IL CESELLO ARRUGGINITO. Terza parte
Favole moderne e lestofanti
Nel pieno degli anni ’90, si diffuse una vera e propria frenesia matematica, riguardante gli studi economici ma non solo. L’intento era quello di calcolare i guadagni a lungo termine che si potevano conseguire a partire da una semplice opzione o prodotto finanziario.9 Era tutto un fiorire d’equazioni, finché quel lavorìo fu finalmente coronato da successo e ottenne il massimo dei riconoscimenti con l’attribuzione del premio Nobel per l’economia agli esimi professori Robert Merton e Myron Scholes. I due avevano trovato l’equazione matrice, la madre di tutti i prodotti cosiddetti derivati, grazie alla quale promettevano la crescita indefinita di ricchezza, una cornucopia senza limiti. Fedeli alle loro convinzioni e corroborati dal prestigioso riconoscimento, i due – moderna versione in chiave ‘scientifica’ de il gatto e la volpe – decisero di dar vita al Fondo d’investimento Long term capital management (LTCM). Dopo un anno d’applicazione della famosa equazione, il Fondo totalizzò un buco di bilancio di 3,5 miliardi di dollari! Inutile domandarsi se ai due sia stato almeno tolto l’emolumento conseguito con il Nobel. Ciò non fu possibile perché fra i clientes di tale memorabile impresa finanziaria vi erano molte e importanti istituzioni europee e statunitensi, fra cui, secondo quanto denunciato da Loretta Napoleoni: “… l’Ufficio Italiano Cambi e la Banca d’Italia.” 10
Per evitare l’effetto domino, coprire lo scandalo e nascondere la figuraccia, la Federal Reserve statunitense fu costretta a salvare il fondo immettendo denaro fresco nelle sue esauste casse. Ciò che colpisce in tutto questo, come afferma la stessa Napoleoni nel suo bel libro, è la leggerezza di chi affida i proprio soldi a simili venditori di bufale. Lo stesso, peraltro, era già accaduto con un truffatore vero e proprio, il famigerato Madoff, condannato recentemente dalla giustizia statunitense a un numero esorbitante d’anni di carcere. In questo secondo caso, poi, tale mal riposta fiducia assume davvero toni grotteschi perché la truffa architettata dal finanziare è vecchia come il mondo: si tratta, infatti, del sistema cosiddetto Ponzi, una catena di Sant’Antonio grazie alla quale si promettono rendimenti favolosi a breve termine che vengono pagati con i soldi dei nuovi sottoscrittori e giocando sulla differenza di tempi di rimborso. Naturalmente, è sufficiente una competenza da ragioniere per calcolare in quanto tempo il sistema crolla su se stesso. Come si possa cadere in una trappola come questa è difficile davvero da comprendere!
Forse la risposta sta nel denaro in sé, nei sentimenti ambivalenti che suscita, dal senso di colpa che colpisce coloro che lo maneggiano; forse in alcuni straricchi c’è persino un’inconscia pulsione a liberarsene. Fra i colpiti dalla truffa di Madoff e dal fallimento del fondo dei due esimi premi Nobel, infatti, ci sono molti attori di Hollywood; Steven Spielberg ha perso gran parte dei suo patrimonio e così molti altri. È la maledizione del denaro, quel mix di razionale e irrazionale che si porta appresso. Tuttavia qui non abbiamo a che fare solo con gli ingenui protagonisti delle favole e neppure con straricchi sbadati, ma con istituzioni che governano la vita di tutti. Si può concordare con Loretta Napoleoni quando afferma che i due premi Nobel “Merton e Scholes sono i re Mida degli anni ’90, ma che non sono delinquenti come Madoff…” 11
Tuttavia c’è da domandarsi cosa ne è degli altri che hanno creduto così facilmente ai due pifferai magici, a cominciare dall’Accademia di Svezia. Nel caso della giuria del premio Nobel è davvero difficile esprimersi, mentre nel caso di prestigiose banche e istituzioni internazionali occorre una riflessione più approfondita.
Se si esclude di avere a che fare con dei cretini, allora la spiegazione va cercata ancora una volta nel meccanismo profondo che governa la finanza e nei comportamenti che induce. Se la logica, infatti, è quella dell’accumulo a breve termine e i manager vengono remunerati, non in base a un progetto che duri nel tempo, ma soltanto in ragione della velocità di accumulo degli utili, ogni programmazione a lungo termine viene meno. Ciò che conta è ottenere il massimo nel più breve tempo possibile, quello che avviene dopo non conta nulla. Se un manager riesce a convincere un numero sufficientemente grande di sottoscrittori e la sua raccolta di soldi in un anno è ingente, verrà remunerato per quello e non per le conseguenze a medio e lungo termine dei suoi investimenti. Questa logica da Prendi i soldi e scappa diviene nel tempo la sola che ispira tutti i comportamenti, generando quindi un sistema e una prassi volta al fallimento: ma nel breve tempo in cui il gioco funziona qualcuno che si è arricchito c’è stato eccome! A cominciare naturalmente dai manager in questione, mai tanto remunerati negli scorsi anni e mai così falliti! Questa spiega anche il continuo passaggio di amministratori delegati e altre figure simili da un settore all’altro e da un’azienda all’altra. Proprio perché sanno che a medio e lungo termine i loro castelli di carta crollano, l’importante è saltare da una banca all’altra, da una finanziaria all’altra, costantemente in bilico su zattere improvvisate dentro un fiume in piena. L’importante è stare in piedi in qualche modo finché dura.
E veniamo infine a Pound e al suo Canto XLV, detto anche dell’Usura. Trattandosi di un testo poetico non lunghissimo, ma di grande portata e valore letterario, preferisco citarlo integralmente in lingua e nella mia traduzione.
With usura hath no man a house of good stone
Each block cut smooth and well fitting
that design might cover their face,
with usura
hath no man a painted paradise on his church wall harpes et luthes
or where virgin receiveth message
and halo projects from incision,
with usura
seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines no picture is made to endure nor to live with but it is made to sell and sell quickly
with usura sin against nature,
is thy bread ever more of stale rags
is thy bread dry as paper,
with no mountain wheat, no strong flour
with usura the line grows thick
with usura is no clear demarcation
and no man can find site for his dwelling.
Stone cutter is kept from his stone
weaver is kept from his loom
WITH USURA
wool comes not to market
sheep bringeth no gain with usura
Usura is a murrain, usura
blunteth the needle in the maid’s hand
and stoppeth the spinner’s cunning.
Pietro Lombardo
came not by usura
Duccio came not by usura
nor Pier della Francesca; Zuan Bellin not by usura nor was “La Calunnia” painted.
Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis, Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit.
Not by usura St Trophime
Not by usura Saint Hilaire,
Usura rusteth the chisel
It rusteth the craft and the craftsman
It gnaweth the thread in the loom
None learneth to weave gold in her pattern; Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroiled Emerald findeth no Memling
Usura slayeth the child in the womb
It stayeth the young man’s courting
It hath brought palsey to bed, lyeth
between the young bride and her bridegroom
CONTRA NATURAM
They have brought whores for Eleusis
Corpses are set to banquet
at behest of usura. 12
Ciò che colpisce nel testo poundiano sono l’approccio realistico e la competenza che dimostra anche sul piano strettamente economico.13
Il secondo aspetto che balza all’occhio è l’arditezza dei correlativi oggettivi, il ruolo che la figura retorica della similitudine vi svolge, la quasi completa rinuncia alla metafora, il dispiegarsi di un procedimento che ci porta all’allegoria attraverso un percorso differente rispetto a quello cui siamo normalmente abituati.
Pound riesce a distillare, in questo testo, il meglio che la poesia anglo-americana ha saputo fare suo in modo originale, a partire da una delle tante lezioni di Baudelaire: portare ciò che sembra impoetico nel cuore della poesia e del suo linguaggio, rinnovandoli entrambi profondamente. È un procedimento che viene ancora più da lontano, dai Metafisici del ‘600, da John Donne in particolare, seppure senza il suo wit. Allora erano le scoperte geografiche a entrare nel linguaggio poetico, insieme alla riscoperta dell’autonomia dell’eros e del corpo femminile.
Nel caso di Pound è addirittura l’economia a divenire oggetto di poesia: quanto di più prosaico e lontano da essa, secondo i canoni correnti!
Incatenando fra loro una serie di similitudini memorabili, Pound rompe anche questo tabù, entra nel vivo di un territorio fino a quel momento estraneo al dettato poetico, lo muta per il solo fatto d’entrarvi. Proviamo allora a ripercorrere questo testo.
L’inizio perentorio stabilisce subito una similitudine che diventerà ricorrente in tutto il canto, concretizzandosi di volta in volta in esempi diversi: in essa l’usura si contrappone alla pietra e alla casa, la dimora dell’essere umano, l’ubi consistam di cui tutti hanno bisogno e senza il quale non esiste vita sociale, né individuale. Pound non usa il termine finanza e preferisce quello medioevale d’usura (peraltro tornato assai di moda). Un altro modo di sottolineare tale ritorno allo scenario medioevale è l’uso che egli fa dell’arcaismo linguistico: termini come hath, thou, seeth e altri, non appartengono più all’inglese moderno, ma si riferiscono a un mondo linguistico e culturale in cui l’usura, cioè la finanziarizzazione selvaggia dell’economia non era ancora penetrata o stava per penetrare. Tuttavia non è difficile rapportare tutti gli esempi che fa al mondo contemporaneo: la volatilità e l’evanescenza del denaro e la pietra, la casa solida e il dominio astratto e malefico della quantità numerica. La finanza si contrappone alla vita reale, alla solidità della costruzione, è accumulo di ricchezza nominale e di miseria morale e materiale. Egli scrive come parlerebbe un oracolo, il tono è solenne, il verso lungo ha un incedere maestoso, l’iterazione della parola usura e l’improvviso irrompere di versi brevi e martellanti quasi a tempo di improvvisazione jazzistica e addirittura di rap, sfocia nell’invettiva, addirittura nella maledizione. Eppure quanta concretezza, realismo e competenza! Quando Pound scrive che con l’usura la lana non giunge al mercato, lo sciocco potrà imputargli un peccato d’ingenuità, l’economista potrà fargli notare che la lana non arriva più al mercato grezza ma già lavorata e che il poeta parla di un mondo che non esiste più ecc. ecc. Quanto di più falso!, e lo vediamo proprio nella realtà odierna, così come nel ’29. Le merci giacciono inerti nei mercati, la crescita esponenziale della ricchezza finanziaria si dissolve, i valori nominali crollano dopo che si erano gonfiati in modo abnorme: si giunge così al paradosso di avere contemporaneamente un eccesso di denaro inutile e un eccesso di merci invendute.
Però i versi di Pound non sono un trattato d’economia, sono concreti come un’analisi scientifica ma suonano sinistri. Un alone di sventura aleggia intorno al testo, anche per l’uso sapientemente voluto della parola italiana, che ha un suono lugubre e sinistro, accentuato dalla ripetizione. Perché? Che cosa evoca Pound? Tocchiamo qui la capacità peculiare della poesia di nominare qualcosa di semplicissimo e risaputo, ma di farlo in modo nuovo e scegliendo situazioni emblematiche. Se isolassimo il semplice contenuto di pensiero sotteso a tali versi ci accorgeremmo che il loro nucleo può risultare persino banale se fosse detto in senso puramente letterale. Esso suona infatti così: tutto ciò che di solido e di bello l’umanità ha prodotto non dipende dal denaro, ma dal lavoro, dal poiein, dal fare. È il faber contrapposto alla potenza astratta e impersonale del dominio quantitativo, il cui unico scopo è l’accumulo: è la hybris moderna, attitudine faustiana e demoniaca che non ha neppure bisogno del patto con il diavolo, dal momento che esso è intrinseco al meccanismo economico capitalistico dominante. Se vi è l’uno non vi è l’altro, solo che la poesia non nomina astrattamente tale incompatibilità, ma l’incarna concretamente in un’elencazione emblematica. ‘Se hai l’usura non avrai più Piero della Francesca, se vuoi l’usura non avrai più la casa’ e se pensiamo allo scandalo dei cosiddetti sub prime, cioè dei mutui che hanno mangiato proprio le case ai poveretti che li avevano sottoscritti, ancora una volta siamo sorpresi dalla concretezza. Tuttavia anche gli esempi non sono scelti a caso. Pound nomina Piero della Francesca, non Michelangelo, perché il periodo rinascimentale è già inquinato dall’usura e dal nascente capitalismo. Il pensiero di Pound è poeticamente rigorosissimo, non fa sconti a nessuno! Non lasciamoci travisare dal suo personale credo ideologico, ma guardiamo al dettato poetico. L’esemplarità dei correlativi oggettivi crea intorno all’usura un senso di tragedia incombente, ma mette noi lettori di fronte a qualcosa che, nei suoi sviluppi successivi, conosciamo fin troppo bene. Con l’usura finisce il ‘saper fare’, (la sequenza in cui l’ago si ottunde nelle mani della ragazza, il telaio arrugginisce ecc.) che a lungo andare provoca dissesti e tragedie! Colpisce, per la sua forza sinistra, anche l’immagine dell’usura che giace nel letto fra lo sposo e la sposa o che impedisce al giovane il corteggiamento. Parole d’altri tempi? No, dei nostri! Come possono i giovani uscire di casa e farsi una vita propria e avere dei figli se non hanno un lavoro e un reddito? Come è possibile consumare e ridare fiato all’economia (come viene richiesto quotidianamente dalla propaganda mediatica, ma anche ripetuto da illustri ministri dell’economia) quando il lavoro è sempre più precario? È la quadratura del cerchio! Se una persona qualunque, in altri contesti, facesse affermazioni così palesemente contraddittorie, finiremmo per dubitare delle sue facoltà mentali o penseremmo di trovarci di fronte a quel tipico loop o corto circuito che la teoria psicanalitica indica con il termine di ingiunzione paradossale: ma a parlare in questo modo sono i gestori dell’economia mondiale, molti dei quali hanno creduto a suo tempo alla formula magica dell’Eldorado!
Per tornare a Pound, ancora una volta sorprende l’attualità di questi versi che ci arrivano tuttavia, carichi di una sventura che rimanda ai flagelli biblici e alle catastrofi naturali.
Pound tuttavia insiste molto anche sull’opera artistica, la sua elencazione precisa ci offre un panorama di assenze crescenti d’opere d’arte, il rinsecchirsi di una capacità autoriale con cui ci troviamo a fare i conti oggi. Non c’è forse un nesso fra l’avvento della società narcisista e dello spettacolo e la crescita esponenziale e globale (peraltro inevitabile in un sistema capitalistico), dell’economia finanziaria (Pound direbbe usuraia)? La pletora di libri perlopiù invenduti e comunque non letti, il consumismo culturale acefalo, l’invadenza televisiva, non sono forse la sovrastruttura dell’economia di carta e nominale? Oppure il contrario. Sono gli apparati della comunicazione di massa e della spettacolarizzazione di tutto che, veicolando una filosofia ottimistica e criminale, favoriscono l’abbandonarsi senza alcuna capacità critica ai meccanismi acefali della finanza?
Una favola moderna come Le avventure di Pinocchio può essere molto utile per comprendere alcuni tratti della realtà attuale.
Il libro è talmente noto che mi soffermerò soltanto sul ruolo che vi svolgono in essa il paese dei balocchi e l’omino di burro, che rappresentano molto bene a mio avviso, la profondità dei fenomeni contemporanei di alienazione.
Nella favola di Collodi il paese dei balocchi riassume sinteticamente tutte le cadute precedenti di Pinocchio, anche se proprio da quell’ultima avventura disastrosa inizia la sua emancipazione dalle pulsioni negative che lo hanno governato fino a quel momento e che trasformeranno finalmente il burattino in un ragazzo. Il paese dei balocchi assomiglia superficialmente a un parco dei divertimenti; solo che non si tratta di una parentesi bensì della vita intera. Il suo gestore occulto, l’omino di burro, non appare quasi mai in scena ma si manifesta attraverso l’organizzazione di questa strana società e tramite gli effetti che tale organizzazione sociale produce sui suoi abitanti. Ciò che l’omino di burro promette è la felicità permanente, il divertimento e lo spettacolo senza soluzione di continuità, la spensieratezza indefinita: il paese dei balocchi è in buona sostanza un paradiso artificiale, creato appositamente per una popolazione di pueri eterni. Infatti i suoi abitanti sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale e acefala; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine. Letto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai. Le analogie con gli apparati propagandistici e con l’invasiva presenza totalizzante della televisione mi sembrano quanto mai appropriati; è sufficiente seguire per un giorno intero la miriade di giochi televisivi dove, con la semplice risposta a domande idiote, oppure grazie al semplice caso, si possono vincere somme di denaro spropositate. Il vecchio Lascia o raddoppia fa persino tenerezza se confrontato a questi programmi!
Quando Pinocchio esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come animale: è un asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo. Credo che qualcosa di simile alla condizione asininina attende la società occidentale, una volta raggiunto il fondo di questo tunnell!
Favola, pseudo scienza, pressione mediatica segnano oggi il ritorno della più completa irrazionalità nel governo dell’economia. Non sono gli scrittori a dirlo ma i responsabili delle banche. Intervistato recentemente, il direttore generale dell’Ubs (Unione banche svizzere), ha dovuto riconoscere che il colosso elvetico non è in grado di dire quanti titoli cosiddetti tossici sono finiti nel suo portafoglio clienti perché per seguire il percorso di un titolo e seguirne tutti i passaggi di mano e le transazioni occorrerebbe un lavoro di mesi. Infine, l’episodio tragicomico dei due esimi premi Nobel, sfata una volta per tutte la sciocchezza che i capitalisti sono i più indicati a gestire il capitalismo e che anche per questo le forze alternative non sarebbero in grado di accedere al governo. Se istituzioni come quelle citate in precedenza hanno potuto credere così facilmente a una formula magica viene semplicemente da ridere!
Le favole, quelle vere naturalmente!, possono invece suggerirci qualcosa di più e di meglio. Esse contengono sempre una morale molto chiara: il delirio di onnipotenza dei loro protagonisti viene sempre punito severamente da una legge superiore. Tale punizione, modernamente intesa, non può che incarnarsi in una regola sociale che nasca al di fuori della sfera economica e che le imponga, anche con la forza, un limite che non può che essere deciso da una comunità di soggetti organizzati intorno a un progetto di società.
Vorrei concludere questo saggio con un’ultima fiaba, raccolta dai Fratelli Grimm: Il pifferaio magico. Essa non ha a che fare direttamente con il denaro e la ricchezza, bensì con la rottura del patto sociale, che è tuttavia una delle conseguenze primarie delle crisi strutturali del sistema capitalistico.
La storia è nota, ma serve ripercorrerne alcuni passaggi essenziali per comprendere bene perché ci riguarda, ma anche per ricordare che si tratta di una fiaba le cui fonti orali risalgono al 1300 e dunque a tempi a noi abbastanza prossimi.
La città di Hamelin è infestata dai topi. Naturalmente l’animale è simbolicamente assai ambivalente e perturbante: perché i topi ci assomigliano molto, più di quanto non siamo disposti a credere. Non dimentichiamo, poi, che il topo fu portatore della pestilenza, una sventura di proporzioni bibliche che funestò l’Europa durante tutto il ‘300.
Il borgomastro di Hamelin non è in grado di risolvere il problema, ci vuole la cooperazione d’altre competenze e pensa di trovarle nel pifferaio magico. Questi concorda il compenso e con la musica suadente del suo piffero attrae a sé i topi e li trascina nel fiume Wesen, dove annegano. La città è libera ma, proprio quando sembra tutti finito per il meglio, accade qualcosa che a prima vista sembra del tutto irrazionale: la comunità di Hamelin e il suo borgomastro si rifiutano di riconoscere al pifferaio il compenso pattuito e questi allora trascina tutti i bambini della comunità dietro il suo piffero fino al fiume, o, secondo altre versioni, dentro una grotta dove li imprigiona.
Ci sono diverse versioni sulla conclusione della fiaba. Fra quelle meno tragiche ne scelgo una per i suoi richiami biblici. Secondo tale versione solo un bambino riesce a sfuggire alla sorte che lo attende perché è zoppo e non riesce a tenere il ritmo impresso dal pifferaio alla musica: rimanendo indietro egli vede dove vanno a finire gli altri bambini e riesce a fuggire. L’imperfezione fisica del bambino ricorda l’episodio del sogno di Giacobbe e della lotta con l’angelo. Al mattino Giacobbe si sveglia diverso da come s’era addormentato e si ritrova zoppo come il bambino della fiaba, cioè consapevole. Quanto al bambino, egli non segue le seduzioni della musica, a differenza degli altri che non si pongono alcun interrogativo, pur sapendo benissimo la fine che hanno fatto i topi. Ciò che colpisce, però, sono l’assenza e l’irresponsabilità degli adulti della città, che sembrano prima illogici nel negare il compenso al pifferaio e poi impotenti di fronte alla sua magia. Forse però si tratta di ripensare in altro modo tutta la favola.
Quando la comunità ricorre al pìfferaio lo fa perché è in preda al panico, i topi sono ovunque, e sono il sintomo di un maleficio che si è già diffuso e che la comunità non ha saputo prevenire. E i topi non sono forse, con la loro organizzazione sociale pericolosamente vicina a quella umana, i più adatti a prestarsi come causa piuttosto che come effetto? La comunità di Hamelin si affida così al pifferaio magico, che bene incarna la figura del demagogo politico che si sostituisce ai poteri costituiti e ‘libera’ la città; ma a un prezzo altissimo. La natura del compenso, infatti, non viene esplicitamente indicata.
Se si unificano tutte le versioni della fiaba e le si riportano al comune denominatore, la morale è sempre la stessa: una comunità incapace di governarsi mette il proprio destino nelle mani di una forza ambivalente e distruttiva e che esige un tributo impossibile da pagare perché si tratta semplicemente della distruzione della comunità stessa: sia che si tratti dei topi (o degli ebrei – che i nazisti consideravano cimici e cioè piccoli topi, come ci ricorda Canetti nel caso della Germania nazista), sia che si tratti dei propri figli. Il demagogo non libera dai topi perché non erano loro il problema a Hamelin come da nessuna altra parte e se si dissolve il legame sociale prima si comincia con lo sterminare i ‘topi’ (nell’Italia delle leggi razziali contemporanee non sono più gli ebrei ma gli islamici, gli zingari, gli albanesi; i rumeni a seconda delle opportunità del momento).
Qual è il nesso fra la dissoluzione del legame sociale, allegoricamente rappresentato nella fiaba del Pifferaio magico, e il denaro? O se si preferisce l’economia? Ci soccorre ancora Canetti. L’invasione dei topi (o delle bibliche cavallette) è una sorta d’inflazione, speculare a quella della moneta e incarna benissimo quell’immagine così pregnante dello scrittore viennese, quando egli afferma che quanto più i milioni salgono nel valore nominale, tanto più gli esseri umani che li possiedono sentono di non valere nulla. I topi rappresentano benissimo quest’immagine di un’umanità numericamente enorme ma che ‘non vale nulla’: perciò fanno così tanta paura e per questo hanno buon gioco i demagoghi a fare leva su questa paura.
L’inflazione catastrofica o le crisi strutturali ricorrenti del modo di produzione capitalistico, tuttavia, non sono maledizioni bibliche, ma conseguenze assolutamente certe del suo modo di funzionare. La rottura del vincolo sociale si ripete nel tempo costantemente, generando ogni volta le condizioni che favoriscono il ricorso al pifferaio magico di turno. Torniamo allora a quest’ultimo per vederne più da vicino la natura.
La prima caratteristica che colpisce è la sua apparente innocuità. Anzi, la sua immagine si presenta come qualcosa di positivo in sé: rappresenta la musica, la più pura delle arti insieme alla poesia di cui è coeva alle origini. Il pifferaio è un artista? In apparenza sì, ma solo nella declinazione di un’arte che è puro spettacolo e pura seduzione: la sua musica produce un consenso acritico, tanto che topi e umani possono seguirlo indifferentemente. La sua musica è un altro paradiso artificiale che aliena dalla realtà e se la comunità si affida a lui per governare, essa non ha futuro e infatti la sua musica non porta alla morte gli adulti bensì i bambini, cioè il futuro della comunità.
Il pifferaio, dunque, è anche il simbolo di una funzione degradata dell’arte: invece di rappresentare criticamente ciò che più manca alla comunità di Hamelin, (per dirla con Jung) e darle la consapevolezza necessaria, egli si serve delle paure dei cittadini di Hamelin per speculare su di esse, esigendo un tributo che alla fine segna la morte della comunità stessa. Ricordiamoci allora dei versi straordinari e immortali di Pound: ‘ se c’è l’usura non ci può essere Piero della Francesca’ Il suo era anche un modo di segnalare il pericolo di una prostituzione delle arti e dell’artista e il loro asservimento all’ideologia del puro intrattenimento o dello spettacolo, come avrebbe denunciato decenni dopo Guy Debord: le arti come una sorta di ‘pifferaio di massa’ e di aulete dell’ideologia massmediatica dominante.
L’artista e anche l’intellettuale degni di questo nome potrebbero, nella realtà odierna, avere come modello di riferimento, invece, il bambino zoppo della fiaba, che nella versione meno tragica riesce poi a salvare in qualche modo anche gli altri e a ridare un futuro alla comunità di Hamelin: oppure il modello altrettanto classico della favola del re nudo, nella quale il protagonista è ancora una volta un bambino. Entrambi i protagonisti di quelle due fiabe compiono un gesto, infondo, molto semplice: resistono al canto delle sirene, all’omologazione di massa, a quel pensiero unico che ha fagocitato e colonizzato gran parte dell’immaginario e trasformato anche il tempo libero in tempo coatto.
BIBLIOGRAFIA.
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- Sigmund Freud: Psicologia delle masse e analisi dell’io. In Opere di Sigmund Freud, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80
- Sigmund Freud: Il poeta e la fantasia. In Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80.
- Fratelli Grimm: Fiabe, Collana I Millenni, Einaudi, Torino 1978.
- Carl Gustave Jung: Saggi sulla poesia e sull’arte, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
- Carl Gustav Jung: La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica. In: Carl Gustav Jung: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, prefazione di Giovanni Jervis, traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea, Einaudi Torino, 1959.
- Karl Marx: Il capitale, a cura di Eugenio Sbardella, Avanzini e Torraca editori, Roma 1966.
- Karl Marx: Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1976.
- Arthur Miller: L’orologio americano. (solo su Internet, non disponibile nella traduzione italiana).
- Loretta Napoleoni: La morsa, Chiare Lettere, Roma 2008.
- Ezra Pound: Cantos, Canto XLV, Garzanti Milano, 1964.
- Ezra Pound: L’abc dell’economia , introduzione di Giorgio Lunghini, prefazione di Mary Pound de Rachewiltz. Universale Bollati Boringhieri, Torino 1994.
- W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978.
- Emil Zola: L’argent, (il denaro), traduzione di Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, Newton Compton, Milano.
9 La furia matematica del decennio andava ben oltre i limiti dell’economia: qualcuno, sull’onda dell’entusiasmo per le teorie di René Thom (l’autore della Teoria delle catastrofi), parlava della possibilità di trovare l’equazione di Dio.
10 Loretta Napoleoni, La morsa, Chiare lettere, Roma 2008
11 Op. cit. Ivi.
12 Ezra Pound, Cantos, XLV,1964. /Con l’usura non si ha per l’uomo casa di pietra buona/dove ogni isolato sia squadrato finemente e adatto/e il design possa dare ricovero al volto,/Con l’usura/non c’è un paradiso dipinto sui portali della chiesa/né arpe o liuti/o luogo dove la vergine riceva il messaggio/e si proietti l’aureola dall’incisione/Con l’usura/non c’é nessun Gonzaga, suoi eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e per convivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/Con l’usura peccato contro natura,/il tuo pane ancora di più diventa avanzo rancido/secco come carta/niente grano di montagna niente buona farina/con l’usura il limite intorbidisce/con l’usura non vi è confine certo /e nessuno trova dove costruire la propria dimora/il tagliatore di pietre è alienato dalla sua pietra/il tessitore lo è dal suo telaio/Con l’usura la lana non giunge al mercato/le pecore non recano guadagno/L’usura è pestilenza./con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta la delicata macchina filatrice/Pietro Lombardo/non venne dall’usura/Duccio non venne dall’usura/e così Piero Della Francesca; Zuan Bellin non dall’usura/né fu dipinta La calunnia./Beato Angelico non venne dall’usura, Né Ambrogio Praedis,/nessuna chiesa di pietra siglata: Adamo me fecit/Non dall’usura St Trophine/non dall’usura Saint Hilaire/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo nel telaio/Nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello/l’azzurro ha un cancro con l’usura/il cremisi non si accende/lo smeraldo non trovò Memling/L’usura assassina il bimbo nel grembo/trattiene il giovane dal corteggiamento/ha portato la paralisi nel letto/si sdraia fra il giovane sposo e la sua sposa// CONTRA NATURAM/hanno portato le puttane per Eleusi/cadaveri preparati per il banchetto/agli ordini dell’usura…… (traduzione mia).
13 Negli anni ’30 Pound scrisse in effetti una raccolta di saggi di carattere economico che sono oggi rieditati in Italia da Bollati Boringhieri, sotto il titolo L’A B C dell’economia con una nota critica di Giorgio Lunghini.