FURIO JESI

Introduzione

Furio Jesi ha attraversato la cultura e la politica italiane come una cometa e come tutte le comete è passato fugacemente per poi riapparire dopo un tempo più o meno lungo. La riscoperta più recente si è consolidata intorno a un aspetto della sua ricerca fra i meno noti. In Sinistra in rete, nel 2023, sono stati pubblicati saggi importanti, uno in particolare dal titolo: Come interrompere una dialettica. Benjamin, Jesi e la rivolta contro il tempo di James Martel – Emanuele E. Pelilli.1 Al centro di questa prima riflessione ci sono però due libri precedenti che costituiscono una sorta di background da cui partire per affrontare poi i temi sollevati dal saggio pubblicato in sinistra in rete e che implica fra l’altro un confronto con alcune opere di Walter Benjamin.

Il primo dei libri è Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2000. Il secondo è Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, con introduzione di Giorgio Agamben e una nota di Andrea Cavalletti, pubblicato da Quodlibet nel 1996. A questi aggiungo anche la recente intervista ad Andrea Cavalletti, che si può ascoltare in rete dal sito Scaldasole Books.

Jesi partecipò attivamente alla rivolta del Maggio francese e ritornò in Italia solo alla fine, quando – per usare le sue parole – “il tempo era ritornato normale”. A Torino partecipò a tutte le lotte in corso e nel dicembre del 1969 finì una parte della sua riflessione – Spartakus – e la scrisse in flagranza. Ritornare alla rivolta spartachista, nella quale di certo Jesi colse alcuni elementi presenti anche nel Maggio francese, gli permise di tornare alla Comune di Parigi – ma in modo traslato come spesso ha fatto. La Lettura del Battello ebbro passa attraverso la critica letteraria per approdare alla messa a punto di un apparato teorico già probabilmente maturo, ma non ancora suscettibile di essere mostrato. In fondo il ‘68, e in particolare quello italiano, fu una lunga rivolta e proprio leggendo Jesi si può cogliere ancora di più il tragico errore di chi pensò che fosse invece il tempo giusto della rivoluzione. Jesi cominciò proprio allora a interrogarsi sulle dinamiche interne della rivolta, dandole uno statuto specifico come nessuno aveva più fatto dopo Sorel. Guardando alle rivolte ci si può sottrarre da una dialettica del tutto confinata nella storia e che assomiglia da un lato al destino, oppure a una macchinetta asettica alla quale si può far dire di tutto e il suo contrario, come Benjamin rappresentò in modo puntuale nella prima delle sue Tesi sulla storia. Tuttavia, ciò non è possibile farlo senza decidere di accettare e fare propria la scommessa che la storia pone davanti a chiunque in certi momenti: la prassi è proprio quell‘insieme di gesti-parole,- altra espressione tipica di Jesi – che bisogna decidere di compiere e di accettare anche nelle loro conseguenze. Qui stanno le ragioni dell‘inattualità di Jesi per un lungo tempo. Superficialmente, esse avevano prima di tutto a che fare con il sospetto che nell’Italia di quegli anni si nutriva nei confronti di chi si occupava di mitologia. Più in profondità, perché nel pieno dell‘autunno caldo e specialmente dopo il 12 dicembre 1969, Jesi indicava – già allora – che invece di occuparsi solo del presente, che egli tuttavia non ha mai esorcizzato e tanto meno rimosso dal suo stesso agire in campo culturale e politico, sarebbe tuttavia stato meglio occuparsi del dopodomani. La storia editoriale e forse le sue scelte hanno nascosto per lunghissimo tempo Spartakus fino al 2000, un anno prima dei fatti di Genova e dell’attentato alle Torri gemelle. Cosa ci può essere di più attuale nell’Italia e nell‘Europa del 2023, di libri che invitano a guardare alle rivolte dell’altro ieri per poter pensare realisticamente l’oggi e il dopodomani?  

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PARTE PRIMA

Spartakus

Jesi, nell‘introduzione, spiega a grandi linee le ragioni dell‘opera, poi entra nel vivo e nel capitolo eponimo stabilisce una complessa analogia fra una citazione tratta dal Docktor Faustus di Thomas Mann e il saggio di Sorel sulla violenza, scritto subito dopo la prima guerra mondiale e che era stato lo spunto da cui anche Benjamin aveva cominciato il suo saggio del ’21. La frase di Mann è questa:

Chi voglia essere partecipe della comunità deve tenersi pronto a sostanziose detrazioni dalla verità o dalla scienza, al sacrificium intellectus… 2

Docktor Faustus  fu scritto nel 1943 e pubblicato nel ’47, ma la comunità di cui parla è la società tedesca di trent’anni prima e l’accenno al venir meno di scienza e verità è una riflessione col senno di poi e una polemica in differita contro gli pseudo miti nazisti che iniziarono a diffondersi proprio negli anni successivi il primo conflitto mondiale, rispetto al quale va pure detto che Mann manifestò una certa ambiguità – se si pensa al capitolo finale di La montagna incantata – dove Castorp, pur malato, si precipita nel conflitto come in una sorta di lavacro. Mann usa nel capitolo un tono epico e nella conclusione la guerra diviene sia festa di morte sia malo delirio.3 Jesi, tuttavia, si richiama all’opera di Mann in modo sibillino e traslato, cioè per sottolineare come nella Germania del 1919 i miti che circolavano non erano solo quelli criticati da Mann: Sorel, pur con tutte le ambiguità di quegli anni, è pur sempre un teorico dell’anarcosindacalismo e l’accenno di Jesi al suo libro è un tramite che ci porta nel cuore della sua riflessione. La Spartakusbund nasce nel 1919 e anche Spartaco è un mito e non soltanto un personaggio storico. Con lui arriviamo al secondo punto focale del libro, anche se il suo autore precisa che esso non vuole essere una ricostruzione storica del movimento spartachista e dell’insurrezione di gennaio. In realtà il libro è anche questo e lo è in modo assai calzante e sintetico, ma il suo intento è duplice: da un lato affermare che ogni tentativo di espellere la macchina mitologica dalla storia secondo la tradizione illuminista, è destinato a cadere nel vuoto o a ritorcersi contro coloro che lo affermano. Tuttavia, la dialettica fra mito e storia è secondo Jesi una manipolazione borghese del tempo4 e dunque i due termini, mito e storia, vanno letti prima di tutto nella loro reciproca autonomia. Jesi prosegue proiettando la vicenda dello spartachismo nel passato recente della Germania  e cioè:

[…] a un filone della cultura tedesca che può essere colto più agevolmente – almeno per ora –nei suoi momenti cristallizzati: […] l’illuminatenorden che Adam Weishaupt fondò a Ingolstadt nel 1776, assumendo il nome Spartakus e più tardi nel movimento organizzatosi in Assia intorno al rettore Widig e a Georg Büchner  nel 1830-40.5

L’intento, costante in tutta la sua opera, è quello di sottolineare sempre come la mitologia nera tedesca, oggetto del suo libro Germania segreta, Cultura di destra e altri, non sia la sola esistente.6 Nel capitolo intitolato La sospensione del tempo storico, Jesi ricostruisce in una paginetta le ragioni della rivoluzione. Lo fa ripercorrendo il pensiero di Marx e sottolineando in particolare la necessità che un progetto rivoluzionario sia basato su un’analisi dei rapporti di forza e delle dinamiche sociali. Esaurito il tema in breve, egli cambia registro:

[…] Questo orientamento politico e la filosofia della storia che vi corrisponde incontrano un grave ostacolo nel fenomeno della rivolta. Usiamo la parola “rivolta“ per designare un movimento insurrezionale diverso dalla rivoluzione. La differenza fra rivolta e rivoluzione non va cercata negli scopi dell’una e dell’altra […] Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sé non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà e di perennità di cui consiste la storia. La rivoluzione sarebbe invece interamente e deliberatamente calata nel tempo storico.7

A questa prima affermazione segue un’analisi puntuale, incalzante e appassionata dei dieci giorni della rivolta spartachista del 1919 che fra l’altro dimostra quanto poco sia stata analizzata nelle sue dinamiche interne e in modo così profondo.8 Jesi riconosce il fallimento della rivolta e ne indica le ragioni in modo puntuale e dopo un’altra lunga digressione, ritorna ad essa tramite Brecht: Trommels in der Nacht – Tamburi nella notte è infatti il lavoro teatrale con cui Brecht la rievoca. La prima versione del testo fu scritta in presa diretta sugli eventi, proprio nello stesso 1919, inaugurando un’idea di teatro che ritroveremo puntualmente nell’Agit Prop.

Jesi paragona il testo di Brecht al Docktor Faustus di Mann, sottolineando l‘ambiguità del secondo, ma riconoscendo pure che anni dopo, entrambi decideranno di mettere fra parentesi la rivolta spartachista, pur rimanendo distanti le loro posizioni. Brecht deciderà di non rappresentare il dramma, mentre Jesi – ripercorrendone tutti gli atti – gli assegna l’importanza che ha. Il personaggio chiave dell‘opera è Kragler, un figura assai complessa dal momento che è al tempo stesso un anonimo piccolo borghese, sia una figura della mitologia tedesca, cioè il reduce dato per morto e che al ritorno non viene riconosciuto neppure dalla madre, che pensa di trovarsi davanti a un fantasma. Jesi ricostruisce puntualmente tutti gli atti del dramma e al libro rimando per questo. Ridotto all’osso, lo svolgimento è il seguente. Kragler torna dalla prigionia proprio durante la notte in cui la rivolta spartachista ha inizio e scopre che la sua fidanzata sta per fidanzarsi con Murk, un borghese ben più ricco di lui. Indignato per il torto subito si unisce alla rivolta spartachista. Anna, che aveva accettato di sposare Murk per ragioni d’interesse, quando rivede il suo vecchio amore lo segue di nuovo e i due vagano per la città nel mezzo dell’insurrezione, finché Kragler si convince che essa non ha alcuna speranza di successo e torna a casa con la fidanzata, voltando le spalle agli spartachisti. Brecht, lo si evince dal testo di Jesi, ma anche dalla storia assai travagliata dell‘opera e delle sue rappresentazioni, ebbe sempre un atteggiamento di ambivalenza verso di essa e arrivò poi a non pubblicarla nell’opera omnia. Jesi salva il testo e lo valorizza, ma rimane sulla soglia di una vera riabilitazione e penso sia utile domandarsene la ragione. La lettura di classe del dramma – la piccola borghesia si lascia coinvolgere dal proletariato, ma nel momento dello scontro vero si tira indietro – è altrettanto riduttiva di quella che riconduce tutto al mito del reduce che non viene riconosciuto, anche perché nel dramma di Brecht c’è uno scostamento rispetto alla rigidità del mito e il riconoscimento in qualche modo avviene. L’ambivalenza di Brecht è giustificata nel senso che egli stesso si trova su un crinale pericoloso, che può colludere anche con quella mitologia germanica negativa che produce fantasmi che possono diventare mostri. Sotto traccia, però, c’è una polemica molto contemporanea. Kragler è anche il personaggio che rifiuta quella parte dell’Espressionismo tedesco che era più incline a lasciarsi trascinare dentro la mitologia germanica o a ripiegare in una sorta di soggettivismo intimista a tinte fosche. L’espediente teatrale usato da Brecht è di rappresentarlo come un personaggio comico, ubriaco e un po‘ sconclusionato. Anche questo, però, non risolve il problema. Jesi avverte opportunamente che quando Brecht scrisse I tamburi nella notte, il concetto di straniamento  – che diventerà centrale e fondamentale in tutte le sue opere e che sarà l’oggetto di un importante saggio scritto da Benjamin sul teatro di Brecht 9 – non era stato ancora elaborato dal drammaturgo, per cui la figura di Kragler risulta inquinata da una certa dose di simpatia del suo autore nei suoi confronti. Tuttavia a me pare che la questione sia ancora più complessa e che Jesi la conosca benissimo. Brecht si stava interrogando sul senso del comportamento eroico, altro tema nevralgico per la cultura tedesca e non solo. Su questo Brecht fu sempre molto netto: fu lui a dire guai a quel popolo che ha bisogno di eroi e allora I tamburi nella notte ci riportano alla domanda delle domande, la stessa che, sotto traccia, si pone Jesi dall’inizio di Spartakus: il sacrificio di Luxemburg e Liebknecht fu un gesto romantico-espressionista che in qualche modo collude anche con quella zona oscura del mito germanico, oppure fu altro? Brecht non sciolse mai del tutto il dilemma e questo spiega la sua costante ambivalenza nei confronti della sua opera, mentre invece Jesi ha dato una risposta netta, non in polemica diretta con Brecht e neppure con Thomas Mann, ma basata sul rifiuto di stare per forza dentro le maglie strette della dialettica fra mito e storia. Jesi contesta che la fine dei due leader della rivolta sia rapportabile a un atteggiamento romantico-espressionista, ma si pone a lato di entrambi i poli della questione – il mito da uno la storia dall’altro – considerandoli non dentro una cogente e inestricabile relazione che ricorda più il destino che non la dialettica, ma cerca di leggere nella loro autonomia cosa sta dentro l’uno e dentro l’altra per giungere alla sua conclusione:

[…] Siamo perfettamente disposti a considerare la morte di Liebknecht e della Luxemburg, dal punto di vista della più razionale strategia politica, un errore; ma vogliamo distinguere le ragioni della loro scelta di morte da un “malinteso senso dell‘onore“ che fu individuato da alcuni storici subito dopo la seconda guerra mondiale […] si trattò di usare la propaganda  – oggi così simile a menzogna – nel suo significato più genuino: nello stesso significato –  ci si consenta una digressione di tempo e di luogo – in cui nel Vietnam si è scelto il suicidio col fuoco come simbolo di reazione contro l’aggressione americana. Giocare la propria persona sul limite della morte mentre le vie del quartiere dei giornali di Berlino erano campi di battaglia, significò allora compiere la sutura fra mito genuino, affiorato spontaneamente e disinteressatamente dalla profondità della psiche, e autentica propaganda politica. In questo modo la propaganda fu una manifestazione della verità, o almeno di quella verità in cui credevano le vittime della sua epifania.. 10

Nel capitolo quarto dal titolo Inattualità della rivolta, Jesi tira le fila della riflessione. All’inizio ricorda una frase di Nietsche che, pensando ai tedeschi e alla loro storia, afferma in sostanza che essi appartengono all’altro ieri e al dopodomani ma che non hanno un oggi. Jesi riprende la frase e la colloca in un contesto completamente diverso da quello pensato dal filosofo e cioè:

[…] all’intersezione dell’“una volta per sempre“ e dell’“eterno ritorno“: non tanto del tempo storico  e del tempo mitico ma dell’altro ieri e del dopodomani.11

Dopo aver notato che sulla rivolta premevano e si manifestavano forze del passato tedesco, per cui essa non scaturiva solo dalle contraddizioni del suo tempo, Jesi ne deduce la mancanza di una realistica valutazione di contraddizioni e rapporti di forza. In sostanza, ripete che mentre la rivoluzione è un rovesciamento dialettico dell’esistente che corrisponde all’oggi ed è compiutamente nella storia (immagino che la Rivoluzione d’Ottobre fosse sullo sfondo di tale ragionamento), la rivolta:

[…] conserva del passato eredità così pesanti da escludere un vera e propria dialettica […] La rivolta, proprio perché esclude la dialettica delle contraddizioni  interne al capitalismo nascente  è l’epifania violenta delle componenti reazionarie nelle mani dei rivoltosi, suscita il “dopodomani“ […] ne evoca l’epifania. Quali rapporti possiede quell’epifania con la realtà storica? In quale misura l’epifania del dopodomani è un contributo al rovesciamento del capitalismo?12

Per poter rispondere a tali domande occorre abbandonare il punto di vista storicista, del tutto interno alle contraddizioni dialettiche date ed è proprio questo uno dei temi centrali delle tesi sulla storia di Benjamin. La possibilità di valutare l’utilità dell’epifania del dopodomani:

 […] è insita in una indagine fenomenologica che agisce dall’interno garantendo dall’interno obiettività alla rivolta e alle sue esperienze del tempo […] riconoscere nella rivolta quell’esasperazione della reazione che prepara il dopodomani ben più della rivoluzione. Se ciò che importa è unicamente l’oggi o il domani niente è più riprovevole della rivolta. Ma se il dopodomani conta e conta più dell’oggi e del domani la rivolta è un fatto altamente positivo.13

Questo brano può forse aiutare meglio a comprendere perché il saggio introduttivo a Spartakus s’intitoli Sovversione e memoria. L’operazione che Jesi compie con questo libro si apre a ventaglio su molte questioni, ma prima di tutto ha a che fare proprio con quell’esigenza di compiere un’indagine fenomenologica dall’interno della rivolta. Il libro è prima di tutto questo e non mi sembra di avere letto altrove analisi altrettanto puntuali. Quelle più canoniche e scontate si limitano a prendere atto del fallimento, oppure si trincerano dietro l’omaggio a Luxemburg e a Liebknecht; oppure ancora sottolineano alcune cose ovvie, cui accenna anche Jesi e cioè che furono all’opera anche agenti provocatori. La sensazione è che la rivolta, come più volte accenna anche Jesi, sia stata messa fra parentesi anche da Brecht molti anni dopo, ma senza mai risolvere veramente il problema. Per tale ragione I tamburi nella notte escono ed entrano dalla sua produzione come qualcosa di semiclandestino. Qualcosa di più però era nell‘intento di Jesi e si preciserà risalendo al saggio sul Battello ebbro del 1996.

Il Battello ebbro e Spartakus

Il saggio su Rimbaud fu pubblicato una prima volta nel 1972 su Comunità e poi nel 1996 da Quodlibet. Esso è successivo alla stesura di Spartakus; solo che nessuno poteva saperlo con certezza, dal momento che quest’ultimo fu ritrovato fra le carte del suo autore soltanto nel 2000, vent’anni dopo la sua morte; tuttavia, erano in molti a sapere della sua esistenza e fra le testimonianze c’è anche una lettera di particolare importanza. Le due opere, in ogni caso, si rimandano l’una all’altra in un intreccio che pone molti problemi, anche di decifrazione dei due testi: entrambe infine, rimandano ad altre due opere di Jesi e cioè a Germania segreta e Il tempo della festa. Il saggio sul Battello ebbro è una vetta particolarmente elevata del suo lavoro critico e in particolare un’esemplificazione fra le più originali del metodo di lavoro, sempre indirizzato a trovare connessioni remote fra testo letterario e storia, storia e mito, ma rifiutando al tempo stesso la connessione dialettica fra i due termini che Jesi considera come già si è visto una manipolazione borghese del tempo: tale concetto è ripetuto più volte in forme diverse. Nel caso specifico di questo saggio c’è però un elemento in più, ingombrante e affascinante e cioè che il lavoro critico è su un testo intorno al quale, come Jesi stesso ricorda nei paragrafi introduttivi, è stato costruito, da chi è venuto dopo, un monumento imponente. Avvicinarsi al Battello ebbro vuol dire cimentarsi anche con la critica propriamente letteraria e con tale monumento.

Le date hanno un’enorme importanza nella ricostruzione del percorso intellettuale di Jesi. Nella sua introduzione a Spartakus, Cavalletti ricorda un particolare: fu proprio nella notte fra l’11 e il 12 dicembre del 1969 che Furio Jesi scrisse una lettera a un amico nel quale annunciava che la stesura di Spartakus. Simbologia della rivolta era finalmente concluso. Il giorno dopo a Milano successe qualcosa che cambiò radicalmente la storia italiana recente: la bomba di piazza Fontana. Cavalletti non lo nota, ma tale circostanza casuale ha a mio avviso profondamente a che fare con Jesi e con la sua ricerca, e forse permette anche di capire meglio per quale ragione un libro come Spartakus non fu pubblicato fino al 2000. Le vicende editoriali che Cavalletti riassume puntualmente nella sua introduzione, non sono a mio avviso sufficienti a determinare con certezza le ragioni per cui il libro venne alla luce così tardi. Jesi era già così noto e – anzi – considerato un enfant prodige della critica italiana, che non gli sarebbe stato difficile trovare un editore, dopo la rottura intervenuta con Silva; oppure poteva pubblicarlo egli stesso, come avveniva in quegli anni. Certe edizioni Feltrinelli – i piccoli libri rossi – che erano assai simili ai samizdat clandestini che venivano pubblicati in Unione Sovietica ma anche a Berlino nel 1968, lo avrebbero ospitato sicuramente. Forse Jesi scelse di non pubblicarlo, riflettendo su quanto stava avvenendo in Italia e lasciò fluttuare quel libro, ben sapendo che prima o poi sarebbe stato ritrovato. Quanto al Battello ebbro tutto sembra più chiaro, ma a ben vedere la cosa non è affatto scontata. Non ci sono dubbi sull’autenticità della lettera di Jesi del ‘69, ma non possiamo essere del tutto certi che Spartakus non sia stato modificato successivamente. Poiché in entrambi i testi ci sono parti riportate quasi letteralmente e integralmente in qualche caso, parrebbe scontato che si tratterebbe di una trasposizione dal primo al secondo, ma ci sono buone ragioni per pensare che potrebbe essere anche il contrario.

Il Battello di Rimbaud e il Battello di Jesi

Prima di entrare nel merito dell‘opera, Jesi sgombra subito il campo da un possibile equivoco: la partecipazione di Rimbaud alla Comune di Parigi è probabilmente leggenda, legata a qualche sua frase in cui il poeta esprime un generico entusiasmo per l’insurrezione e l’intenzione di partire per la capitale francese. Se anche non fosse leggenda, tuttavia, l’analisi di Jesi rovescia i termini della questione fino al paradosso: è se mai il testo ad avere partecipato all’insurrezione, ma non il suo autore. Rimbaud fu un profeta della rivolta, ma lo fu per una coincidenza di date e involontariamente, mentre di suo perseguiva altro fin dall’inizio: affrancarsi dall’angusta provincia francese per farsi notare da quelli di Parigi. Jesi s’interroga sulla natura delle visioni che vi compaiono e parla della presenza in esso di due miraggi. Il primo è una sospensione del tempo storico, espressione che Jesi ritiene essenziale per comprendere cosa sia una rivolta, come aveva scritto in Spartakus:

Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo […] Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sé non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico 14

L’equipaggio del battello, ucciso dai pellirosse, proietta il mezzo verso un viaggio immaginario, che per Jesi è collegato al mondo dell’infanzia. Se pensiamo a un bambino che gioca e che trasforma qualsiasi oggetto tenga in mano in qualcosa d’altro, ritroviamo alcune delle modalità del viaggio immaginario che Rimbaud fa compiere al suo battello. Il secondo, alla fine del testo, è il miraggio di un mondo rimpicciolito, dove il battello – ridotto alle dimensioni di una barchetta di carta che un bambino libera in una pozzanghera – riporta tutto a una dimensione prosaica e infantile: la visione lascia il posto a un mondo che torna a misura di bambino, ma che riflette anche la delusione di una sconfitta. Il regno della libertà senza limiti è perduto e l’immagine finale non è solo il ritorno a una dimensione rimpicciolita – un mondo di bambini come lo definisce Jesi – ma è paradossalmente anche il suo opposto: il bambino è diventato adulto, ha compreso che il regno della libertà senza alcun limite semplicemente non esiste. L’aspetto bambinesco e infantile, tuttavia, è presente in entrambi i miraggi e le due parole, peraltro, non sono la fotocopia l’una dell’altra: infantile vuol dire qualcosa di diverso dal semplice essere bambino e può benissimo descrivere anche la condizione di un diciassettenne come era Rimbaud quando scrisse il Battello ebbro che, ricorda Jesi una seconda volta, fu un testo d’occasione, scritto per farsi vedere e accreditarsi come poeta presso il mondo degli adulti che contano. Jesi arriva a definirlo una sorte di merce che il bambino-adolescente Rimbaud offre ai parigini e ai posteri che gli costruiranno sopra un duplice monumento: sul testo medesimo e sul poeta come personaggio. Arrivato a questo punto, Jesi s’interroga però sulle visioni che accompagnano il testo e le descrive come luoghi comuni. Il termine è usato in due accezioni diverse: l’una è quella che associa il concetto a qualcosa di prosaico, per esempio le immagini tratte da Magasin Pittoresque, una rivista molto amata da Rimbaud nella quale si ritrovano spunti paesaggistici che poi il poeta riusa nel testo (di cui parla peraltro Rimbaud stesso in Une saison en enfer). La seconda accezione del termine, più complessa, viene trattata da Jesi nel paragrafo 11 e ha a che fare con le immagini che provengono all’autore da non si sa da che cosa o dove. Jesi sta parlando del processo creativo e si chiede se sia lecito affermare che tali visioni giungono al poeta o che addirittura s’impadroniscono dello scrivente: è quello che intendevano i romantici per ispirazione, qualcosa che giunge al poeta da un altrove – Jesi lo definisce proprio un altro mondo – in cui si mescolano luoghi comuni o cose nuovissime, risonanze arcane e immagini che si sono impresse nella memoria e poi sono state dimenticate. Questo è per Jesi proprio il modo di funzionare della macchina mitologica. Dopo avere posto tale analogia, egli s’interroga sulla medesima e scrive:

Credere a ciò equivale a credere che il mito esista autonomamente entro la macchina mitologica […] Non credere a ciò equivale a non credere nell’esistenza autonoma del mito entro la macchina mitologica, equivale a essere persuasi che la macchina mitologica è vuota e che il mito così  come l’essenza dei luoghi comuni usufruibili nell’“Alchimie du verbe“, sia un vuoto cui la macchina mitologica rimanda. 15

Nel paragrafo 12, che cito per intero, Jesi tira le fila della sua riflessione:

Pare a questo punto che ci sia un’alternativa: fede e non-fede. E tuttavia, almeno entro i limiti del nostro linguaggio, (dunque entro i limiti in cui la parola “alternativa“ è significante), tale alternativa di fatto non c’è. Credere che il mito sia autonomamente dentro la macchina mitologica  – che l’essenza del luogo comune sia autonomamente dentro l’“Alchimie du verbe“ –  non può voler dire altro che il mito non c’è – che l’essenza del luogo comune non è: se ci sono, sono in un “altro mondo“: ci non-sono. Anche il più convinto sostenitore della non fede è costretto a consentire a un involontario atto di fede: non vi è fede più esatta in un“altro mondo“ che Ci non-è della dichiarazione che tale“altro mondo“ non è. La particella “ci“ aderisce strettamente al J’aimais di Rimbaud e indica soltanto l’adesione deliberata di contro all’adesione involontaria. Vi è d’altronde una differenza importante fra il negare per affermare e il negare per negare fra il dire che quel mondo“altro“ ci-non è e il dire che esso non è […] Assolutamente inadatta ad essere in qualche modo istruttiva circa quel mondo, poiché il nostro linguaggio resta inerte dinanzi al miraggio del divenire, “la freccia che supera la corda per essere raccolta nel balzo, più di se stessa“ codesta differenza è invece molto istruttiva circa il comportamento degli uomini che essa discrimina. Gli uni, gli uomini del ci-non è possono essere gli uomini della rivolta  e certamente sono predisposti a divenirne i profeti ed essere usati come i profeti di essa, e suoi fiancheggiatori che ne promettono la sua ripetibilità; gli altri, gli uomini del non è, hanno dinnanzi solo la rivoluzione o la conservazione se decidono di rinunciare a se stessi e di accettare i rapporti di forza in cui si trovano. Il fascino della rivolta consiste innanzitutto nella sua immediata inevitabilità:  essa deve ineluttabilmente accadere. Il tempo è sospeso: ciò che è una volta è per tutto. Così come nell’alchimia, se l’esperimento fallisce ciò significa che non si era sufficientemente consapevoli e puri. Il profeta annuncia la sospensione del tempo, ed anche la ripetibilità della sospensione del tempo. La rivoluzione può esercitare fascino assai minore proprio perché è estremamente arduo ed incerto stabilire quale sia il suo giusto tempo, ed anche perché, non essendo inevitabile, nel giusto tempo, se non ha luogo nel momento giusto non accadrà forse più per un lunghissimo intervallo di tempo.16

Ebbene, questo passaggio così decisivo per mettere a punto il nucleo teorico di cui Jesi si serve nella sua analisi della rivolta spartachista in Spartakus, si trova solo nel saggio sul Battello ebbro, mentre molti passaggi sono riportati alla lettera in entrambi i libri, per esempio quello qui di seguito, assai noto e celebrato:

[…] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la  collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città […]17

Torniamo al testo di Rimbaud. Nella sequenza di visioni che costellano il primo dei due miraggi compaiono  i fiumi impassibili, le incredibili Floride, le Penisole libere da ormeggi i sogni di notti verdi dalle nevi abbagliate e cioè tutto un campionario in cui si mescolano luoghi comuni banali e suggestioni, per approdare al luogo comune più frequentato dalla cultura europea a partire dalla seconda metà del ‘700: la fuga dall’Europa, verso il suo sud e l‘oriente. Il Grand Tour del battello ebbro, però, va verso le Americhe e questo è per quanto mi riguarda un passaggio decisivo che mi sembra Jesi sottovaluti. Il regno della libertà senza alcun limite, che il battello sperimenta, si trasforma presto nel suo opposto e improvvisamente il testo cambia tono:

[…] Filando eternamente sull’acque azzurre e immobili/, Io rimpiango l’Europa dai parapetti antichi!// Ho visto gli arcipelaghi siderei e isole/Dai cieli deliranti aperti al vogatore:/È in queste notti immense che dormi e t’esili/Stuoli d’uccelli d’oro o futuro vigore? –  Ma è vero ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti./Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro […] Se desidero un’acqua d’Europa è una pozzanghera/Nera e gelida quando nell’ora del crepuscolo/Un bimbo malinconico libera in ginocchio/ Un battello leggero come farfalla a  maggio […]

Rimbaud fra i miraggi e la storia

Jesi, oltre ai due miraggi, indica l’esistenza di un terzo livello – lui lo definisce con l’espressione significati terzi  – ed è proprio su tale terzo livello che si gioca la possibilità di una sintesi ed è anche, per quanto mi riguarda, il punto su cui la mia riflessione diverge da quella di Jesi. Tale terzo livello si gioca sempre dentro la dinamica fra l’aspetto bambino e infantile che percorre il testo di Rimbaud e il suo aspetto adulto. Jesi nota come il viaggio avventuroso del Battello sia dovuto al caso – Sentii che i trainanti non mi guidavan più – e con ironia sottolinea come esso non sia la La corazzata Potëmkin conquistata dal suo equipaggio per dare inizio a una rivoluzione. Jesi inserisce questa rapida notazione per ribadire che mentre la rivoluzione è una sequenza di atti pensati e programmati, la rivolta non lo è: si tratta di un chiaro riferimento di quanto affermato in Spartakus. Se l‘avventura del battello serve a Jesi per introdurre il dispositivo teorico del ci-non è, tuttavia egli ha per me il torto di fermarsi a quello da un punto di vista critico letterario e di saltare subito alle conclusioni:

[…] Nel Bateau ivre il fallimento dell’esperienza del regno della libertà in termini di materia poetica apre per Rimbaud la via di una critica al privilegio della materia poetica, che condurrà all’abbandono dell’attività creativa e all’esperienza abissina: dal luogo comune in sede di poesia al luogo comune in sede di comportamento. Se l’attività poetica di Rimbaud costituisce un momento di rivolta, la sua attività di commerciante e viaggiatore in Africa costituisce un  momento di rivoluzione. Si tratta però di una rivoluzione solitaria e pessimistica …18

Tale sintesi non mi convince perché è basata su una totale separazione del testo dall’adulto Rimbaud, che nascerebbe solo a opera compiuta. Jesi stesso ci ha però ricordato come per il poeta quello fu un testo d’occasione scritto perché lo vedessero quelli di Parigi e dunque nel diciassettenne era già attivo – seppure in modo ancora ingenuo – anche l’affarista: non ci sono mai stati due Rimbaud! Ci sono invece a mio avviso tre frammenti nell’opera, che si scostano dal meccanismo delle visioni e dei luoghi comuni e dunque dai significati primo e secondo. Sono tre frammenti che fra l’altro spiegano a mio giudizio la stranezza di questo Grand Tour che invece di dirigersi a sud e a oriente, va invece verso le Americhe. Il primo frammento è proprio all’inizio del testo:

[…] Col mio cotone inglese con il mio grano fiammingo/Non mi curavo più di avere un equipaggio/

Il secondo frammento si colloca idealmente nel mezzo, seppure un po’ spostato verso il finale:

[…] Spinto dall’uragano nell’aria senza uccelli/ – Nè i velieri anseatici, né i Monitori avrebbero/ Ripescato il mio scafo ubriaco d’acqua.

Infine proprio i versi finali:

/Non posso più, bagnato da quei languori e onde/Filare nella scia di chi porta cotone,/Né fendere l’orgoglio dei pavesi e dei labari,/né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni.19

Nel profluvio di visioni e luoghi comuni compare improvviso in questi frammenti l’orrore della storia: il battello trasporta le merci coloniali per eccellenza e va sulle rotte delle Americhe, perché è là che avvengono i traffici più sordidi, compreso lo schiavismo. Però nel testo, a dispetto di Rimbaud, è la rivolta che vince perché il battello alla fine dice che non può più filare nella scia di chi porta il cotone: certo, è tornato a essere una barchetta di carta liberata in una pozzanghera, ma il testo contraddice le scelte dell’uomo e non le conferma. Rimbaud non era un rivoltoso, tanto meno un rivoluzionario, ma un ribelle senza causa che, avendo in odio i piccoli borghesi di Charleville, scrive un testo d’occasione per farsi notare da quelli di Parigi.

Conclusioni provvisorie e in progress

Spartakus e il saggio sul Battello ebbro si rimandano l’uno all’altro e in fondo ha poca importanza sapere quale dei due venga prima e se il primo sia stato modificato. In entrambi c’è tuttavia un passaggio assai simile che mi porta verso le conclusioni: perché se l’aspetto puramente letterario dell’analisi Jesi si conclude nei modi già detti, il nucleo teorico messo a punto con il Ci-non è, rimane ancora inconcluso e incompleto. Riporto allora due citazioni che si trovano in entrambi i testi, pur con qualche minimo scostamento:

Da Spartakus: La differenza fra rivolta e rivoluzione non va cercata negli scopi dell’una e dell’altra […] Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sè non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà e di perennità di cui consiste la storia. La rivoluzione sarebbe invece interamente e deliberatamente calata nel tempo storico

Dal Saggio sul Battello ebbro: La parola rivoluzione designa correttamente tutto il complesso di azioni a breve e a lunga distanza che sono compiute da chi è cosciente di voler mutare nel tempo storico una situazione politica, […] ed elabora i suoi piani tattici e strategici considerando costantemente nel tempo storico i rapporti di causa ed effetto. Ogni rivolta si può invece descrivere come una sospensione del tempo storico. Nello scontro della rivolta si decantano le componenti simboliche dell’ideologia che ha esso in moto la strategia e solo quelle sono davvero percepite dai combattenti. 20

Nel finale del saggio sul Battello ebbro Jesi si rende conto che continuare a ripetere semplicemente che storia e mito, rivoluzione e rivolta sono pur sempre manipolazioni borghesi del tempo, non è sufficiente perché se si rimane fermi a questo si rischia di far ritornare dalla finestra una condizione destinale che si era scacciata dalla porta. Il problema è così affrontato nell’ultimo paragrafo, il tredicesimo. Ne cito solo le parti che si riferiscono al tema del rapporto fra storia e macchina mitologica, perché altre parti in cui Jesi ritorna alla critica letteraria del testo di Rimbaud non aggiungono nulla a quanto detto in precedenza.

L’una e l’altra, […] la rivolta e la rivoluzione, non contraddicono a livello concettuale il modello proposto dalla macchina mitologica. Anzi: nella prospettiva operata si adatta sia all’una sia all’altra e codesto modello finisce per identificarsi con l’a priori che resta quale fondamento solido e oscuro del processo gnoseologico. Di fronte all’essenza del luogo comune – o all’essenza del mito – non vi è autentica alternativa concettuale, bensì soltanto alternativa gestuale, di comportamento, […] che resta comunque circoscritto entro la scatola delimitata dalle pareti della macchina mitologica. Rivolta e rivoluzione a livello concettuale, restano null’altro che diverse articolazioni (sospensione del tempo; tempo giusto), del tempo che vige all’interno di quella scatola .[..] Spezzare codesta radice significherebbe disporre di un linguaggio o di un complesso di gesti tali da affrontare la macchina mitologica su un piano che consentisse di dichiarare al tempo stesso l’esistenza e la non-esistenza di ciò che la macchina dice di contenere […]21

Tale conclusione non ribadisce semplicemente il valore del nucleo teorico del ci-non è, che è pur sempre solo un concetto. La parte finale della citazione chiude una parte del discorso e si apre al tempo stesso su un orizzonte di senso che rimanda alla necessità di un linguaggio-gesto e a un altro libro di Jesi e cioè Il tempo della festa. È un passaggio che per analogia, si parva licet,  mi ricorda un altro passaggio e cioè quello che avviene fra i Manoscritti economico filosofici del ’43  che rimangono pur sempre nell’ambito della critica del pensiero e del concetti hegeliani e le Tesi su Feuerbach, purché le si legga sempre per intero e non si usi l’undicesima tesi come una clava da dare in testa a qualcuno. Jesi compie il medesimo passo con una coerenza ardua da seguire, eppure esposta con chiarezza, perché le elaborazioni dei suoi testi maggiori, non nascono solo da una rara capacità di scovare connessioni remote fra storia, mito e letteratura. In questo fu certamente un maestro, ma nel caso specifico dei testi ricordati essi non sarebbero nati se non fossero stati sostenuti anche da una felice combinazione di gesti-parole o viceversa perché la formula può essere usata a partire da entrambi i lati, come viene affermato nel paragrafo 13 del saggio su Battello ebbro. In questo senso ha ragione Cavalletti nell’affermare che quest’ultimo è anche un passo avanti rispetto a Spartakus, ma non nel senso del superamento dialettico hegeliano. Il giudizio di Cavalletti che il saggio in questione sarebbe anche una critica degli spartachisti come si evince nella conferenza di Scaldasole Books non mi convince, se non in parte. Jesi non rivede il suo giudizio, contenuto in Spartakus e per questa ragione lo riporto una seconda volta qui:

[…] Siamo perfettamente disposti a considerare la morte di Liebknecht e della Luxemburg, dal punto di vista della più razionale strategia politica, un errore; ma vogliamo distinguere le ragioni della loro scelta di morte da un “malinteso senso dell‘onore“ che fu individuato da alcuni storici subito dopo la seconda guerra mondiale … si trattò di usare la propaganda  – oggi così simile a menzogna – nel suo significato più genuino: nello stesso significato –  ci si consenta una digressione di tempo e di luogo – in cui nel Vietnam si è scelto il suicidio col fuoco come simbolo di reazione contro l’aggressione americana. Giocare la propria persona sul limite della morte mentre le vie del quartiere dei giornali di Berlino erano campi di battaglia, significò allora compiere la sutura fra mito genuino, affiorato spontaneamente e disinteressatamente dalla profondità della psiche e autentica propaganda politica. In questo modo la propaganda fu una manifestazione della, verità, o almeno di quella verità in cui credevano le vittime della sua epifania.. 22

Il suo concetto di superamento si smarca sempre dalle ferree leggi della dialettica, perché un superamento reale o avviene grazie a una praxis diversa, cioè a una parola-gesto diversa, oppure è un superamento idealistico che avviene solo nel concetto. Nei testi che sono confluiti in Il tempo della festa, almeno secondo quanto scrivono Cavalletti e Il saggio di Kieran Aarons, Cruel Festivals: Furio Jesi and the Critique of Political Autonomy Jesi criticherà anche la rivolta, ma senza condanne del passato spartachista o dei comunardi, e la ragione la vedo nell’essere lui stesso dentro quella necessità di possedere una parola-gesto che sia esposta e quindi riconoscibile. Questione quanto mai importante per noi che viviamo nel tempo della chiacchiera includente e della sinistra afasica.


1 Il saggio in questione ha il pregio di saltare sopra tutta una serie di problemi, per andare al nocciolo di una questione di grande importanza e cioè il modo di trattare da parte di entrambi la dialettica e il tempo. Anche Benjamin si pose una prima volta questo problema nel più importante dei suoi saggi giovanili, intitolato Della violenza e del diritto, scritto nel 1921. Il saggio può essere considerato come la sua riflessione sulla Rivoluzione d’Ottobre. In esso, oltre a sostenere con forza la piena legittimità della rivoluzione, si poneva tuttavia il problema di non dare per scontata l’esistenza di coppie dialettiche che invece vanno viste nelle loro diverse componenti interne e non nelle immagini sintetiche che se ne danno. La riflessione di Jesi sugli stessi argomenti ha delle analogie con l’opera di Benjamin, che Jesi conosceva molto bene.

2 Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pag. 14.

3 Thomas Mann La montagna incantata. La mia edizione è quella antica di Dall’Oglio pubblicata nel 1930 , pag. 803.

4 L’espressione è usata diverse volte nel libro e anche in altri saggi

5 Furio Jesi, Spartakus,Simbologia  della rivolta, Bollati Boringheiri, Torino 2000, pag. 15.

6 Nel prosieguo del testo Jesi abbonda di digressioni storiche ma anche di riferimenti al teatro proletario di Piscator con accenti che ricordano le esperienze compiute da Benjamin e Lācis a Riga e a Mosca. Questa parte del libro sarà un po’ trascurata per arrivare invece a uno snodo che ci riporta al tema centrale di questa riflessione. Il libro di Jesi, non facilmente reperibile se non in biblioteca, merita di certo una lettura nella sua totalità.

7 Op.cit.pag. 19.

8 Op. cit. pp.18-33.

9 Il saggio in questione s’intitola Che cos’è il teatro epico in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.

10 Op.cit.pp.15-16.

11 Op,cit. pag. 82. Credo sia utile aggiungere una breve spiegazione di alcune parti di questa citazione, che anche il libro fa. Luxemburg e Liebknecht avrebbero potuto lasciare Berlino in tutta sicurezza e rifugiarsi altrove, ma decisero di rimanere e di correre il rischio della loro cattura e morte, quasi certa viste le circostanze.

12 Op.cit. pag.83.

13 Ivi.

14 Spartakus, simbologia della rivolta, pag. 11 Alla vigilia della sua partenza per Parigi Rimbaud legge il Bateau ivre all’amico Ernest Delahye. Consegnandogli il testo aggiunge: “L’ho fatto perché lo vedano quelli di Parigi“. Op.cit. Pag.13.

15 Furio Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, con prefazione di Giorgio Agamben un saggio di Andrea Cavalletti, Quodlibet, pag.28.

16 Op.cit. pp-20-30.

17 Nel saggio su Rimbaud alla pagina 23-4.

18 Furio Jesi, lettura del Bateau ivre, pag. 28.

19 Op.cit. pp. 39-43.

20 Op. cit. Pag. 22.

21 Op.cit.31.

22 Op.cit.pp.15-16.

IL SEGRETO DI LENIN

UN ALTRO RACCONTO DAL LIBRO FIGURE

Pochi conoscono un episodio minore di quella grande epopea che fu la Rivoluzione d’Ottobre, un evento ormai lontano nel tempo e che verrà presto del tutto dimenticato.   Vale la pena di riferirlo perché riguarda nientemeno che Vladimir Ilich Ulianov … Lenin insomma! La ricostruzione di questa vicenda si basa su diverse testimonianze,  di cui una è la più importante, in quanto si tratta di una fonte diretta. Fu raccolta  molti anni fa a Mosca da alcuni studenti universitari; si era al tempo del disgelo krusceviano, si tentavano nuovi metodi nel fare storia, fra cui quello di raccogliere le testimonianze orali di chi aveva partecipato ai fatti, oppure ne era stato coinvolto in qualche modo. Per dare al lettore maggiori possibilità di comprendere ci soffermeremo un poco sul contesto degli eventi.

La Russia era sconvolta dalla guerra civile. Le battaglie erano ovunque perché non esisteva un vero fronte di guerra. I luoghi nevralgici, tuttavia, erano concentrati nel bacino del Don, lungo la ferrovia Transiberiana e ad ovest di Pietrogrado. Fu proprio su  questo fronte che accaddero gli eventi che ci interessano. Agli inizi del 1919, la cittadina di Krasnoye Gorka fu assediata dalle truppe del Generale bianco Judenič.  Il pericolo era evidente perché da quella posizione era  possibile  sferrare  un attacco alla capitale baltica  e  addirittura  ricongiungersi con  le  truppe  dei generali Miller ed  Ironside,  di  stanza  ad Arcangelo.  La cittadina resistette per qualche mese ma fu poi costretta ad arrendersi. Vi  furono molti morti e molti prigionieri, quasi  tutti  condannati  alla pena capitale.  Fra  questi ultimi vi era una donna e quando  Lenin ne fu informato fece di tutto per salvarla, cercando persino un contatto con lo stato maggiore bianco, che  rifiutò. Poi le cose andarono diversamente da quanto sembrava ineluttabile. I  Bianchi, convinti come erano di  conquistare  Pietrogrado, rinviarono le esecuzioni. L’attacco alla città, però, fallì, la loro rotta  fu  completa;  tanto  che   il  Generale Judenič fu costretto a riparare all’estero.  Molti alti ufficiali bianchi furono invece catturati e rinchiusi nella Fortezza di Pietro Paolo,  prima  di essere fucilati.  Uno di loro  di  cui  la testimone non ricordava il nome, forse lo stesso aiutante di campo  del Generale, la sera precedente l’esecuzione chiese di parlare con Lenin.  Questi dapprima rifiutò, sospettando l’intenzione di una domanda di grazia; il generale, d’altro canto rinnovò la  richiesta  respingendo  sdegnosamente  il sospetto. Lenin, seppure riluttante, dovette allora accettare, ma chiese di essere  accompagnato da un testimone e  scelse  una giovane compagna.  Fu lei a  raccontare  agli studenti della Facoltà di  Storia  Moderna dell’Università di Mosca ciò che avvenne quella sera e nei mesi successivi.

Le guardie e il piantone ci guardarono esterrefatti. Non erano molte le donne che entravano nella fortezza e il fatto che accompagnassi lui poi, dovette sorprenderli ancora di più. Lenin riunì il corpo di guardia e spiegò brevemente la ragione della visita. Fummo portati in un lungo corridoio e camminammo per un po’, finché il piantono non si fermò davanti alla porta di una cella. L’alto ufficiale che vi era rinchiuso sapeva del nostro arrivo e anche della mia presenza e ci aspettava in piedi. Ci guardò portandosi una mano alla fronte e schermandosi il viso, tanto che il gesto ci sembrò una specie di saluto militare al quale Lenin rispose con fastidio. Il generale, allora, spostò, il lume e così capimmo che stava semplicemente cercando di vederci meglio: voleva sincerarsi che quell’uomo basso di statura e dimesso che gli stava danti fosse davvero il capo della rivoluzione. Lenin gli domandò in modo perentorio cosa diavolo volesse, se si trattava di qualcosa riguardante la famiglia

…”No, Vladimir Ilich Ulianov! È di voi che si tratta!”

Ricordo molto bene le parole del generale perché Lenin, udita la frase, si arrestò immobile come se fosse stato colpito da una frustata. Il generale lo fissò per un istante, poi visto che taceva, proseguì, fatemi ricordare bene le parole che disse:

“Perché insisteste così tanto e in modo così sconveniente per voi (disse proprio così sapete), nel chiedermi la grazia per quella donna?”

Io non sapevo a che cosa alludesse e mi voltai verso Lenin. Non so cosa gli passasse per la testa, ma la sua espressione cambiò almeno tre volte in un minuto. Entrambi continuavano a tacere e Lenin mi parve improvvisamente confuso. Si passò la mano sulla fronte, in quel suo modo così caratteristico, tenendo due dita alle tempie e massaggiandole, così che le altre dita della mano andavano avanti e indietro sulla testa. Si voltò verso di me e mi chiese di uscire, scusandosi che fosse proprio lui a domandarmelo, dopo che mi aveva voluto con sé come testimone.

Trovai del tutto naturale la richiesta, in fondo si trattava di un fatto personale, non politico. Una volta uscita, però, mi sentii inquieta e a disagio; mi sembrava di essere piombata di colpo in una zona d’ombra, pensavo alle spiegazioni che si sarebbero dovute dare una volta usciti. Pensai che in fondo non era affar mio, eppure mi sentivo toccata profondamente, tanto che non seppi resistere alla tentazione di origliare. Appoggiai la testa alla porta e attesi. Lenin aveva cominciato a parlare, ma non riuscivo ad afferrare le parole; mi colpì la sua voce, così diversa dal solito, meno decisa. Parlava con fatica, trascinando l’una dietro l’altra le parole.

Non ricordo quanto durò la conversazione; se conversazione fu! Perché non mi parve di udire la voce del generale.

Quando sentii bussare dall’interno chiamai il piantone e rientrai nella cella insieme a lui. Lenin ci volgeva le spalle, si voltò lentamente e uscì passandomi di fianco. Mi colpì l’espressione esterrefatta del generale, come se si fossero aperte per lui le porte su una realtà del tutto impensata. Fui così colpita da quello sguardo che il piantone dovette chiamarmi per farmi uscire. Percorremmo di nuovo senza parlare i corridoi della fortezza; Lenin camminava a testa bassa, non vedeva nulla, preso come era nei suoi pensieri, serrato in sé e impenetrabile.

Oltre un anno dopo, durante  i  primi mesi del 1921, quando ormai la Guerra Civile era stata vinta, la testimone s’imbatté in un corteo funebre e riconobbe subito molti compagni famosi, fra i quali alcuni e alcune che incontrava spesso alla scuola di formazione. Domandò chi fosse morto e seppe che si trattava di una compagna straniera che aveva condiviso con Lenin gli anni dell’esilio in Svizzera …

Dentro di me ebbi subito la certezza che quella donna fosse colei di cui aveva parlato il generale. Risalii il corteo e lo vidi in prima fila. Ricordo ancora oggi il suo volto, non lo dimenticherò mai. Vladimir Ilich camminava a stento, sorretto dalla Krupskaja e da un altro che non riconobbi; il berretto era calato sul volto, quasi a schiacciarlo, ma ciò che mi spaventò fu il suo pallore. Fu l’ultima volta che lo vidi; tre giorni dopo il funerale fu colpito dal suo male e la circostanza mi impressionò moltissimo. Domandai ad altri e così seppi che quella donna aveva avuto un ruolo importante nel viaggio di ritorno in Russia; nulla di preciso perché non aveva incarichi politici ufficiali, ma Lenin la stimava più di ogni altro compagno.

Non sapevo cosa pensare, mi sembrava tutto così strano. Era forse stata la sua amante? Continuai le mie indagini (orami avevo conoscenze fra molti compagni e compagne che occupavano ruoli importanti) e venni a conoscenza di particolari che ignoravo. Il viaggio di ritorno sul treno piombato era stato molto burrascoso; il segreto stava proprio in una conversazione che si svolse fra Lenin e la donna mentre il treno stava per arrivare alla stazione di Pietrogrado. Fu una compagna presente a riferirmelo, parola per parola, ma mi pregò sempre di non fare il suo nome.  Pare che il colloquio fosse stato concitato e che Lenin le chiedesse ripetutamente di rimanere con loro; le aveva proposto diversi incarichi ma lei rifiutava ostinatamente.

“Perché vuoi che rimanga? Sono malata e poi non sono adatta ai compiti che vi aspettano. Voglio sentirmi libera, guardarvi da lontano; non smetterò di aiutarvi e non farò nulla contro di voi, questo lo sai.”

Tutte le volte che Lenin parlava delle sue capacità lei si arrabbiava molto e Lenin ne rimaneva molto sorpreso ogni volta. Insistette anche quella volta e lei allora lo ascoltò di nuovo, quasi rassegnata.

“Tu ne possiedi molte di capacità, ma una in particolare che manca a tutti noi e quello che è accaduto questi giorni in treno mi ha aperto gli occhi. Sappiamo affrontare ogni situazione, anche le più dure, ma quando parli tu, tutti, me compreso, abbiamo la sensazione … Ti ricordi quando ti davo i miei appunti? Tu li annotavi, li cambiavi, acquistavano una forma diversa, sembravano gli stessi concetti e invece risultavano a tutti più chiari e convincenti e condivisi. Anche allora, ricordi, ti chiesi le stesse cose di oggi.”

“Avrai le stesse risposte; non posso.”

“Perché? Perché? Tu sei l’unica capace di risolvere i problemi facendoci rimanere tutti uniti.”

La compagna che aveva udito queste parole le ricordava con precisione, tale fu l’impressione che le fecero; non se le sarebbe mai aspettate da uno come lui! Pare che all’arrivo del treno Lenin non si curasse della concitazione che c’era, poi ne fu travolto e la perse di vista. Una volta sceso, vi ricorderete tutti quella fotografia di lui che si rivolgeva alle masse. I suoi occhi non smisero per qualche attimo ancora di cercarla tra la folla, ma lei se n’era già andata. Era scesa dal treno dalla parte opposta, quella dai scendono i macchinisti e aveva fatto perdere le sue tracce.

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