IL CESELLO ARRUGGINITO. Terza parte

Favole moderne e lestofanti

Nel pieno degli anni ’90, si diffuse una vera e propria frenesia matematica, riguardante gli studi economici ma non solo. L’intento era quello di calcolare i guadagni a lungo termine che si potevano conseguire a partire da una semplice opzione o prodotto finanziario.9 Era tutto un fiorire d’equazioni, finché quel lavorìo fu finalmente coronato da successo e ottenne il massimo dei riconoscimenti con l’attribuzione del premio Nobel per l’economia agli esimi professori Robert Merton e Myron Scholes. I due avevano trovato l’equazione matrice, la madre di tutti i prodotti cosiddetti derivati, grazie alla quale promettevano la crescita indefinita di ricchezza, una cornucopia senza limiti. Fedeli alle loro convinzioni e corroborati dal prestigioso riconoscimento, i due – moderna versione in chiave ‘scientifica’ de il gatto e la volpe – decisero di dar vita al Fondo d’investimento Long term capital management (LTCM). Dopo un anno d’applicazione della famosa equazione, il Fondo totalizzò un buco di bilancio di 3,5 miliardi di dollari! Inutile domandarsi se ai due sia stato almeno tolto l’emolumento conseguito con il Nobel. Ciò non fu possibile perché fra i clientes di tale memorabile impresa finanziaria vi erano molte e importanti istituzioni europee e statunitensi, fra cui, secondo quanto denunciato da Loretta Napoleoni: “… l’Ufficio Italiano Cambi e la Banca d’Italia.” 10

Per evitare l’effetto domino, coprire lo scandalo e nascondere la figuraccia, la Federal Reserve statunitense fu costretta a salvare il fondo immettendo denaro fresco nelle sue esauste casse. Ciò che colpisce in tutto questo, come afferma la stessa Napoleoni nel suo bel libro, è la leggerezza di chi affida i proprio soldi a simili venditori di bufale. Lo stesso, peraltro, era già accaduto con un truffatore vero e proprio, il famigerato Madoff, condannato recentemente dalla giustizia statunitense a un numero esorbitante d’anni di carcere. In questo secondo caso, poi, tale mal riposta fiducia assume davvero toni grotteschi perché la truffa architettata dal finanziare è vecchia come il mondo: si tratta, infatti, del sistema cosiddetto Ponzi, una catena di Sant’Antonio grazie alla quale si promettono rendimenti favolosi a breve termine che vengono pagati con i soldi dei nuovi sottoscrittori e giocando sulla differenza di tempi di rimborso. Naturalmente, è sufficiente una competenza da ragioniere per calcolare in quanto tempo il sistema crolla su se stesso. Come si possa cadere in una trappola come questa è difficile davvero da comprendere! 

Forse la risposta sta nel denaro in sé, nei sentimenti ambivalenti che suscita, dal senso di colpa che colpisce coloro che lo maneggiano; forse in alcuni straricchi c’è persino un’inconscia pulsione a liberarsene. Fra i colpiti dalla truffa di Madoff e dal fallimento del fondo dei due esimi premi Nobel, infatti, ci sono molti attori di Hollywood; Steven Spielberg ha perso gran parte dei suo patrimonio e così molti altri. È la maledizione del denaro, quel mix di razionale e irrazionale che si porta appresso. Tuttavia qui non abbiamo a che fare solo con gli ingenui protagonisti delle favole e neppure con straricchi sbadati, ma con istituzioni che governano la vita di tutti. Si può concordare con Loretta Napoleoni quando afferma che i due premi Nobel “Merton e Scholes sono i re Mida degli anni ’90, ma che non sono delinquenti  come Madoff…” 11

Tuttavia c’è da domandarsi cosa ne è degli altri che hanno creduto così facilmente ai due pifferai magici, a cominciare dall’Accademia di Svezia. Nel caso della giuria del premio Nobel è davvero difficile esprimersi, mentre nel caso di prestigiose banche e istituzioni internazionali occorre una riflessione più approfondita.

Se si esclude di avere a che fare con dei cretini, allora la spiegazione va cercata ancora una volta nel meccanismo profondo che governa la finanza e nei comportamenti che induce. Se la logica, infatti, è quella dell’accumulo a breve termine e i manager vengono remunerati, non in base a un progetto che duri nel tempo, ma soltanto in ragione della velocità di accumulo degli utili, ogni programmazione a lungo termine viene meno. Ciò che conta è ottenere il massimo nel più breve tempo possibile, quello che avviene dopo non conta nulla. Se un manager riesce a convincere un numero sufficientemente grande di sottoscrittori e la sua raccolta di soldi in un anno è ingente, verrà remunerato per quello e non per le conseguenze a medio e lungo termine dei suoi investimenti. Questa logica da Prendi i soldi e scappa diviene nel tempo la sola che ispira tutti i comportamenti, generando quindi un sistema e una prassi volta al fallimento: ma nel breve tempo in cui il gioco funziona qualcuno che si è arricchito c’è stato eccome! A cominciare naturalmente dai manager in questione, mai tanto remunerati negli scorsi anni e mai così falliti! Questa spiega anche il continuo passaggio di amministratori delegati e altre figure simili da un settore all’altro e da un’azienda all’altra. Proprio perché sanno che a medio e lungo termine i loro castelli di carta crollano, l’importante è saltare da una banca all’altra, da una finanziaria all’altra, costantemente in bilico su zattere improvvisate dentro un fiume in piena. L’importante è stare in piedi in qualche modo finché dura.       

E veniamo infine a Pound e al suo Canto XLV, detto anche dell’Usura. Trattandosi di un testo poetico non lunghissimo, ma di grande portata e valore letterario, preferisco citarlo integralmente in lingua e nella mia traduzione.

With usura hath no man a house of good stone

Each block cut smooth and well fitting

that design might cover their face,

with usura

hath no man a painted paradise on his church wall harpes et luthes

or where virgin receiveth message

and halo projects from incision,

with usura

seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines no picture is made to endure nor to live with but it is made to sell and sell quickly

with usura sin against nature,

is thy bread ever more of stale rags

is thy bread dry as paper,

with no mountain wheat, no strong flour

with usura the line grows thick

with usura is no clear demarcation

and no man can find site for his dwelling.

Stone cutter is kept from his stone

weaver is kept from his loom

WITH USURA

wool comes not to market

sheep bringeth no gain with usura

Usura is a murrain, usura

blunteth the needle in the maid’s hand

and stoppeth the spinner’s cunning.

Pietro Lombardo

came not by usura

Duccio came not by usura

nor Pier della Francesca; Zuan Bellin not by usura nor was “La Calunnia” painted.

Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis, Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit.

Not by usura St Trophime

Not by usura Saint Hilaire,

Usura rusteth the chisel

It rusteth the craft and the craftsman

It gnaweth the thread in the loom

None learneth to weave gold in her pattern; Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroiled Emerald findeth no Memling

Usura slayeth the child in the womb

It stayeth the young man’s courting

It hath brought palsey to bed, lyeth

between the young bride and her bridegroom

CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis

Corpses are set to banquet

at behest of usura. 12

Ciò che colpisce nel testo poundiano sono l’approccio realistico e la competenza che dimostra anche sul piano strettamente economico.13

Il secondo aspetto che balza all’occhio è l’arditezza dei correlativi oggettivi, il ruolo che la figura retorica della similitudine vi svolge, la quasi completa rinuncia alla metafora, il dispiegarsi di un procedimento che ci porta all’allegoria attraverso un percorso differente rispetto a quello cui siamo normalmente abituati.

Pound riesce a distillare, in questo testo, il meglio che la poesia anglo-americana ha saputo fare suo in modo originale, a partire da una delle tante lezioni di Baudelaire: portare ciò che sembra impoetico nel cuore della poesia e del suo linguaggio, rinnovandoli entrambi profondamente. È un procedimento che viene ancora più da lontano, dai Metafisici del ‘600, da John Donne in particolare, seppure senza il suo wit. Allora erano le scoperte geografiche a entrare nel linguaggio poetico, insieme alla riscoperta dell’autonomia dell’eros e del corpo femminile.

Nel caso di Pound è addirittura l’economia a divenire oggetto di poesia: quanto di più prosaico e lontano da essa, secondo i canoni correnti!

Incatenando fra loro una serie di similitudini memorabili, Pound rompe anche questo tabù, entra nel vivo di un territorio fino a quel momento estraneo al dettato poetico, lo muta per il solo fatto d’entrarvi. Proviamo allora a ripercorrere questo testo.

L’inizio perentorio stabilisce subito una similitudine che diventerà ricorrente in tutto il canto, concretizzandosi di volta in volta in esempi diversi: in essa l’usura si contrappone alla pietra e alla casa, la dimora dell’essere umano, l’ubi consistam di cui tutti hanno bisogno e senza il quale non esiste vita sociale, né individuale. Pound non usa il termine finanza e preferisce quello medioevale d’usura (peraltro tornato assai di moda). Un altro modo di sottolineare tale ritorno allo scenario medioevale è l’uso che egli fa dell’arcaismo linguistico: termini come hath, thou, seeth e altri, non appartengono più all’inglese moderno, ma si riferiscono a un mondo linguistico e culturale in cui l’usura, cioè la finanziarizzazione selvaggia dell’economia non era ancora penetrata o stava per penetrare. Tuttavia non è difficile rapportare tutti gli esempi che fa al mondo contemporaneo: la volatilità e l’evanescenza del denaro e la pietra, la casa solida e il dominio astratto e malefico della quantità numerica. La finanza si contrappone alla vita reale, alla solidità della costruzione, è accumulo di ricchezza nominale e di miseria morale e materiale. Egli scrive come parlerebbe un oracolo, il tono è solenne, il verso lungo ha un incedere maestoso, l’iterazione della parola usura e l’improvviso irrompere di versi brevi e martellanti quasi a tempo di improvvisazione jazzistica e addirittura di rap, sfocia nell’invettiva, addirittura nella maledizione. Eppure quanta concretezza, realismo e competenza! Quando Pound scrive che con l’usura la lana non giunge al mercato, lo sciocco potrà imputargli un peccato d’ingenuità, l’economista potrà fargli notare che la lana non arriva più al mercato grezza ma già lavorata e che il poeta parla di un mondo che non esiste più ecc. ecc. Quanto di più falso!, e lo vediamo proprio nella realtà odierna, così come nel ’29. Le merci giacciono inerti nei mercati, la crescita esponenziale della ricchezza finanziaria si dissolve, i valori nominali crollano dopo che si erano gonfiati in modo abnorme: si giunge così al paradosso di avere contemporaneamente un eccesso di denaro inutile e un eccesso di merci invendute.

Però i versi di Pound non sono un trattato d’economia, sono concreti come un’analisi scientifica ma suonano sinistri. Un alone di sventura aleggia intorno al testo, anche per l’uso sapientemente voluto della parola italiana, che ha un suono lugubre e sinistro, accentuato dalla ripetizione. Perché? Che cosa evoca Pound? Tocchiamo qui la capacità peculiare della poesia di nominare qualcosa di semplicissimo e risaputo, ma di farlo in modo nuovo e scegliendo situazioni emblematiche. Se isolassimo il semplice contenuto di pensiero sotteso a tali versi ci accorgeremmo che il loro nucleo può risultare persino banale se fosse detto in senso puramente letterale. Esso suona infatti così: tutto ciò che di solido e di bello l’umanità ha prodotto non dipende dal denaro, ma dal lavoro, dal poiein, dal fare. È il faber contrapposto alla potenza astratta e impersonale del dominio quantitativo, il cui unico scopo è l’accumulo: è la hybris moderna, attitudine faustiana e demoniaca che non ha neppure bisogno del patto con il diavolo, dal momento che esso è intrinseco al meccanismo economico capitalistico dominante. Se vi è l’uno non vi è l’altro, solo che la poesia non nomina astrattamente tale incompatibilità, ma l’incarna concretamente in un’elencazione emblematica. ‘Se hai l’usura non avrai più Piero della Francesca, se vuoi l’usura non avrai più la casa’ e se pensiamo allo scandalo dei cosiddetti sub prime, cioè dei mutui che hanno mangiato proprio le case ai poveretti che li avevano sottoscritti, ancora una volta siamo sorpresi dalla concretezza. Tuttavia anche gli esempi non sono scelti a caso. Pound nomina Piero della Francesca, non Michelangelo, perché il periodo rinascimentale è già inquinato dall’usura e dal nascente capitalismo. Il pensiero di Pound è poeticamente rigorosissimo, non fa sconti a nessuno! Non lasciamoci travisare dal suo personale credo ideologico, ma guardiamo al dettato poetico. L’esemplarità dei correlativi oggettivi crea intorno all’usura un senso di tragedia incombente, ma mette noi lettori di fronte a qualcosa che, nei suoi sviluppi successivi, conosciamo fin troppo bene. Con l’usura finisce il ‘saper fare’, (la sequenza in cui l’ago si ottunde nelle mani della ragazza, il telaio arrugginisce ecc.) che a lungo andare provoca dissesti e tragedie! Colpisce, per la sua forza sinistra, anche l’immagine dell’usura che giace nel letto fra lo sposo e la sposa o che impedisce al giovane il corteggiamento. Parole d’altri tempi? No, dei nostri! Come possono i giovani uscire di casa e farsi una vita propria e avere dei figli se non hanno un lavoro e un reddito? Come è possibile consumare e ridare fiato all’economia (come viene richiesto quotidianamente dalla propaganda mediatica, ma anche ripetuto da illustri ministri dell’economia) quando il lavoro è sempre più precario? È la quadratura del cerchio! Se una persona qualunque, in altri contesti, facesse affermazioni così palesemente contraddittorie, finiremmo per dubitare delle sue facoltà mentali o penseremmo di trovarci di fronte a quel tipico loop o corto circuito che la teoria psicanalitica indica con il termine di ingiunzione paradossale: ma a parlare in questo modo sono i gestori dell’economia mondiale, molti dei quali hanno creduto a suo tempo alla formula magica dell’Eldorado!

Per tornare a Pound, ancora una volta sorprende l’attualità di questi versi che ci arrivano tuttavia, carichi di una sventura che rimanda ai flagelli biblici e alle catastrofi naturali.

Pound tuttavia insiste molto anche sull’opera artistica, la sua elencazione precisa ci offre un panorama di assenze crescenti d’opere d’arte, il rinsecchirsi di una capacità autoriale con cui ci troviamo a fare i conti oggi. Non c’è forse un nesso fra l’avvento della società narcisista e dello spettacolo e la crescita esponenziale e globale (peraltro inevitabile in un sistema capitalistico), dell’economia finanziaria (Pound direbbe usuraia)? La pletora di libri perlopiù invenduti e comunque non letti, il consumismo culturale acefalo, l’invadenza televisiva, non sono forse la sovrastruttura dell’economia di carta e nominale? Oppure il contrario. Sono gli apparati della comunicazione di massa e della spettacolarizzazione di tutto che, veicolando una filosofia ottimistica e criminale, favoriscono l’abbandonarsi senza alcuna capacità critica ai meccanismi acefali della finanza?

Una favola moderna come Le avventure di Pinocchio può essere molto utile per comprendere alcuni tratti della realtà attuale. 

Il libro è talmente noto che mi soffermerò soltanto sul ruolo che vi svolgono in essa il paese dei balocchi e l’omino di burro, che rappresentano molto bene a mio avviso, la profondità dei fenomeni contemporanei di alienazione.

Nella favola di Collodi il paese dei balocchi riassume sinteticamente tutte le cadute precedenti di Pinocchio, anche se proprio da quell’ultima avventura disastrosa inizia la sua emancipazione dalle pulsioni negative che lo hanno governato fino a quel momento e che trasformeranno finalmente il burattino in un ragazzo. Il paese dei balocchi assomiglia superficialmente a un parco dei divertimenti; solo che non si tratta di una parentesi bensì della vita intera. Il suo gestore occulto, l’omino di burro, non appare quasi mai in scena ma si manifesta attraverso l’organizzazione di questa strana società e tramite gli effetti che tale organizzazione sociale produce sui suoi abitanti. Ciò che l’omino di burro promette è la felicità permanente, il divertimento e lo spettacolo senza soluzione di continuità, la spensieratezza indefinita: il paese dei balocchi è in buona sostanza un paradiso artificiale, creato appositamente per una popolazione di pueri eterni. Infatti i suoi abitanti sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale e acefala; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine. Letto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai. Le analogie con gli apparati propagandistici e con l’invasiva presenza totalizzante della televisione mi sembrano quanto mai appropriati; è sufficiente seguire per un giorno intero la miriade di giochi televisivi dove, con la semplice risposta a domande idiote, oppure grazie al semplice caso, si possono vincere somme di denaro spropositate. Il vecchio Lascia o raddoppia fa persino tenerezza se confrontato a questi programmi!

Quando Pinocchio esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come animale: è un asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo. Credo che qualcosa di simile alla condizione asininina attende la società occidentale, una volta raggiunto il fondo di questo tunnell!

Favola, pseudo scienza, pressione mediatica segnano oggi il ritorno della più completa irrazionalità nel governo dell’economia. Non sono gli scrittori a dirlo ma i responsabili delle banche. Intervistato recentemente, il direttore generale dell’Ubs (Unione banche svizzere), ha dovuto riconoscere che il colosso elvetico non è in grado di dire quanti titoli cosiddetti tossici sono finiti nel suo portafoglio clienti perché per seguire il percorso di un titolo e seguirne tutti i passaggi di mano e le transazioni occorrerebbe un lavoro di mesi. Infine, l’episodio tragicomico dei due esimi premi Nobel, sfata una volta per tutte  la sciocchezza che i capitalisti sono i più indicati a gestire il capitalismo e che anche per questo le forze alternative non sarebbero in grado di accedere al governo. Se istituzioni come quelle citate in precedenza hanno potuto credere così facilmente a una formula magica viene semplicemente da ridere!

Le favole, quelle vere naturalmente!, possono invece suggerirci qualcosa di più e di meglio. Esse contengono sempre una morale molto chiara: il delirio di onnipotenza dei loro protagonisti viene sempre punito severamente da una legge superiore. Tale punizione, modernamente intesa, non può che incarnarsi in una regola sociale che nasca al di fuori della sfera economica e che le imponga, anche con la forza, un limite che non può che essere deciso da una comunità di soggetti organizzati intorno a un progetto di società.

Vorrei concludere questo saggio con un’ultima fiaba, raccolta dai Fratelli Grimm: Il pifferaio magico. Essa non ha a che fare direttamente con il denaro e la ricchezza, bensì con la rottura del patto sociale, che è tuttavia una delle conseguenze primarie delle crisi strutturali del sistema capitalistico. 

La storia è nota, ma serve ripercorrerne alcuni passaggi essenziali per comprendere bene perché ci riguarda, ma anche per ricordare che si tratta di una fiaba le cui fonti orali risalgono al 1300 e dunque a tempi a noi abbastanza prossimi.

La città di Hamelin è infestata dai topi. Naturalmente l’animale è  simbolicamente  assai ambivalente e perturbante: perché i topi ci assomigliano molto, più di quanto non siamo disposti a credere. Non dimentichiamo, poi, che il topo fu portatore della pestilenza, una sventura di proporzioni bibliche che funestò l’Europa durante tutto il ‘300.

Il borgomastro di Hamelin non è in grado di risolvere il problema, ci vuole la cooperazione d’altre competenze e pensa di trovarle nel pifferaio magico. Questi concorda il compenso e con la musica suadente del suo piffero attrae a sé i topi e li trascina nel fiume Wesen, dove annegano. La città è libera ma, proprio quando sembra tutti finito per il meglio, accade qualcosa che a prima vista sembra del tutto irrazionale: la comunità di Hamelin e il suo borgomastro si rifiutano di riconoscere al pifferaio il compenso pattuito e questi allora trascina tutti i bambini della comunità dietro il suo piffero fino al fiume, o, secondo altre versioni, dentro una grotta dove li imprigiona.

Ci sono diverse versioni sulla conclusione della fiaba. Fra quelle meno tragiche ne scelgo una per i suoi richiami biblici. Secondo tale versione solo un bambino riesce a sfuggire alla sorte che lo attende perché è zoppo e non riesce a tenere il ritmo impresso dal pifferaio alla musica: rimanendo indietro egli vede dove vanno a finire gli altri bambini e riesce a fuggire. L’imperfezione fisica del bambino ricorda l’episodio del sogno di Giacobbe e della lotta con l’angelo. Al mattino Giacobbe si sveglia diverso da come s’era addormentato e si ritrova zoppo come il bambino della fiaba, cioè consapevole. Quanto al bambino, egli non segue le seduzioni della musica, a differenza degli altri che non si pongono alcun interrogativo, pur sapendo benissimo la fine che hanno fatto i topi. Ciò che colpisce, però, sono l’assenza e l’irresponsabilità degli adulti della città, che sembrano prima illogici nel negare il compenso al pifferaio e poi impotenti di fronte alla sua magia. Forse però si tratta di ripensare in altro modo tutta la favola.

Quando la comunità ricorre al pìfferaio lo fa perché è in preda al panico, i topi sono ovunque, e sono il sintomo di un maleficio che si è già diffuso e che la comunità non ha saputo prevenire. E i topi non sono forse, con la loro organizzazione sociale pericolosamente vicina a quella umana, i più adatti a prestarsi come causa piuttosto che come effetto? La comunità di Hamelin si affida così al pifferaio magico, che bene incarna la figura del demagogo politico che si sostituisce ai poteri costituiti e ‘libera’ la città; ma a un prezzo altissimo. La natura del compenso, infatti, non viene esplicitamente indicata.

Se si unificano tutte le versioni della fiaba e le si riportano al comune denominatore, la morale è sempre la stessa: una comunità incapace di governarsi mette il proprio destino nelle mani di una forza ambivalente e distruttiva e che esige un tributo impossibile da pagare perché si tratta semplicemente della distruzione della comunità stessa: sia che si tratti dei topi (o degli ebrei – che i nazisti consideravano cimici e cioè piccoli topi, come ci ricorda Canetti nel caso della Germania nazista), sia che si tratti dei propri figli. Il demagogo non libera dai topi perché non erano loro il problema a Hamelin come da nessuna altra parte e se si dissolve il legame sociale prima si comincia con lo sterminare i ‘topi’ (nell’Italia delle leggi razziali contemporanee non sono più gli ebrei ma gli islamici, gli zingari, gli albanesi; i rumeni a seconda delle opportunità del momento).

Qual è il nesso fra la dissoluzione del legame sociale, allegoricamente rappresentato nella fiaba del Pifferaio magico, e il denaro? O se si preferisce l’economia? Ci soccorre ancora Canetti. L’invasione dei topi (o delle bibliche cavallette) è una sorta d’inflazione, speculare a quella della moneta e incarna benissimo quell’immagine così pregnante dello scrittore viennese, quando egli afferma che quanto più i milioni salgono nel valore nominale, tanto più gli esseri umani che li possiedono sentono di non valere nulla. I topi rappresentano benissimo quest’immagine di un’umanità numericamente enorme  ma che ‘non vale nulla’: perciò fanno così tanta paura e per questo hanno buon gioco i demagoghi a fare leva su questa paura.

L’inflazione catastrofica o le crisi strutturali ricorrenti del modo di produzione capitalistico, tuttavia, non sono maledizioni bibliche, ma conseguenze assolutamente certe del suo modo di funzionare. La rottura del vincolo sociale si ripete nel tempo costantemente, generando ogni volta le condizioni che favoriscono il ricorso al pifferaio magico di turno. Torniamo allora a quest’ultimo per vederne più da vicino la natura.

La prima  caratteristica che colpisce è la sua apparente innocuità. Anzi, la sua immagine si presenta come qualcosa di positivo in sé: rappresenta la musica, la più pura delle arti insieme alla poesia di cui è coeva alle origini. Il pifferaio è un artista? In apparenza sì, ma solo nella declinazione di un’arte che è puro spettacolo e pura seduzione: la sua musica produce un consenso acritico, tanto che topi e umani possono seguirlo indifferentemente. La sua musica è un altro paradiso artificiale che aliena dalla realtà e se la comunità si affida a lui per governare, essa non ha futuro e infatti la sua musica non porta alla morte gli adulti bensì i bambini, cioè il futuro della comunità. 

Il pifferaio, dunque, è anche il simbolo di una funzione degradata dell’arte: invece di rappresentare criticamente ciò che più manca alla comunità di Hamelin, (per dirla con Jung) e darle la consapevolezza necessaria, egli si serve delle paure dei cittadini di Hamelin per speculare su di esse, esigendo un tributo che alla fine segna la morte della comunità stessa. Ricordiamoci allora dei versi straordinari e immortali di Pound: ‘ se c’è l’usura non ci può essere Piero della Francesca’ Il suo era anche un modo di segnalare il pericolo di una prostituzione delle arti e dell’artista e il loro asservimento all’ideologia del puro intrattenimento o dello spettacolo, come avrebbe denunciato decenni dopo Guy Debord: le arti come una sorta di ‘pifferaio di massa’ e di aulete dell’ideologia massmediatica dominante.

L’artista e anche l’intellettuale degni di questo nome potrebbero, nella realtà odierna, avere come modello di riferimento, invece, il bambino zoppo della fiaba, che nella versione meno tragica riesce poi a salvare in qualche modo anche gli altri e a ridare un futuro alla comunità di Hamelin: oppure il modello altrettanto classico della favola del re nudo, nella quale il protagonista è ancora una volta un bambino. Entrambi i protagonisti di quelle due fiabe compiono un gesto, infondo, molto semplice: resistono al canto delle sirene, all’omologazione di massa, a quel pensiero unico che ha fagocitato e colonizzato gran parte dell’immaginario e trasformato anche il tempo libero in tempo coatto. 

BIBLIOGRAFIA.

  1. Elias Canetti: Massa e potere, traduzione di Furio Jesi, Adelphi, Milano 2002.
  2. Sigmund Freud: Psicologia delle masse e analisi dell’io. In Opere di Sigmund Freud, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80
  3. Sigmund Freud: Il poeta e la fantasia. In Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80.
  4. Fratelli Grimm: Fiabe, Collana I Millenni, Einaudi, Torino 1978.
  5. Carl Gustave Jung: Saggi sulla poesia e sull’arte, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
  6. Carl Gustav Jung: La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica. In: Carl Gustav Jung: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, prefazione di Giovanni Jervis, traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea, Einaudi Torino, 1959.
  7. Karl Marx: Il capitale, a cura di Eugenio Sbardella, Avanzini e Torraca editori, Roma 1966.
  8. Karl Marx: Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1976.
  9. Arthur Miller: L’orologio americano. (solo su Internet, non disponibile nella traduzione italiana).
  10. Loretta Napoleoni: La morsa, Chiare Lettere, Roma 2008.
  11. Ezra Pound:  Cantos, Canto  XLV, Garzanti Milano, 1964.
  12. Ezra Pound: L’abc dell’economia , introduzione di Giorgio Lunghini, prefazione di  Mary Pound de Rachewiltz. Universale Bollati Boringhieri, Torino 1994.
  13. W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978.
  14. Emil Zola: L’argent, (il denaro), traduzione di  Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, Newton Compton, Milano.

9 La furia matematica del decennio andava ben oltre i limiti dell’economia: qualcuno, sull’onda dell’entusiasmo per le teorie di René Thom (l’autore della Teoria delle catastrofi), parlava della possibilità di trovare l’equazione di Dio.

10 Loretta Napoleoni, La morsa, Chiare lettere, Roma 2008

11 Op. cit. Ivi.

12 Ezra Pound, Cantos, XLV,1964. /Con l’usura non si ha per l’uomo casa di pietra buona/dove ogni isolato sia squadrato finemente e adatto/e il design possa dare ricovero al volto,/Con l’usura/non c’è un paradiso dipinto sui portali della chiesa/né arpe o liuti/o luogo dove la vergine riceva il messaggio/e si proietti l’aureola dall’incisione/Con l’usura/non c’é nessun Gonzaga, suoi eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e per convivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/Con l’usura peccato contro natura,/il tuo pane ancora di più diventa avanzo rancido/secco come carta/niente grano di montagna niente buona farina/con l’usura il limite intorbidisce/con l’usura non vi è confine certo /e nessuno trova dove costruire la propria dimora/il tagliatore di pietre è alienato dalla sua pietra/il tessitore lo è dal suo telaio/Con l’usura la lana non giunge al mercato/le pecore non recano guadagno/L’usura è pestilenza./con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta la delicata macchina filatrice/Pietro Lombardo/non venne dall’usura/Duccio non venne dall’usura/e così Piero Della Francesca; Zuan Bellin non dall’usura/né fu dipinta La calunnia./Beato Angelico non venne dall’usura, Né Ambrogio Praedis,/nessuna chiesa di pietra siglata: Adamo me fecit/Non dall’usura St Trophine/non dall’usura Saint Hilaire/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo nel telaio/Nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello/l’azzurro ha un cancro con l’usura/il cremisi non si accende/lo smeraldo non trovò Memling/L’usura assassina il bimbo nel grembo/trattiene il giovane dal corteggiamento/ha portato la paralisi nel letto/si sdraia fra il giovane sposo e la sua sposa// CONTRA NATURAM/hanno portato le puttane per Eleusi/cadaveri preparati per il banchetto/agli ordini dell’usura…… (traduzione mia).

13 Negli anni ’30 Pound scrisse in effetti una raccolta di saggi di carattere economico che sono oggi rieditati in Italia da Bollati Boringhieri, sotto il titolo L’A B C dell’economia con una nota critica di Giorgio Lunghini.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Seconda parte

Inflazione e panico di massa

Tutto quanto abbiamo visto finora ha a che fare con un rapporto individuale e personale col denaro. Le fiabe nascono dal profondo della storia; anzi, fioriscono su quella linea di demarcazione impalpabile che la separa dalla preistoria; a quel tempo  il segno grafico pittorico e la trasmissione orale erano i mezzi d’espressione e la scrittura non esisteva ancora. Le fiabe selezionano archetipi, sono il distillato scritto, cioè la traccia, d’esperienze millenarie di cui si è persa l’origine. La fiaba è il segno lasciato da un’arcaica esplorazione del sé, la quest che ciascun individuo dovrebbe intraprendere per divenire adulto. Rispetto al denaro, è il contesto a essere mutato: il rapporto fra l’individuo e l’economia non è più personale, ma mediato dalle leggi economiche, l’organizzazione della società ne dipende strettamente (oggi quanto mai!). L’individuo singolo non è libero rispetto alle leggi dell’economia, ma si trova invischiato in una serie di rapporti di cui non è responsabile in quanto li trova preesistenti a sé come dati di fatto che egli, in quanto individuo, non può arbitrariamente modificare. Nelle fiabe, d’altro canto, è raramente all’opera una psicologia di massa, il protagonista è quasi sempre un eroe solitario che può al massimo avvalersi di aiutanti che cooperano alla riuscita d’imprese memorabili. Questo, come abbiamo visto, non significa che esse non contengano un insegnamento prezioso anche per noi; anzi, ci aiutano a svelare il sostrato profondo delle nostre azioni, che si agita sotto la sovrastruttura di procedure razionali. Tuttavia i fenomeni di massa rimangono quasi sempre fuori dall’orizzonte della fiaba, seppure con alcune vistose eccezioni, che tuttavia sono storicamente più vicine a noi. È così per Il pifferaio magico e per Le avventure di Pinocchio, che sono una miniera ricchissima di riferimenti al sociale.

Nel capitolo intitolato Inflazione e massa, sempre in Massa e potere, alle pag. 218-224, Elias Canetti analizza puntualmente un fenomeno tipicamente moderno come l’inflazione catastrofica che colpì la Germania degli anni ‘30 e che fu una delle cause dell’ascesa del Partito Nazista. Scrive Canetti:

Un’inflazione è un avvenimento di massa nel più particolare e preciso significato della parola. L’influenza disorientante che essa esercita sulla popolazione di tutto il paese non è affatto limitata al momento stesso dell’inflazione… gli sconvolgimenti che essa produce sono di natura così profonda che si preferisce tacerli e dimenticarli. Forse si teme anche di attribuire al denaro, il cui valore viene artificiosamente   stabilito dagli uomini, le facoltà di dar vita a una massa, facoltà che vanno molto oltre la loro destinazione e hanno in sé qualcosa di assurdo e d’infinitamente umiliante.

È importante procedere oltre in questa direzione e dire qualcosa sulle qualità psicologiche del denaro stesso.”

I simboli sono, per lo scrittore viennese, mezzi di riconoscimento fondamentali che fanno della massa un’entità sociale dotata di comportamenti propri che vanno oltre la sommatoria delle personalità dei singoli componenti la massa stessa e superano il meccanismo di proiezione e delega a un capo, inteso come padre simbolico; si direbbe che, per Canetti, la massa incorpori un plusvalore di comportamenti che ne fa un’entità a se stante, autonoma. Con parole diverse e naturalmente con intenti diversi, anche le considerazioni di Marx e specialmente di Lenin sulle masse, hanno qualcosa di analogo, nel senso che, pur agendo sul piano politico e quindi sovrastrutturale, la mobilitazione di massa può diventare una forza materiale a tutti gli effetti.5

La particolarità del denaro, però, sta proprio nella sua irriducibile unitarietà, caratteristica quest’ultima, che sta agli antipodi rispetto alla massa: la singola banconota e la singola moneta sono individui atomizzati, la somma di denaro è una somma di entità individuali e ci sono molti proverbi a ricordarcelo. La fusione che si crea in una massa, rispetto al denaro, non può superare del tutto questa barriera. Canetti fa degli esempi molto concreti:

“… Ogni moneta è nettamente delimitata e ha un proprio peso… Si tende a considerare la moneta come una persona afferrabile. La mano che si chiude su di essa, la tocca tutta, in tutti i suoi spigoli e in tutte le superfici piane… In un punto la moneta è superiore alla creatura vivente: la sua consistenza metallica, la sua durezza, le assicurano una durata «eterna»; essa non è distruttibile – tranne che dal fuoco. La moneta non cresce secondo la propria grandezza; essa è in accordo con il proprio conio e dunque deve restare ciò che è; non può divenire diversa… Il  mucchio di monete è chiamato tesoro fin dai tempi più antichi e presso la maggior parte dei popoli… non c’è dubbio che per alcuni uomini, i quali vivono esclusivamente per il loro denaro, il tesoro prenda il posto della massa umana. Molte storie di avari solitari vengono qui a proposito; essi sono la sopravvivenza mitica del drago delle fiabe, il quale vive soltanto per custodire, controllare, curare un tesoro. Si potrebbe obiettare che queste considerazioni sulla moneta e sul tesoro, non sono più attuali per gli uomini moderni; che dappertutto si usa la carta moneta; che i ricchi conservano il loro tesoro nelle banche nella forma più invisibile e più astratta. Ma l’importanza della copertura aurea per una buona valuta,… dimostrano che il tesoro non ha affatto perduto la sua antica importanza.”

Si potrebbe ulteriormente obiettare, rispetto al tempo in cui il libro fu scritto, che con la fine degli accordi di Bretton Woods, anche la copertura aurea non esiste più. È vero, naturalmente, ma questo fatto non risolve il problema del perché il dollaro sostituì l’oro; anzi, tale scelta ha contribuito non poco a generare nuove e pericolose illusioni. Tale decisione, infatti, ricacciava nell’astratto il problema senza risolverlo, perché il valore non sta nel segno numerico stampato sulla banconota, ma nella relazione fra quel valore e la produzione di beni e servizi; rompere la parità con l’oro significava solo occultare l’ultimo anello che legava l’economia di carta e nominale a quella reale. L’illusione di un valore non ancorato ad alcunché di concreto è un sintomo di alienazione, simile a quello di cui fu vittima l’esercito di Pompeo; oppure riflette l’atteggiamento degli ingenui e illusi protagonisti delle fiabe, che peraltro vengono sempre puniti da una legge più grande di loro. Le uniche differenze, fra la nostra povera epoca e quella di Pompeo, stanno nel fatto che il comandante in capo si mostrò un bel gradino al di sopra dei suoi ufficiali e dei suoi soldati, mentre da noi oggi sono i responsabili dell’economia e della politica mondiale a comportarsi come loro!

La differenza fra le favole della tradizione e quelle moderne, in tema di denaro e ricchezza, sta nel fatto che le seconde si ammantano di un linguaggio ‘scientifico’.

Credo sia necessario allora, seppure nel contesto di un saggio che si occupa di letteratura, soffermarci ancora un momento sulla questione della parità aurea, perché nelle sue pieghe è facile rintracciare il sostrato favolistico.

Gli accordi di Bretton Woods, sanciti nel 1948 nella cittadina statunitense omonima, stabilivano che fra riserve monetarie e quantità d’oro posseduta dalle banche centrali degli stati dovesse esserci un rapporto stabilito, seppure variabile fra Stati Uniti e stati esteri: i secondi potevano convertire le loro riserve monetarie in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia, gli Usa a un prezzo inferiore. A questo si aggiunga che le riserve monetarie potevano eccedere la copertura aurea per un massimo di un terzo del valore in oro posseduto. In sostanza tale meccanismo impediva agli stati di dichiarare riserve fasulle, cioè semplicemente nominali. L’economista statunitense Ron Paul, in un saggio facilmente reperibile nei siti che si occupano di economia, ricostruisce molto bene cosa sia avvenuto con la fine degli accordi:

Il sistema post-Bretton Woods è stato responsabile per la globalizzazione dell’inflazione e dei mercati, e per la nascita della gigantesca bolla del dollaro mondiale. Quella bolla sta per esplodere, e stiamo vedendo cosa significa pagare le conseguenze per troppi errori economici fatti in precedenza. Ironicamente, negli ultimi 35 anni noi abbiamo beneficiato di questo sistema profondamente distorto. Poiché il mondo accettava dollari come se fossero oro, dovevamo semplicemente falsificare altri dollari, spendere oltre oceano (incoraggiando in maniera indiretta anche il trasferimento del nostro lavoro all’estero) e goderci una prosperità immeritata. Coloro che prendevano i nostri dollari, e ci davano in cambio dei servizi, non vedevano l’ora di poter tornare a prestare quei dollari a noi. Questo ci ha permesso di esportare la nostra inflazione e ritardare le conseguenze che ora stiamo iniziando a vedere. Ma non era comunque destinato a durare, e ora ci tocca pagare il conto. Il nostro debito estero deve essere pagato o liquidato. Gli altri debiti sono maturati proprio ora che il mondo è diventato più riluttante ad accettare dollari. La conseguenza di quella decisione è un’inflazione dei prezzi nel nostro paese, questo è ciò a cui stiamo assistendo oggi. L’inflazione all’estero è addirittura più alta che da noi, come conseguenza della volontà delle banche centrali estere di monetizzare il nostro debito… Questa bolla è diversa e più grande delle altre per un altro motivo. Le banche centrali del mondo si accordano segretamente per centralizzare la pianificazione dell’economia mondiale. Io sono convinto che degli accordi fra le banche centrali, per monetizzare il debito americano negli ultimi 15 anni, siano esistiti, per quanto in forma segreta e fuori dalla portata delle orecchie di chiunque, specialmente del parlamento americano, che non se ne preoccupa o semplicemente non capisce. Ora che il nostro “regalo” si esaurisce, i nostri problemi peggiorano. Le banche centrali e i diversi governi sono molto potenti, ma prima o poi i mercati si saturano, e quando la gente si ritrova in mano il sacco di dollari senza valore comincia a spendere in un’economia di tipo emotivo, scatenando la febbre inflazionaria. Questa volta – poiché abbiamo a che fare con così tanti dollari e così tante nazioni – la Fed è riuscita a “cartolarizzare” ogni crisi in arrivo, negli ultimi 15 anni, specialmente sotto la presidenza di Alan Greenspan alla Federal Reserve, che ha permesso alla bolla di diventare la più grande di tutta la storia. Militarismo all’estero, elargizione di sussidi statali, e 83 biliardi [trillion] di impegni in titoli stanno tutti per venire a termine.

L’analisi di Ron, pur imprecisa in alcuni dettagli di non poco conto, ci ripropone uno schema che si era già rivelato rovinoso nella Germania di Weimar, quando lo stato tedesco, a fronte della mancanza di liquidità, pensò di risolvere il problema stampando nuovi marchi in continuazione. Così facendo non fece altro che alimentare una catastrofica inflazione perché la moneta in circolazione non può eccedere di troppo il volume degli scambi reali di cui il denaro funge da mediatore e la necessità di sostituire le banconote usurate e non più valide. Nel periodo successivo la rescissione degli accordi di Bretton Woods è accaduta la stessa cosa. La corsa ad accaparrarsi dollari come riserva (quello che Ron chiama, con una formula ambigua, falsificare i dollari), non significa altro che la banca centrale statunitense ne stampava in continuazione per alimentare il circuito delle riserve degli altri stati e del proprio debito pubblico. Servono dollari? Eccoli stampati! Non siamo lontani dalla favola dell’asino che cacava monete, se a farlo – invece che un animale magico – è la zecca di stato!

Torniamo all’inflazione e lasciamo di nuovo la parola a Canetti, domandandoci con lui: “Cosa accade in un’inflazione?” La risposta è la seguente:

Improvvisamene l’unità di denaro perde tutta la sua personalità, e si trasforma in una massa crescente di unità; queste ultime hanno sempre meno valore quanto più grande è la massa. Si hanno d’improvviso in mano i milioni che si sarebbero posseduti volentieri; ma essi non sono più tali, conservano semplicemente il nome… E come è possibile contare fino a qualsiasi cifra, così il denaro può svalutarsi fino al più infimo grado… L’identificazione fra il singolo individuo e il suo marco è così confermata. Il marco ha perduto la sua solidità e il suo limite… ha sempre meno valore. L’uomo che vi aveva riposto la sua fiducia non può fare a meno di sentire come proprio il suo svilimento.”

Il senso di vergogna e svilimento, però, non appartiene soltanto agli individui, presi uno per uno: è la massa stessa a perdere le sue caratteristiche peculiari.

Nell’inflazione sopravviene anche un fenomeno… estremamente pericoloso, dinanzi al quale deve indietreggiare chiunque possieda una qualche responsabilità pubblica e possa prevederlo: una duplice svalutazione che proviene da una duplice equiparazione. L’individuo si sente svalutato perché l’unità su cui contava e dalla quale era egualmente considerato perde valore. La massa si sente svalutata perché il milione è svalutato… Quando i milioni salgono al cielo, un intero popolo – che consiste di milioni – non vale più nulla. Tale fenomeno spinge insieme uomini i cui interessi materiali altrimenti divergerebbero largamente. Il salariato ne è colpito come chi vive di rendita. Dall’oggi al domani si può perdere moltissimo o tutto ciò che era al sicuro in banca.”

A questo si aggiunga un altro particolare, potente sul piano simbolico. Il denaro circola, la circolazione monetaria per assonanza anche linguistica rimanda alla circolazione sanguigna. L’analogia appare evidente anche in molte espressioni idiomatiche: di chi ha molto speso per qualcosa, specialmente quando è costretto a farlo per necessità, si dice che si è svenato. L’inflazione è un’emorragia di massa e perciò genera un panico di massa: su di esso fecero leva i nazisti per conquistare il potere nel 1933.

Usura e capitale

Le rappresentazioni moderne più potenti del denaro, della psicologia di chi lo maneggia, degli effetti che le leggi economiche hanno sulla società e sugli individui, le troviamo in alcuni grandi romanzi dell’’800 e del ‘900. L’argent di Emile Zola è una delle opere più efficaci della narrativa di quegli anni. La poetica dello scrittore francese implicava un atteggiamento di ricerca sociale da parte del romanziere, qualcosa di più della verosimiglianza manzoniana (anche se Manzoni stesso con la storia della Colonna infame non è lontano da Zola), ma una vera e propria immersione in altre forme di conoscenza, l’utilizzo dello strumento dell’inchiesta, la costruzione del personaggio e del suo habitat in modo oggettivo. Per Zola la narrativa non può essere pura fiction, oppure semplice svolgimento di una trama con i suoi intrecci, ma deve essere rappresentazione che si avvale di una vasta documentazione extra diegetica. Egli è uno degli inventori del romanzo-saggio, che costituisce un canone importante della tradizione europea e annovera fra gli altri anche il Flaubert di Bouvard e Pecuchete che avrà il suo massimo esponente in Musil, agli inizi del ‘900. Non è questa la sede per mettere in evidenza le grandi differenze fra loro, ma solo di registrare un atteggiamento e un modo di concepire il romanzo.

Il protagonista de L’argent (Il denaro) è un giocatore di borsa, ma si potrebbe anche dire che la vera protagonista è proprio la Borsa in sé, con i suoi riti, la genia del tutto particolare di coloro che le girano intorno, la sua capacità di attrarre le vite e di fagocitarle dentro un meccanismo che diventa totalizzante. Fin dalle prime pagine del romanzo ciò che colpisce è proprio tale aspetto. Tutte le vite dei personaggi e quasi tutta la loro vita personale gravita intorno al palazzo della Borsa, il brulichio della grande città tentacolare s’intensifica e s’addensa intorno al palazzo delle transazioni.

Pubblicato nel 1891, L’argent è  il diciottesimo e ultimo libro della serie Rougon-Macquart. Il motore narrativo che governa lo svolgimento della trama è quello della speculazione finanziaria e degli scandali che ne derivano. L’eroe negativo è Aristide Saccard  – lo stesso de La curée (La caccia) -, fratello del ministro Eugène Rougon, che aveva ammassato una fortuna colossale con affari poco leciti. Dopo una sequela di rovesci, deve ripartire da zero, ma la sua ambizione è rimasta intatta; cambia il proprio nome precedente per rifarsi una verginità anche personale e ricomincia daccapo. La nuova svolta, che prelude alla sua effimera rinascita, è annunciata da una lettera proveniente da Costantinopoli:

La lettera del banchiere russo di Costantinopoli, che Sigismonde aveva tradotto, era un’inattesa risposta favorevole; la grande impresa vagheggiata poteva iniziare da Parigi.” 6

La grande impresa si chiamerà Banca Universale e sarà destinata a finanziare progetti in Medio Oriente: siamo sempre lì, verrebbe da dire!

Saccard vende la sua proprietà lussuosa del parco Monceau allo scopo di regolare i suoi creditori, quindi affitta due piani di un palazzo dove insedia la sede della banca.

Aristide entra in contatto con vecchie conoscenze fra cui la principessa d’Orviedo,          che tuttavia rifiuta di partecipare ai disegni dello speculatore. Allora egli rivolge le sue attenzioni a Jacques Hamelin, giovane ingegnere e a Caroline, sua sorella. Dopo un accordo siglato tra Jacques ed Aristide, l’ingegnere raggiunge Costantinopoli per ottenere concessioni, mentre l’uomo d’affari cerca d’inserirsi nell’entourage di alcuni uomini molto ricchi del milieu finanziario parigino. Nel frattempo Saccard seduce e possiede bestialmente Caroline.

La truffa è architettata per attirare piccoli e medi risparmiatori, ai quali si promettono guadagni facili e rapidi. I comunicati stampa, gli articoli e le voci sapientemente calibrate fanno volare i titoli della società e Saccard si trova di nuovo al vertice della gloria. Tale potenza borsistica, tuttavia, è costruita sulla sabbia: a questo si aggiunga il fatto che Saccard si è attirato l’inimicizia del banchiere Gundermann. Un giorno del 1869, col concorso di amici speculatori, dopo avere verificato che le casse della banca Universale sono a secco, quest’ultimo decide di lanciare un ultimo attacco borsistico ribassista vendendo le azioni della Banca universale che possiede e quelle che non possiede (vendita allo scoperto).

Il titolo crolla e Saccard reagisce facendo quello che tutti gli speculatori fanno in tali circostanze, sebbene non serva a nulla: acquista lui stesso i propri titoli per farli risalire di prezzo, ma in questo modo dà fondo a tutte le sue risorse finanziarie e si ritrova sul lastrico. Trascina nella sua caduta tutti i risparmiatori che gli avevano dato fiducia. Denunciato per frode viene condannato a cinque anni di prigione, ma riesce a lasciare la Francia e fuggire nei Paesi Bassi.

Nello scrivere questo romanzo, Zola si è ispirato agli scandali finanziari che non mancavano alla sua epoca. Al momento in cui scrive Il denaro è in pieno sviluppo quello di Panama, ma lo scrittore s’ispirò anche all’affaire dell’Unione generale (1881-1882), il cui protagonista fu il banchiere cattolico e legittimista Eugène Bontoux, la cui società fu rovinata dalla speculazione di un Rothschild. Bontoux  fu condannato proprio a cinque anni di prigione nel 1883, come accade al protagonista del romanzo di Zola. Si pensa che il personaggio di Saccard gli sarebbe stato anche ispirato dallo speculatore e industriale Hector de Sastres, che fu amico e protetto del ministro Jacques Louis Randon.

Lasciamo per il momento Zola e rivolgiamoci a un testo a noi vicinissimo.

L’orologio americano di Arthur Miller, dramma in due atti, scritto nel 1982 e ispirato da Hard Times di Teckel, è una riflessione a distanza di pochi decenni sulla crisi del ’29, ma essendo così contemporaneo, sorprende appunto per il ripetersi di situazioni analoghe. Miller analizza il meccanismo economico legato al trust, ovvero alla fiducia, piede d’argilla su cui si poggia l’intera economia; curiosamente, fra l’altro, la parola inglese significa anche cartello industriale, monopolio! Il tema principale dell’opera è la fine del sogno americano; tema che si ripropone oggi, dopo il fallimento di Chrysler e General Motors e gli scandali che hanno coinvolto le banche. È una satira sull’immaterialità del denaro, sulla spietatezza delle regole dell’economia. Tuttavia, il dramma non si limita a questo, ma prende in considerazione i rapporti sociali, su cui impattano le tragedie dell’economia. Alla lucida analisi dei legami familiari che caratterizzano la civiltà, si contrappone quella sul materialismo sfrenato che porta alla barbarie. Le origini della crisi del ’29 sono per Miller da ricercare in primo luogo in una generalizzata crisi morale che si riflette successivamente sulla sfera politica e infine su quella economica. La Prima Guerra Mondiale  viene analizzata come uno strumento capitalistico di riequilibrio del mercato:

Il mercato non rappresenta altro che uno stato d’animo.

La sovrapproduzione accompagnata da una scarsità di moneta fa sì che i magazzini siano pieni di merci che la gente, non avendo soldi, non può comprare. Il crollo dei prezzi diventa il sintomo della frattura del ciclo produttivo causato principalmente dalla gestione irrazionale del sistema creditizio da parte delle banche. La fiducia cessa e il crollo del sistema del trust porta a una svalutazione dei titoli azionari, al fallimento delle aziende, alla disoccupazione; senza stipendi non circola moneta e il sistema è destinato alla paralisi. Gli interessi sul credito sono per Miller il grande nemico. I grandi capitali non investiti che creano interessi da capogiro sono di per sé un atto economicamente immorale e vengono utilizzati dalle banche per speculazioni selvagge su oro, petrolio, costruzioni edilizie. I profitti gonfiati della borsa poi sono il germe del crollo di Wall Street. La Prima Guerra Mondiale fu il tragico tentativo di azzerare i debiti e crediti per creare una tabula rasa su cui ricostruire l’economia. Miller contrappone l’etica del valore all’etica del denaro e vede nella folla dei disoccupati, nei negozi vuoti, nella gente buttata in strada con materassi pentole e tegami, la conseguenza ovvia di tutti gli errori economici commessi. Il boom degli anni ‘20 fu, nella sua visione, una gigantesca truffa organizzata dagli straricchi per moltiplicare i loro capitali rapinando la gente. Gli avidi affaristi senza scrupoli portarono al crollo dei mercati perché, secondo Miller, ne avevano utilizzato le leggi al di là dell’etica del progresso comune e perseguendo unicamente l’arricchimento personale. In Miller l’etica protestante della ricchezza, come segno della grazia divina e della predestinazione alla salvezza, si contrappone all’etica ebraica, che  egli vede come Quoelet, segnata da un pessimismo di fondo che conserva connotazioni negative nella ricchezza come frutto di ingiustizia e idolatria. Due forze antitetiche si contrappongono: il capitalismo e il socialismo, la destra e la sinistra. La prima è una corrente di pensiero di stampo protestante e la seconda di stampo ebraico. L’etica ebraica vede nel denaro un bene/male per la sopravvivenza della comunità, la quantificazione di un concetto astratto che incarna tutti gli idoli, che sono adorati pur non esistendo. In questo, Miller riecheggia anche il contenuto dei saggi economici scritti da Ezra Pound nel 1933. L’etica protestante, base del sistema democratico americano, esalta invece della comunità  l’individuo, la libertà; Dio, in tale contesto, è visto come grazia e non come giudice.

Se la libertà, tuttavia, non è bilanciata dalla giustizia sociale ben presto qualsiasi economia crolla.

Il titolo del dramma si riferisce al tempo e al grido silenzioso delle folle disperate,

fino a quando sopporteremo tutto questo?

La pièce si conclude con questa domanda, che rimane tuttavia senza risposta: è Robertson, il personaggio alter ego di Miller stesso a porla, ma il sipario si chiude, perché per Robertson/Miller la stupidità umana è senza limite; se gli chiedono se furono Roosevelt e il New Deal a salvare l’America, egli scuote il capo e ricorda che fu la fede degli Americani nel futuro a salvarli.

Il sostrato sociale e le problematiche del dramma di Miller sono simili a quelli di Zola e si ripropongono oggi negli stessi termini, solo con effetti ulteriormente ingigantiti. Anche l’analisi di Miller è in piena consonanza con quella di Zola, solo che l’uso di strumenti d’analisi che si possono definire marxiani è in lui molto più parziale e meno consapevole che non nel naturalista francese. Quest’ultimo, pur non sposando completamente il pensiero di Marx, ne era tuttavia un profondo conoscitore, tanto che nel romanzo L’argent, un altro protagonista – Sigismonde – rappresenta molto bene i valori e gli atteggiamenti di un marxista. Nell’opera egli è il contrappunto morale della torva figura di Saccard, anche se la sua stessa vita gravita intorno alla Borsa, seppure per ragioni opposte: il suo appartamento, infatti, non è lontano dall’edificio. Nei dialoghi con Saccard, Sigismonde presenta il punto di vista dell’economia collettivista e formula previsioni di crolli finanziari futuri che rivelano una grande perspicacia. Saccard e Sigismonde rappresentano ancora due mondi che, pur contrapponendosi, possono ancora capirsi perché in quel capitalismo, il rapporto fra finanza e produzione era ancora visibile rispetto a oggi. Del resto è proprio Sigismonde a tradurre la lettera del banchiere russo per Saccard e il loro dialogo testimonia questa vicinanza discorde fra loro:

Il collettivismo è la trasformazione dei capitali privati, che speculano sulle lotte della concorrenza, in un capitale sociale unitario, sfruttato dal lavoro di tutti…”

“Oh!”, lo interruppe Saccard, “Questo cambierebbe moltissimo le abitudini di un bel po’ di gente!…” Saccard i sentiva sempre più a disagio. Se quel ragazzo che sognava ad occhi aperti, avesse detto il vero? Se avesse presentito l’avvenire? Gli argomenti che portava a sostegno delle sue teorie sembravano molto chiari e sensati. “Bah!,” mormorò per tranquillizzarsi, “Non sono cose che accadranno l’anno prossimo.” 7

Lo sguardo del marxista Sigismonde è proiettato al futuro, Saccard vive alla giornata anche se è ancora in grado di leggere le ragioni dell’altro.

Il naturalismo di Zola, tuttavia, è ben più deterministico e diverso dal modo di procedere di Marx, anche da un punto di vista metodologico; per di più lo scrittore francese ignora la dialettica hegeliana. Tuttavia, nel rappresentare  le conseguenze sociali della deriva finanziaria e nella messa a fuoco dei personaggi, Zola dimostra di avere una conoscenza realistica delle leggi economiche capitalistiche.

Miller è lontano da tutto questo, anche se si può dire che entrambi (seppure per ragioni diverse), condividano una visione pessimistica del futuro. Zola è pessimista per definizione, in quanto iper determinista nello stabilire nessi fra storia individuale, soma (in questo senso è addirittura lombrosiano), e comportamento sociale. Ecco per esempio come descrive una protagonista del romanzo:

Fu interrotto dall’arrivo di una donna enorme, Madame Méchian , ben nota agli habitué della Borsa, una di quelle miserabili e frenetiche giocatrici, che cacciano le grasse mani in ogni sorta di losche attività. La sua faccia da luna piena, gonfia e rossa, con i piccoli occhi azzurri, il naso perduto  nel traboccare delle guance, la minuscola bocca da cui usciva un’infantile vocina flautata, sembrava straripare dal vecchio cappello viola, …. e il seno gigantesco e il ventre idropico, facevano tendere fino a scoppiare il vestito di popeline verde, sbiadito e macchiato di fango.8

La figura sordida di Madame Méchian non ammette sfumature: essa è senza scampo e redenzione possibile, quasi un automa che non può agire diversamente da come fa.

Miller è pessimista per una forma di scetticismo naturale, corretto talvolta da slanci profondamente naive. L’orologio americano si conclude con un completo disastro, il sipario cala su una totale mancanza di risposte. Miller fa dire a Robertson che fu la fede degli americani nel futuro a salvare gli Usa; ma è una fede posticcia che nel testo teatrale non esiste e compare soltanto nel finale come escamotage. Del resto, attribuire alla semplice fede nel futuro la fuoriuscita dalla crisi è quanto meno risibile e anche ingenuo. Furono la Seconda Guerra Mondiale e i successivi piani di ricostruzione come il Marshall a permettere la ripresa su larga scala dell’economia capitalistica e se è vero che a un’opera d’arte non si chiede normalmente la coerenza è pur vero che il dramma di Miller si pone come realistico, in presa diretta con la realtà e non come un testo visionario.

Da esso traspare tutta l’ingenuità e il limite del pragmatismo statunitense, incapace di comprendere le leggi dello sviluppo capitalistico e infatti non è un caso che l’attuale crisi mondiale giri intorno agli stessi problemi denunciati da Miller. È questo in definitiva, il pregio maggiore di quest’opera che, non bisogna dimenticarlo, fu scritta nel 1980 e non a ridosso della grande Depressione! Miller aveva coltivato di nuovo il sogno americano dopo il disastro del ‘29, aveva combattuto il maccartismo ed è stato un militante assiduo del Partito Democratico: ma con questo dramma sembra però chiudere definitivamente i conti con tale illusione. A pochi decenni di distanza accadono le stesse cose e per gli stessi motivi: la coazione a ripetere è la spia di tale incapacità a capire. Sono cambiati soltanto le dimensioni degli effetti che la crisi provoca su un piano planetario, per il resto si tratta di un film gia visto che si ripete stancamente dalla prima crisi ‘globale’ alla borsa di Amsterdam nel lontano 1672! Saprà la cultura statunitense reagire in modo diverso dal passato? Dall’attenzione che oggi le opere di Marx hanno negli Usa si direbbe che sta nascendo una generazione di studiosi e di movimenti che affrontano in modo diverso dal passato la crisi in corso; si tratta di lavori in corso ancora sotterranei ma importanti.


5 Sui simboli di massa anche Wilhelm Reich  ha scritto pagine importanti, proprio riferendosi al nazismo: in particolare, al significato simbolico della croce uncinata e a quello delle coreografie, elaborate dall’architetto Walter Speer, che accompagnavano le manifestazioni di massa del Partito Nazista. In W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano.https://psicologiadimassadelfascismo.wordpress.com/2015/08/27/svastika/

6 Èmile Zola: L’argent, (il denaro), Newton Compton, traduzione di Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, p. 70.

7 Op. cit. p. 45.

8 Op. cit. p. 32.