutti: Othelo Sarajva de Carvalho, un uomo generoso ma assai confuso.

Detto questo, il testo che segue ha degli aspetti che sono anche datati ma ho deciso di non toccare nulla, perché lo spirito profondo di quello che mi è parso di cogliere in quella surreale esperienza di viaggio è del tutto attuale. Sono pure contento di avere ritrovato questo scritto dopo la pubblicazione di Frattali, perché forse mi sarebbe venuta la tentazione di inserirlo nel libro. Invece la sua collocazione è proprio un’altra: una narrazione che è un piccolo frammento di memoria storica, di un evento fra i più rimossi dalla scena politica europea contemporanea.    

Lisbona

Le immagini che conservo di Lisbona si ripetono e si rinnovano in continuazione, nutrite da molteplici sorgenti; tanto che i ricordi sono una parte minore di quest’anfora preziosa. Le une e gli altri si confondono e si sovrappongono, facendo così venire meno quel confine sottile fra realtà e immaginazione che nel caso di Lisbona sembra ancor più rarefarsi e sciogliersi in un impasto di colori che ricordano quelli dei suoi cieli, oppure la mescolanza amorosa delle sue acque.

Forse era vera quella passeggiata lungo l’Avenida Pombal alla ricerca di un ristorante dal nome altisonante: La cocina del rey; o forse me l’ero inventata dopo avere letto che in quel locale si tenevano cene sontuose… E poi il traghetto che attraversa il Tago per approdare al Barreiro, il quartiere più popoloso della città.

Il Tago a Lisbona non è un fiume, ma un braccio di oceano con cui l’acqua dolce lotta instancabilmente, dando luogo a un miscuglio allargato di liquidi e umori che si distendono fino ad assumere le sembianze di un lago; o di più corpi sfiniti e calmi dopo un’orgia.

Al Barreiro si respirava un’aria di antica e nobile povertà, fatta di storia, di abitudini, di fierezza proletaria scolpita sui volti scavati dei suoi operai; oppure l’opulenza sformata delle donne, la magrezza dei troppi figli e figlie. Portane una in Italia ci aveva chiesto Vazco; sulle prime abbiamo finto di non capire, poi rifiutato mostrando tutto il nostro imbarazzo. La cosa era finita lì, poi venimmo a sapere che un altro figlio in Italia c’era già venuto e che lavorava presso un elettricista di Milano; l’invitai a lasciarmi un messaggio per lui. Fu la madre a scrivere il biglietto per Manuel, così si chiamava il ragazzo; lo fece lentamente, con il tracciato incerto di chi non padroneggia la scrittura.

Dopo pranzo, mentre ascoltavamo musica ad altissimo volume, Vazco ci mostrò orgoglioso i suoi cimeli: la bandiera rossa custodita segretamente durante gli anni della dittatura salazarista e poi esposta ogni domenica sul cancello di casa, le fotografie di alcuni incontri politici clandestini, poi quelle più distese e piene di sguardi sorridenti delle prime assemblee popolari seguite alla Rivoluzione dei garofani.

Rientrando a Lisbona, la sera, me ne stavo da solo sul ponte della nave, Laura aveva preferito non uscire fuori a causa del vento forte. Nel buio che calava e immerso nei miei pensieri, improvvisamente udii fischiare un canto rivoluzionario che conoscevo benissimo, perché era italiano, nato nel pieno del ‘68. Non capii subito da dove provenisse quel suono acuto e teso come un filo d’acciaio: poi vidi l’uomo. Era un giovane marinaio che indossava il berretto tipico di tutti i marinai, con la tesa un po’ abbassata e curva; teneva le mani nelle tasche di una giacca a vento leggera. Era solo e si aggrappava a quel canto come ci si aggrappa al vestito di una donna che ci ha lasciato. Il suo fischio era così forte da superare il rumore delle acque e si ergeva da solo contro la logica ferrea della pagina pesante che si era abbattuta con tutta la ragionevolezza della storia sulla fervida passione di quei pochi mesi.

Lui non si era accorto di me e nessuno poteva udirlo, quel ricordo era soltanto suo; ma c’era, nel gesto di regalare quel fischio alla notte, tutta la grazia e la forza della gratuità. Forse per questo a Lisbona mai nulla finisce veramente; perché c’è sempre qualcuno che conserva il lembo di ogni cosa, così che tutto si stratifica dando alla città quel tono barocco che soltanto in essa, tuttavia, mantiene una sorprendente leggerezza.

Al tempo di quel viaggio non conoscevo Pessoa, per me era soltanto un nome; del resto, tutto del Portogallo e di Lisbona era poco più che un nome.

M’imbattei in lui una volta tornato in Italia e compresi subito che alla nostra vista era sfuggito molto della magia del luogo.

Il caffè dove lui scriveva, per esempio, l’avevamo visitato diverse volte durante quel soggiorno, avevamo visto pure qualche sua fotografia, ma tutto era finito lì. Ricordo delle vetrate eleganti, un clima decrepito da nobiltà decaduta, un’eleganza sobria e fuori moda; intorno al locale le stradine strette e scoscese che portavano al mare o risalivano ancora di più verso la cima della collina, fra ampie case a terrazza e tetti piani.

Eppure quel caffè e quelle strade si sono veramente materializzate per me solo dopo essere rimasto a lungo in compagnia di Bernardo Soares e di Fernando stesso. Perché soltanto nelle loro parole e nei loro sguardi mi fu possibile vedere e sentire di nuovo l’atmosfera che avevamo solo sfiorato. Lisbona colpisce a distanza, come una ferita leggera che non guarisce mai; ma forse anche questo è un sogno, forse anche sulla città si sarà abbattuta la monotonia omologante di cui non vi era traccia, allora. Anche per questo non tornerò mai più a Lisbona, ma continuerò a soggiornarvi nelle parole di Fernando, in quelle di Ricardo Reis o di Álvaro de Campos.

Le terra e l’oceano

Dall’alto delle scogliere di Estoril lo sguardo si perde verso il mare e non solo in direzione delle lontane Americhe, perché a destra come a sinistra la terra sfuma verso l’interno: sembra di essere in groppa a un’aquila immensa dalle grandi ali di sabbia.

Il promontorio di Estoril è il punto più occidentale del continente europeo e le onde dell’oceano sembrano, guardandole dall’alto, oscillanti e contraddittori pensieri, sospesi fra due estremi: il desiderio di partire, quello di restare.

Considerando la storia dei viaggi europei verso altri continenti e culture non si colgono solo le tracce lasciate dai conquistadores spagnoli o inglesi, ma anche quelle più incerte e meditabonde degli esploratori portoghesi. Essi sentirono per primi il fascino della smisurata grandezza che il Tago trascina fin dentro Lisbona e per primi partirono. Tuttavia le loro navi oscillarono sempre, incerte se approdare o salpare, tanto diffidenti verso il mare aperto quanto verso l’entroterra. Perciò le rovine che i portoghesi hanno lasciato sono segni enigmatici, quasi dei vuoti sulla cartina storica: di tutti gli imperi, quello portoghese sembra essere l’unico costruito per gioco. Portogallo! Anche nel nome si nasconde la tua magia. Portogalli si chiamano le arance per le popolazioni del sud e l’immagine del sole sull’albero evoca colori smaglianti, sorrisi di amanti, cieli trasparenti e diafani; ma Portogallo è pure un nome duplice. Il porto, luogo del distacco e del ricongiungimento, e il gallo, l’animale che più di ogni altro evoca l’immagine della veglia, ma anche quella di un tradimento. Nella complessità del nome sembra nascondersi qualcosa, come se fra il potente richiamo del mare e i nostalgici canti dell’Algarve, qualcosa nel mezzo si sia dissolto o cancellato. Questo gioco rimanda ad altri giochi; prima di tutto a quelli della lingua portoghese.

Il periodo ipotetico, il congiuntivo e l’infinito personale la segnano in modo indelebile, producendo effetti sconosciuti alle altre lingue neolatine.

Il congiuntivo è il tempo e il modo dell’eventualità, dell’incertezza, dell’irrealtà, mentre l’infinito personale indica un’azione compiuta da un soggetto ma spogliata di ogni concretezza; pura potenzialità infinita nel tempo e nello spazio, simile a una formula matematica che attende d’incontrarsi con una realtà fisica inesistente, al momento, ma non del tutto impossibile. Non è forse ancora al gioco e alle sue trame gratuite che tutto questo rimanda?

La corrida portoghese si presenta del tutto simile a quella spagnola, identica nella ritualità e nell’intenzione finale. Arrivati però alla soglia della consumazione del rito, il toro è risparmiato: se lo spagnolo vuole dominio e sacrificio, il portoghese vuole attesa e rinvio. Dietro queste trame giocose, dietro gli arabeschi della lingua e la ripetizione del rito, è la sospensione del tempo a farsi strada, quella stessa che è nel gioco del bambino, nella festa, nella poesia, in tutto ciò che rompe la continuità seriale del quotidiano.

I portoghesi erano sulle terre di Estoril molto prima che Inglesi, Spagnoli e Francesi li travolgessero passando loro innanzi. Tutti videro soltanto ciò che stava oltre Estoril, mentre essi attesero, finsero di agire, si mossero, ma in fondo non lo fecero e le loro navi continuano a oscillare davanti alle coste di tutti i mondi che hanno toccato. Il tempo li ha risparmiati, restituendoceli nella loro immobilità malinconica e incantata, quasi fossero dei sogni che attendono un mattino. Non potrebbero proprio per questo suggerirci una strada? L’insonne cavaliere portoghese non attende forse l’alba del nostro risveglio e il ritorno a casa delle nostre navi?

MEMORIA E RICORDO

Nel pieno dei processi staliniani degli anni ’30, delle repressioni e internamenti nei Gulag che ne seguirono, alla poetessa Anna Achmatova accadde un giorno di trovarsi  in mezzo a una fila di persone che attendevano il proprio turno davanti a una stazione di polizia, dove si erano recate per chiedere notizie dei congiunti e amici arrestati. La fila triste, i volti bassi dei presenti, l’angoscia che regnava su tutto e tutti trasformava il silenzio in qualcosa d’intollerabile, ma al tempo stesso impediva la parola, azzerava qualsiasi discorso. Poi, alzando lo sguardo da terra, una donna anziana la riconobbe e, in un lampo di speranza e sollievo, si rivolse alla poeta dicendole: “Lei può raccontare tutto questo.”

Sappiamo dell’accaduto dalla testimonianza della Achmatova stessa, dunque, superficialmente, si potrebbe dire che la poetessa ha ottemperato a ciò che l’anonima donna le chiedeva; solo superficialmente, però, poiché credo che questo piccolo e tragico episodio, introduca molto bene la differenza che vi è fra ricordo e memoria. Se scomponiamo la scena nelle sue sequenze, prese isolatamente, vediamo una triste fila di persone, sconosciute le une alle altre, forse in parte sospettose le une delle altre e che dunque non si confidano i loro guai. Anna Achmatova è una di loro, è anche lei anonima, ha le stesse apprensioni degli altri, attende silenziosamente il suo turno. Se connettiamo lo spazio scenico con il tempo possiamo collocare sull’asse delle ascisse la fila anonima delle persone che si succedono nello spazio, mentre possiamo porre sull’asse delle ordinate le scansioni del tempo d’attesa, un tempo anch’esso anonimo che fa solo da sfondo neutro alla tragedia che si sta svolgendo e la cui unità di misura sono gli istanti rappresentati dalle persone che entrano una dopo l’altra dentro la stazione di polizia. Nella seconda sequenza, in primissimo piano, abbiamo due sguardi che s’incrociano per caso: idealmente, lo possiamo rappresentare come il punto in cui le due linee degli assi cartesiani s’incrociano. Uno sguardo s’illumina. L’istante rompe la cattiva continuità temporale, istituendo uno spazio differente; dentro questo perimetro spazio temporale la comunicazione diventa possibile.

Nella terza scena, ancora breve, un altro istante rispetto al monotono scorrere del tempo, la donna non ha riconosciuto un’amica di cui si fida e neppure una persona qualsiasi, bensì la poeta Anna Achmatova. La barriera di diffidenza cade di colpo, la richiesta della donna del popolo è perentoria, ma di quale richiesta si tratta esattamente? Cosa viene chiesto alla poeta: di ricordare forse? No, la richiesta è più complessa e per avvicinarsi al senso che essa racchiude bisogna usare un altro verbo da quello comune, perché ricordare suona troppo generico. Anche l’anonima donna poteva ricordare e c’è da credere che lo abbia fatto, che il segno di quella tragica attesa non l’abbia abbandonata per tutta la vita. Evidentemente, però, la popolana, in modo più o meno cosciente, stava chiedendo altro e per questo si rivolgeva alla Achmatova, non in quanto persona anonima che attendeva come lei e come tutti, in preda al suo personale strazio, bensì alla scrittrice, alla poeta.

Il ricordo può essere privato, ma per diventare universale ha bisogno di una forma; la memoria collettiva non è una testimonianza qualunque da aula di tribunale e probabilmente neppure una serie quantitativamente importante di testimonianze singole, anche se la tendenza contemporanea di costruire una storia memoriale grazie alla ricostruzione personale di eventi storici, da parte di persone non direttamente coinvolte in posizioni di responsabilità diretta, sia un fattore importante di cui tenere conto.

Naturalmente da questo episodio si possono trarre molte altre considerazioni: prima fra tutte che nell’Unione Sovietica staliniana degli anni ’30 gli scrittori godevano di uno statuto di credibilità che oggi si può riscontrare soltanto nei paesi Latino Americani, in India, nei paesi Islamici, e in Estremo Oriente; ma non in Europa o negli Stati Uniti. Forse in Russia.

Torniamo alla Achmatova e alla donna che si rivolse a lei. Non sono in grado di dire in che modo la poeta abbia metabolizzato in senso artistico questo episodio e altri simili: non ne conosco così profondamente l’opera tanto da poterlo dire; sono certo, tuttavia, che, se lei lo ha raccontato, il problema se lo è posto e ha tentato pure di risolverlo, forse senza riuscirci, se ha sentito così fortemente il bisogno di restituirlo a noi in una forma che non è quella che si chiede a un racconto che abbia lo statuto riconoscibile di un’opera artistica, ma quello di una semplice testimonianza.

Alexander Solgenitsin, invece, la tragedia dei Gulag staliniani ha cercato di raccontarla e i suoi romanzi, discutibili anch’essi, talvolta, nella loro resa estetica, sono importanti e appartengono a pieno titolo alla grande letteratura; tanto che la parola Gulag è diventata un simbolo e un’icona del campo di concentramento, affiancando nell´immaginario collettivo il termine precedente, Lager, che godeva, fino agli anni ‘80 del secolo scorso, una predominanza pressoché totale.

Gli scrittori veri inventano sempre parole nuove, che diventano successivamente di tutti. Fu così anche con Primo Levi, la cui testimonianza sui campi di sterminio nazisti è tuttora insuperata, anche perché letterariamente risolta. I suoi romanzi, quale per esempio, Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, oppure  Arcipelago Gulag, Un giornata di Invan Denissovic, del romanziere russo, hanno contribuito a creare una memoria collettiva che è diventata nell’Europa del secondo dopoguerra, senso comune largamente condiviso. Mancano all’appello gli Stati Uniti.

La memoria dei vincitori   

Non esiste una narrativa statunitense che abbia elaborato le tragedie della Seconda Guerra Mondiale e ciò che più l’ha caratterizzata: il lager come immagine sintetica dell’accaduto. Ci sono testimonianze cinematografiche (molte di pregio), che insistono sulla ragione dei vincitori, sulla superiorità delle democrazie occidentali, oppure che indulgono nel culto dell’eroismo e fanno del conflitto bellico lo scenario ideale per film di grande impatto spettacolare: valga per tutti l’esempio de Il giorno più lungo. Oppure propagandano l’immagine dell’americano liberatore. I grandi film sulla Shoah, però, sono tutti europei fino a tempi molto recenti: l’unico statunitense, addirittura hollywoodiano, è Shindler’s list di Spielberg. Se si vuole ricordare un grande romanzo di guerra statunitense bisogna tornare a Addio alle armi di Hemingway e, per il cinema, arrivare fino alla guerra del Vietnam. Tutta l’epopea del West e le allegorie di Cormac McCarthy affrontano il tema bellico e quello della violenza congenita della società americana, ma lo fanno con modalità che prescindono da questo o dall’altro evento storico; infine Scorsese, in Gangs of New York ha affrontato in modo hollywoodiano (sebbene il film sia stato girato a Cinecittà), il nucleo psicologico e sociale dell’imperialismo americano e cioè la necessità del nemico esterno per impedire la dissoluzione della società americana dall’interno.  

Le ragioni che possono spiegare questo atteggiamento sostanzialmente reticente, sono tante: quella apparentemente più semplice è che gli Usa, mai invasi prima dell´11 settembre, da un evento bellico che pioveva davvero sulle loro teste, hanno una percezione molto rarefatta dello sconvolgimento che una guerra provoca nella società civile. Un’altra, fallace, sta nel pensare che il lager fu un problema eminentemente europeo, dimenticando che due milioni di nippo statunitensi furono internati in campi di concentramento negli Usa dopo l’attacco alla base di Pearl Harbour e che, alla fine del conflitto, di centinaia di migliaia di loro non si ebbe più notizia. Una terza potrebbe indicare un riflesso di altro genere, una disattenzione dovuta al fatto che, in fondo, la tragedia della persecuzione ebraica è una storia tutta europea. Penso, tuttavia, che ci sia una ragione preponderante, addirittura enorme e che, se mai, utilizza tutte le altre ragioni al fine di perpetuare nel tempo una gigantesca rimozione: il lancio dell’atomica su Hiroshima e Nakasaki e il trattamento differenziato che la cultura occidentale tutta (anche europea dunque) assegna alle due città giapponesi  rispetto ad Auschwitz, luogo qui inteso in senso riassuntivo e simbolico dell’intera tragedia della Shoah. [1]   

Gli Usa e la Shoah

Se dalla narrativa si passa alla storiografia, la rimozione è altrettanto pesante. Per comprenderlo occorre fare un passo indietro. L’attenzione statunitense nei confronti della Shoah è recente e direttamente proporzionale alla difesa dello stato di Israele, mentre è stata del tutto ignorata nei decenni successivi la Seconda Guerra Mondiale. Durante il maccartismo, per esempio, ogni accenno alla persecuzione degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, era visto con sospetto negli Usa, in quanto l’intelligentia ebraica aveva forti simpatie comuniste e socialiste e nella mentalità paranoica di quegli anni bastava essere semplicemente critici dell’American way of life per essere perseguitati: la vicenda surreale di Chaplin e quella ben più tragica dei coniugi Rosenberg lo sta a testimoniare. Quando fu pubblicato il libro di Annah Arendt, oggi tanto esaltato, e cioè La banalità del male (siamo a metà degli anni ’60, dopo il processo al criminale nazista Eichman), la diffidenza era così forte che ne fu sconsigliata la pubblicazione negli Usa. Tutto questo, nel silenzio totale da parte della comunità ebraica di quel paese e non solo.

Se poi si passa al bombardamento atomico delle città giapponesi nonché alla criminale rappresaglia seguita alla battaglia di Okinawa, che portò al bombardamento di Tokio durante il quale i morti furono persino superiori per numero a quelli immediatamente colpiti dalle bombe nucleari, la rimozione è totale.

Quanto ai campi di internamento statunitensi, il primo film degno di nota sulla tragedia dei nippo statunitensi è della metà degli anni ’60, uno più recente con Richard Geere, affronta di nuovo il tema in modo assai edulcorato, ma non esiste nulla di paragonabile rispetto all’attenzione dedicata ad altri eventi. La storiografia ufficiale giustifica l’atomica, non vi è traccia di revisionismo o almeno di resipiscenza critica per un atto che, sotto ogni aspetto, si configura come un crimine contro l’umanità, neppure giustificato da esigenze belliche, dal momento che il Giappone era allo stremo e non poteva minimamente minacciare le potenze alleate. La logica politica che guidò quella decisione scellerata, lo sanno tutti anche non si può dire, fu quella della vendetta e della rappresaglia da un lato (una sorta di attualizzazione del detto romano guai ai vinti) e costituiva un avvertimento all’Unione Sovietica dall’altro. Finché non ci sarà anche solo simbolicamente, una Norimberga per Hiroshima e Nakasaki, la memoria dell’occidente sarà basata solo su un peloso senso di colpa nei confronti della Shoah e nella rimozione di un altro crimine spaventoso.

L’uso politico della memoria storica appare qui talmente vistoso da risultare grottesco. Se la condanna dei Rosenberg fosse accaduta oggi si può dare per certo che essa sarebbe stata rubricata come una vicenda di antisemitismo, tanto frequente e abusata tale accusa nei conforti di tutti coloro che semplicemente criticano la politica di discriminazione razziale e apartheid da parte dello stato di Israele. D’altro canto, tale atteggiamento corrisponde a una filosofia della storia che si è fatta strada nel corso del ‘900 e che è diventato una sorta di paradigma dopo la tragedia della seconda Guerra Mondiale e cioè la considerazione che lo sconfitto, il vinto, sia per definizione anche un reprobo, concetto che appare all’orizzonte solo nel secolo scorso: dall’avversario al nemico, al Male. Tutto ciò con effetti grotteschi: non appena appare qualcuno all’orizzonte che disturba la politica americana esso diviene immediatamente il nuovo Hitler!

Che rapporto ha, invece, l’Europa con la storia e la memoria della Seconda Guerra Mondiale? Apparentemente la risposta è molto semplice: sono talmente numerose le celebrazioni, le manifestazioni, le reiterate iniziative istituzionali con cui viene ossessivamente ricordata la Shoah, da sembrare, la mia, una domanda inutile. Non lo credo affatto, invece, perché anche nel continente europeo, se si gratta sotto l’apparenza, si scoprono molte crepe in quella che sembra l’icona ben costruita. Prima di tutto va ricordato che anche in Europa, per ragioni diverse rispetto agli Stati Uniti, la memoria collettiva della Shoah è più recente di quanto non si creda. Subito dopo il conflitto gli stessi internati nei campi di concentramento non parlavano volentieri della loro esperienza e lo si può comprendere; ci vuole del tempo per metabolizzare una simile tragedia. Le stesse opere letterarie citate in precedenza non nascono nell’immediatezza, ma successivamente. Lo stesso si può dire per la Germania, dove il processo di elaborazione del passato è stato fatto in una forma che è sconosciuta in altri paesi (per esempio in Italia) che portano le stesse responsabilità politiche, almeno per quanto riguarda i crimini di guerra in altri paesi: mi riferisco all’uso dei gas nelle guerre coloniali del fascismo e alle efferatezze compiute dall’esercito italiano durante l’occupazione della Croazia e del Montenegro.

La memoria come costruzione    

La memoria può essere soltanto costruzione e ricostruzione insieme. Tale processo può essere compiuto sia dagli storici, sia, almeno in teoria, dagli scrittori.

Nel Giulio Cesare di Shakespeare c’e’ un passaggio che ha fatto saltare il buon Freud sulla sedia e forse fu uno dei dati che lo spinse a scrivere (secondo me con un ottimismo eccessivo, se guardiamo a quanto avvenuto successivamente), che gli scrittori e i poeti avevano inventato la psicanalisi prima di lui.

Nella tragedia del grande bardo si accenna al fatto che Cesare, uscendo di casa il mattino del fatidico 15 marzo, inciampi nella soglia. Naturalmente sul piano del dato storico, tutto questo non esiste: nessuna testimonianza, da Sallustio a Tacito ad altri storici romani ci autorizzano a pensare a qualcosa del genere. Sappiamo che secondo la cultura pagana del tempo Cesare aveva avuto le sue premonizioni; sappiamo pure che alcune di esse erano molte precise nel delineare la congiura, ma che abbia inciampato nel gradino uscendo di casa è una pura invenzione, ma la circostanza è talmente vera sul piano psicologico che si può finire per crederla vera anche sul piano storico.

La memoria può essere solo una costruzione che si avvale di apporti diversi e appartenenti a campi diversi che spaziano dall’arte all’antropologia ed è dal loro intreccio che si può arrivare a una affresco degno di nota, mentre una dossologia di eventi che, per il solo fatto di essere posti in una scansione lineare di tempo che procede dal più piccolo al più grande pretendono perciò stesso di essere significativi, finiscono per avere poco senso, come non ne aveva la fila di persone dalla testa bassa in attesa di entrare nella stazione di polizia, con cui questa riflessione è iniziata. Ciò che distingue quella fila da una qualsiasi coda in attesa di entrare in un ufficio postale, oppure di salire su un autobus, è l’istante in cui lo sguardo della popolana rompe la cattiva sequenza spazio-temporale e successivamente, ciò che da quello sguardo e da quella rottura poteva nascerne. La testimonianza di Achmatova, non ci ridà il senso compiuto, neppure il suo ricordo diviene memoria, ma la sua testimonianza illumina la differenze che noi possiamo leggere in altri: oltre ai ricordati già Levi e Solgenitsin, anche altri che ciascuno può inserire in un elenco personale di scrittori che conosce.


[1] L’espressione trattamento differenziato non è mia. La prendo in prestito dal filosofo Costanzo Preve che l’ha usata nel suo libro dedicato alla guerra della Nato alla Serbia .