Black Monday in Polonia Premessa Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un dibattito che è il sintomo di una società profondamente malata. Lo sapevamo già, ma ci sono momenti in cui avvengono dei salti di qualità e credo che in questo abbia influito anche la recente diffusione e ancor…

GRAND TOUR: IL CASENTINO E LA VALLE TIBERINA

Castello di Poppi

Nell’attraversare la Toscana in questo nuovo viaggio mi ritrovo a pensare che in Italia esistono luoghi che nel tempo hanno conosciuto maggiore o minore fama, senza che ciò implichi una minorità dal punto di vista architettonico, paesaggistico e artistico. Insomma, la provincia italiana non tradisce mai e il Casentino non fa eccezione. Per descriverlo da un punto di vista geografico parto da Arezzo, che costituisce una sorta di baluardo e confine a sud. Dalla città si snoda una lunga strada diritta che percorre una vallata che fiancheggia l’Arno, dove s’incontrano i paesi bassi o appena collinari: Subbiano, Bibbiena, Pratovecchio e Stia dove il Casentino finisce e la strada si protende in due diverse direzione: il Mugello, oppure il salto verso la Romagna in due diverse direzioni, Cesena e Forlì. In questo giro ci sono stati due sconfinamenti, sempre in provincia di Arezzo: Anghiari nella valle tiberina toscana e Monterchi. I paesi alti sono poco abitati e questa caratteristica regionale dell’intera Toscana, si ripropone qui in termini ancora più vistosi. Il silenzio è sovrano, a parte la strada a valle, dove il traffico è più intenso ma senza alcuna frenesia.

Nella zona imperversano molte sagre fra cui numerose quelle della polenta. Certo, siamo in settembre … ma ci sono più di 30 gradi; i cambiamenti climatici non sembrano entrare nell’orizzonte tematico degli organizzatori e anche questo è un segno dei tempi. Queste sagre ci riportano indietro negli anni, la Toscana fu uno dei primi luoghi che visitammo insieme Laura ed io. È passato molto tempo da allora e tanto altro. Questo viaggio è segnato dai ricordi e anche dalla tristezza: ci sono presenze e assenze fra di noi. Alla fine optiamo per la sagra di Subbiano, che ricorda le vecchie feste dell’Unità e delle case del popolo, dove andavano sempre in estate durante i nostri soggiorni a Massa Marittima: anche per Nicola e Ulisse erano appuntamenti assai gradevoli. Il clima però è solo apparentemente lo stesso. I volti sono i medesimi, ma più smarriti e anonimi. Il dato più vistoso però è l’assenza di ogni richiamo politico. È rimasta la festa, senza più neppure la consapevolezza che un tempo era la politica a unire come un collante di valori e a darle quel profumo che oggi non si avverte più. Né arcaica, né moderna, né proletaria, né borghese.

L’escursione a Monterchi aveva uno scopo preciso: vedere La madonna del Parto di Piero della Francesca. L’installazione si trova in un museo molto bene allestito e non troppo frequentato. Si paga un ingresso del tutto congruo per le notevoli risorse tecnologiche del museo, che permettono una visione del quadro in ogni dettaglio possibile. Piero è il trionfo della compostezza, della razionalità delle linee, della sezione aurea, dell’equilibrio che porterà in pieno Rinascimento alle opere pittoriche e architettoniche più celebrate di Raffaello e di Bernini. Che dire però di tale compostezza? L’ammirazione, per quanto mi riguarda, non riesce del tutto a superare il disagio della perfezione. La memoria va allora ai versi di Pound, più precisamente al Canto dell’Usura dove abbondano le metafore pittoriche e linguistiche. Queste ultime rimandano al medioevo e infatti l’inglese che il poeta usa è quello arcaico e anche per quanto riguarda la pittura predominano figure apparentemente minori come Pietro Lombardo, oppure appartenenti al primo Umanesimo, mentre il poeta sembra tenersi lontano dal pieno Rinascimento. Tuttavia, Piero è citato nel testo e sembra una nota stonata: cosa ci fa tutta quella perfezione in un testo cupo e governato da un senso di sventura? Il poeta lo cita come esempio di una pittura che stride con la pratica dell’usura, ma storicamente è proprio il contrario. È il paradosso di Pound, che insegue un Cristianesimo delle origini senza rendersi conto che dall’invenzione del Purgatorio in poi quel mondo era finito ed era il mecenatismo dei Papi, nutrito dal traffico delle indulgenze, a rivestire le cattedrali di opere come quelle di Piero e altri.

Ritroviamo una eco di quel Cristianesimo arcaico a Chiusi della Verna e specialmente all’eremo di Camaldoli. Ci eravamo stati molti anni fa e quella volta Laura ed io riuscimmo persino a parlare affabilmente con uno dei monaci. Erano tempi di apertura e i monasteri offrivano celle a chi voleva trascorrere un periodo di vacanza e meditazione anche per non credenti. Da una rapida ricerca vedo che tutto questo è ancora possibile, seppure con regole più stringenti, ma anche con l’offerta di corsi di yoga e vari tipi di meditazione. Nell’elenco dei monasteri aperti, però, ritrovo la Verna, ma non Camaldoli. La dimensione eremitica è più accentuata in quest’ultimo, mentre nel primo prevale di gran lunga uno degli aspetti del francescanesimo: la convivialità comunitaria, sobria, a tratti severa, ma pur sempre comunità. Qualcosa della severità di entrambi luoghi mi ha ricordato pure Viterbo, anch’essa una città dove i fasti di un Cristianesimo alto medioevale sembrano ancora relativamente intatti.

L’Italia è piena di castelli e anche in questo il Casentino non fa eccezione. Lo stato di conservazione del borgo medioevale e relativo castello di Poppi è invidiabile, un vero gioiello. Il castello è di proprietà dei Conti Guidi, una delle tante famiglie nobiliari italiane, meno paludata di altre, ma il cui lascito è davvero prezioso. La loro storia affonda le radici nelle mille contese altomedioevali, sempre difficili da ricostruire; ma per questo trovo assai esauriente l’opuscolo davvero pregevole messo a punto dal ministero dei beni culturali: un’altra meritoria impresa è la fondazione dell’ecomuseo del casentino con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e la pubblicazione dell’opuscolo illustrativo, altrettanto prezioso.

Vale la pena di notare come i Guidi fossero dalla parte ghibellina e una particolare menzione merita allora il busto di Dante conservato nel castello e che depone a favore dei famosi versi di Foscolo indirizzati al poeta, ghibellin fuggiasco. Lo stato di conservazione del castello è il frutto di un’attenzione che si è tramandata per generazioni e che è arrivata fino a noi grazie anche alla politica del Granducato e poi del Ministero. Basti pensare che nella torre del castello si svolsero i primi esperimenti di parafulmini in Italia.

Anghiari ha un fascino un po’ diverso rispetto alle altre località. Il luogo ha una bellezza del tutto particolare, con una via centrale scoscesa, a cui lati ci sono locali e negozi. Da lì si può ammirare la vallata. Anghiari è tante cose, ma lascio per ultima la famosa battaglia perché in fondo la sua notorietà recente ci riporta a tempi assai prossimi e a un’idea ambiziosa e originale proposta da Duccio Demetrio e ripresa da altri studiosi e associazioni fra cui il gruppo Abele: Il progetto autobiografia, che proprio in Anghiari ha il suo centro più importante di iniziative e documentazione. Tale idea s’inseriva in un discorso più ampio che riguarda la microstoria, cioè una memorialistica che farebbe la gioia di Walter Benjamin nel senso che ricalca un modo di fare storiografia da parte dei cronisti medioevali che nel limite del possibile non distinguevano fra gradi e piccoli eventi ma registravano quanto più possibile nei loro scritti. Il progetto autobiografia non è dunque semplicemente la ricostruzione memorialistica di vite comuni da parte degli stessi protagonisti che la scrivono e non è neppure un prendersi cura di se stessi, ma diventa un momento della storia antropologica e del costume di un epoca o di una comunità. Negli stessi anni e cioè nel passaggio di millennio, ricordo alcune delle riviste – di impronta più marcatamente storica – che svolgevano la stessa funzione di memorialistica locale: per esempio Altro che Mestre. Nel tempo forse questi progetti si sono un po’ arenati, forse per un eccesso di dispersione, ma la possibilità di una memorialistica storica che filtra i grandi eventi facendoli passare per le vicende di singoli e comunità, mi sembra iscriversi in quel grande progetto degli Annales, che conferma nel tempo la sua grande vitalità.

Infine, il Museo della battaglia: molto dettagliato, con riproduzioni dei vari schieramenti e tutto quello che ne consegue. La sensazione che provo di fronte a queste ricostruzione è che, pur ben fatte e con dispendio di strumentazioni tecnologiche sempre più raffinate, alla fine sono tutte uguali e molto spesso indicano che chi intraprende una guerra di solito la perde. Perché allora?  

Il viaggio volge al termine e il pensiero ritorna alla provincia italiana che non tradisce mai ma è pure il luogo in cui meglio di qualsiasi altro la nostra vita italica precipita in caduta libera nell’oblio. Se nell’Odissea la terra dei Lotofagi era circoscritta in un’isola, le micro regioni italiane svolgono la medesima funzione su larga scala. Si smarrisce il tempo in questi luoghi, tutto appare attutito e lontano. È la stessa atmosfera che mi parve di cogliere a Venezia nella parte lagunare più estrema e lontana dall’eccesso turistico: il Lido degli Alberoni e la frazione di Malamocco. Del resto lo abbiamo sperimentato in questi giorni. L’intuizione quanto mai preziosa di Ulisse che ha pensato di portare con sé le carte da gioco, ha permesso di fare tardi la sera fra buona cucina, conversazione rilassata, niente televisione, poca radio e silenzio. La sensazione è di essere stati per una settimana nella vita postuma di luoghi che avendo avuto troppo nel loro passato, sono rimasti alla fine immobili in quello che ne era rimasto. Forse la medesima esperienza la provarono gli abitanti di Troia e di Cartagine che sopravvissero ai fasti precedenti e alle successive distruzioni. Rimasero lì dove erano, rifiutando di andarsene chissà dove a inseguire nuove idee di grandezza … poi, si dimenticarono di tutto.

Camaldoli

 LE TESI SULLA STORIA: SECONDA PARTE

Viktor Vasnetsov, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1887

Introduzione

Questa seconda e ultima parte dedicata alle Tesi sulla storia mette a dura prova, perché in essa Benjamin tenta la strada impervia di mantenere viva la debole luce della speranza nel momento più buio della storia europea del secolo scorso. La convinzione che queste fossero le sue intenzioni deve passare tuttavia da ben due forche caudine: la prima è che si tratta pur sempre di un’interpretazione a posteriori su un testo che probabilmente Benjamin avrebbe ulteriormente modificato, la seconda – ancor più sibillina – è che se una debole speranza vuole essere salvata nell’oggi necessita di essere attualizzata. Il farlo, però, non può essere affidato semplicemente a un pensiero ma a una prassi che va reinventata, lontana da pratiche politiche precedenti, dalle quali non possiamo aspettarci più nulla.

L’UTOPIA CONCRETA COME SPERANZA

Friederich Schelegel: Der Historiker is ein rückwärtsgekehter Prophet  (Lo storico è un profeta rivolto all’indietro).

Possiamo ripartire dalla paradossale citazione di Fourier e attualizzandola, porci una domanda: esistono nella nostra contemporaneità equivalenti delle sane fantasticherie  di cui parla Benjamin?

Nella parte finale della dodicesima tesi e in quella della seconda Benjamin pone il problema in questo modo:

“[…] esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni altra generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.

Ci sono tre nodi importanti in questo passaggio. Il primo lo abbiamo già incontrato: sono le generazioni passate e non quelle future che richiedono di essere riscattate e che affidano a noi e si aspettano da noi che ci adoperiamo in quel senso. La forza che ci hanno affidato con il loro esempio è debole e messianica e su questi due termini sarà necessario ragionare a lungo perché l’ossimoro è assai intrigante. Il terzo nodo riguarda il materialismo storico, rispetto al quale occorre cercare di risolvere una volta per tutte la contraddizione vistosa presente nell’uso di tale espressione; cioè che in alcuni casi essa è usata in senso negativo in altre positivo.

Nel parlare di una forza debole Benjamin prende di nuovo le distanze dal modello eroico: è un tema che compare anche nel saggio del ’39 sul teatro epico. Non vi è alcuna forma di titanismo nell’idea di lotta di cui Benjamin si fa portatore, né nella sua versione romantica e neppure in quella positivista di cui si è già detto. Perché messianica allora? Perché la possibilità di agire ha un limite temporale per qualunque generazione, ma l’orizzonte di tale azione si colloca oltre perché non può che essere orientato a riscattare tutta la storia, come afferma la terza Tesi, in parte già citata:

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso. Certo, solo a un’umanità redenta, tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una citacion a l’ordre du jour – giorno che è appunto il giorno del giudizio.

Dunque l’orizzonte appartiene al messianico perché eccede la storicità, mentre la forza è debole perché può essere adoperata in un tempo che è segnato dal limite. Tuttavia, non si può rinunciare all’orizzonte più lontano, altrimenti ci si accontenta di riscatti parziali. Avrebbe potuto scrivere utopico invece che messianico? In teoria sì, ma se ricostruiamo passo dopo passo il pensiero di Benjamin, l’uso del termine appare alla fine necessario. Lo si comprende meglio considerando altre due tesi che ci traghetteranno verso una delle due finali, aggiunte all’ultimo momento.

Tesi quinta, nella traduzione di Einaudi. Nel ‘Manuskript Arendt’ è la tesi n. 4.

La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte  proprio nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato. […] Poiché è un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di svanire con ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso. (La lieta novella che lo storico del passato porta senza respiro, viene da una bocca che forse, già nel momento in cui si apre, parla nel vuoto).

Per vera immagine (wahre Bild) egli intende quella che ci rivela qualcosa che rompe il continuum storicista: è l’immagine che colpisce gli occhi (Augenblick) e come tale guizza via (huscht vorbei). Vero, non va dunque assunto qui nel suo significato letterale, ma in quello di esemplare ed emblematico. Tale immagine rischia di scomparire se non trova significato nel presente, cioè se non trova qualcuno che la salvi dall’oblio e ne riconosca il senso nell’oggi. La chiusa fra parentesi ribadisce in altro modo che si tratta di un’immagine appena vista e che scompare, come i sogni al mattino; oppure una voce che parla nel vuoto o nel deserto.

La sesta Tesi ribadisce la quinta aggiungendovi qualcosa in più:

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo proprio come è stato davvero. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevisto nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari […]. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla […].

Arriviamo così alla Diciassette A, una tesi molto complessa: essa è riportata solo nell’edizione tratta dal quaderno 3 de L’ospite ingrato pubblicata da Quodlibet, che ne ricostruisce anche la genesi.  

Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico; ed era giusto così.”10

Tale incipit ci permette di capire il senso dell’espressione materialismo storico quando Benjamin ne scrive positivamente11 ; ma ancor più permette di comprendere la necessità di usare il termine messianico e non utopico. All’incipit perentorio di cui sopra segue una reiterata critica alla socialdemocrazia che abbiamo già visto più volte e che riprendo solo per una notazione ironica e tuttavia assai significativa, perché si estende a ogni idea di progressismo basata sulla freccia del tempo, nonché al suo corollario e cioè l’attesa di un secondo tempo che non arriva mai

 “[…] Una volta definita la società senza classi come un compito infinito, il tempo omogeneo e vuoto […] si trasformò in un’anticamera nella quale si poteva attendere […]”.

Così prosegue:

In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria.  Essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su una […] stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica: ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà come azione messianica.

La novità di questo passaggio, pur nei suoi tratti faticosamente risolti, sta nel raccogliere un’ipotesi che altri avevano già formulato su Marx, ma dandole un senso completamente diverso.12 Il Marx di Benjamin ha effettivamente secolarizzato il tempo messianico e per questa ragione non avrebbe potuto usare un termine come utopico. Non solo, ma per il filosofo era giusto così . Mi servirò allora di un’analogia con il cristianesimo. Pensando al tempo messianico, Gesù per i cristiani è colui che afferma: sono io quello che attendevate. Dunque l’incarnazione della divinità e tutto ciò che ne consegue, compresi i rimandi alle scritture che avrebbero profetizzato il suo arrivo. Il Marx di Benjamin risponde in modo categorico a una diversa domanda che si potrebbe formulare così: Quando sarà il tempo dei profeti? Adesso, qui e ora. La tesi B ci permette di capire in tutte le sue sfaccettature il retroterra ebraico di questa soluzione.

Tesi B traduzione da L’ospite ingrato. Nella traduzione di Einaudi è nominata come tesi 18 A e B.

Il tempo che gli indovini interrogavano  […] da loro non era certo sperimentato né come omogeneo né come vuoto. Chi tiene presente questo forse giunge a farsi un’idea di come il tempo passato è stato sperimentato nella rammemorazione e cioè proprio così. È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece alla rammemorazione. Cioè liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quando cercano il responso o di presso gli indovini. Ma non perciò il tempo diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto, perché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia.

Alcuni spunti conclusivi e qualche fantasticheria

Di fronte a questi esiti della riflessione la critica ha storto il naso rimproverandogli in sostanza di non saper scegliere fra una visione laica della storia e una messianico-religiosa: è la stessa critica rivolta a Ernst Bloch, che Benjamin cita spesso. Il saggio di Renato Solmi dell’Angelus Novus einaudiano insiste su questo  punto; più neutri e non  così netti nel giudizio i saggi di Bonola per L’Ospite ingrato e quello di Fabrizio Desideri sul testo di Einaudi. Tale critica, che poteva essere rivolta con qualche ragione al Frammento teologico-politico del 1920, non mi sembra invece riferibile alle Tesi. La seconda critica mossa a Benjamin è di avere introdotto una dimensione catastrofica nella sua visione della storia, che è rappresentata in modo così potente nell’immagine dell’Angelo di Klee della Nona tesi. La prima considerazione, a proposito dell’ultima osservazione, è che tale critica, ancora comprensibile quando fu avanzata, è altrettanto improponibile oggi. Non vedere che il catastrofico è effettivamente entrato nelle nostre vite quotidiane diventa una forma di cecità che si manifesta in modi assai perniciosi: il complottismo prima di tutto, la ricerca di spiegazioni strane, magico-esoteriche e antiscientifiche.13

La doppia tenaglia patriarcato-capitalismo è più che sufficiente per comprendere le manifestazioni più estreme del clima, la distruzione dei sistemi sanitari e sociali, la ricorrente esplosione di epidemie su tempi brevi (Ebola, Aviaria, Sars, Covid-19), l’insostenibilità di sistemi sociali che hanno generato povertà e rivolte in tutto il mondo, infine nel ritorno delle guerre che si susseguono dalla 1991 a oggi con intensità sempre crescenti. A gettare allarmi sull’aggravarsi dei diversi scenari non sono state Cassandre improvvisate, né millenaristi d’occasione, ma scienziati e  commentatori politici che non avevano ancora spento il barlume del pensiero critico dalle teste, oppure sono venute dal pensiero femminista nelle sue diverse declinazioni. Queste voci non appartengono al mondo degli indovini – per citare Benjamin – ma a un bagaglio culturale e politico moderni di cui l’occidente è molto orgoglioso quando si tratta di gettarlo faccia alle altre culture, con atteggiamenti di superiorità neo coloniale sostenuta soltanto dagli apparati militari e niente altro.

Quanto alla dimensione messianica del discorso di Benjamin credo lo si possa accogliere in questo modo. La sua affermazione “Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico” va presa alla lettera. Marx secolarizza effettivamente il tempo messianico e dunque lo riporta nella storia: ma è il tempo ebraico, non quello cristiano, che è sempre un rimando a un secondo tempo, a un dopo. Affermare che ogni istante può essere la porta in cui entra il Messia, non significa attenderlo, ma soltanto che il giorno del giudizio universale è sempre adesso e quindi sta nella storia e non alla fine dei tempi. Importante dunque è individuare quale sia la chance specifica del momento storico che si sta vivendo e siamo dunque del tutto nella storia. La parte più oscura di questa citazione lo diventa di meno se gli accostiamo quest’altra, potente e salvifica al tempo stesso:

Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”        

Se sostituiamo alla parola storico, inteso come specialista, espressioni quali soggetti sociali che resistono e si pongono il problema di un nuovo orizzonte di senso, che il nemico sia il fascismo o un altro dei vincitori non ha alcuna importanza: è l’idea che neppure i morti sono salvi se non continuiamo a salvarli noi nel nostro presente, a nutrire l’indignazione e la resistenza.

Se questo è lo scenario quale fantasticherie possiamo coltivare per andare oltre la denuncia senza peraltro rinunciarvi? Le denunce continuano a essere necessarie e preziose, ma quello che sembra mancare del tutto è la volontà di lotta, oppure essa è dispersa in rivoli che non assomigliano a un’onda di piena ma uno spreco di acqua e di energia. Su tutto sembra sovrastare la rassegnazione che emerge sempre nelle chiacchiere che si fanno. Vado controcorrente e penso che tale rassegnazione non abbia soltanto un lato negativo ma che ne abbia due, di cui uno altamente positivo. Delusione e rassegnazione, quando vengono da sinistra, non sono solo quello che sembrano ma anche un voltare le spalle con indignato silenzio a pratiche politiche precedenti e a nauseabondi leader politici che si spacciano per quello che non sono e che hanno completamente abbandonato ogni idea di lotta e resistenza all’intreccio capitalistico patriarcale che sta portando ad esiti catastrofici. Permangono le loro dannose nomenclature che sono un fattore inquinante di ogni discorso politico. Voltare le spalle a tutto questo, togliere il più possibile consenso e spazio di manovra a queste nomenclature morenti è compiere quel gesto di distanziamento dalle consuetudini precedenti che Benjamin suggeriva di compiere dopo la firma del Patto scellerato Ribbentropp-Molotov.

Il passo successivo implica il darsi la possibilità di uscire dalla cecità guardando altrove: prima di tutto a pratiche già esistenti che in qualche caso fanno risuonare nella contemporaneità immagini antiche da salvare. Mi riferisco a tutta la riscoperta che anche in Italia si sta facendo – ma è un discorso mondiale – di società di muto soccorso, cooperative per il riciclo e il riuso: la parola cura può essere usata come sintesi di tutto questo. In secondo luogo, l’agenda femminista – uso un’espressione che è stata usata qualche anno fa e che mi sembra attuale più che mai – il sorgere di un movimento imponente contro le guerre in corso nonostante l’oscuramento mediatico di cui gode, le pratiche differenziate di chi si batte per una politica che contrasti i cambiamenti climatici di natura entropica, le nuove frontiere dei diritti LGBT plus. Certo, tutto questo agglomerato di sane fantasticherie attuali necessita di dialogo e di trovare un proprio linguaggio-gesto che non sia pretesa di sintesi ma piuttosto di costruzione di ponti e atolli di senso. L’ultima espressione in corsivo che ho usato non è neutra. Il primo a proporla diversi anni fa fu un pensatore fra i più anomali e oggi dimenticati della sinistra – quella sì radicale – di quegli anni: Furio Jesi.

Konstantin Gorbatov, La città invisibile di Kitezh, 1913


10 Benjamin introdusse questa tesi all’ultimo momento e infatti essa non si trova in tutte le traduzioni e non è presente nel manoscritto tedesco in possesso di Hanna Arendt. Tuttavia non vi è dubbio che l’intenzione fosse chiara: inserirla subito dopo la diciassettesima. La traduzione di cui mi sono avvalso con la nota che ne ricorda la genesi si trova in Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N. 3 de ‘L’ospite ingrato’, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013, pp.97-9.

11 La mia ipotesi è che quando ne parla positivamente Benjamin intende per materialismo storico né più né meno che il pensiero di Marx e di Engels anche se il secondo non lo nomina qui, ma lo aveva nominato più volte nei saggi del ’36-37. Il filosofo non si spinge a introdurre una differenziazione linguistica, ma mi piace pensare che se fosse vissuto fino agli anni ’80 avrebbe accolto con favore la distinzione introdotta dal filosofo francese Maxmilien Hrubel che invitava a distinguere il marxismo, facendolo coincidere con l’esperienza del socialismo reale, dal pensiero di Marx. Fu lui a introdurre la categoria di marxiano per indicare chi si rifaceva a un Marx libero dai marxismi novecenteschi. Benjamin, ancora a ridosso degli eventi, rimase fedele a quel pensiero e alla Lega di Spartaco, ma era consapevole che per la sua generazione quel lume si era spento. Purtroppo ci sono vite, come la sua,  che sembrano rappresentare anche nella loro fine, la consapevolezza estrema con cui hanno vissuto.     

12 L’idea di Marx come profeta materialista, ma profeta e dunque profondamente nel solco della cultura ebraica non è nuova ma era stata sempre formulata per irridere o squalificare. Per i credenti, poi, l’ipotesi di un Marx profeta materialista poteva risultare addirittura blasfema. La famiglia Marx era di origine ebraica, il nonno era un rabbino, ma il padre, non credente come poi il figlio, aveva aderito al protestanesimo luterano per poter esercitare la sua professione e cioè l’avvocatura. In sostanza il milieu ebraico di Marx veniva rispolverato per ragioni negative e addirittura per imputargli anche una punta di antisemitismo, per alcune analisi contenute nel suo scritto giovanile sulla Questione ebraica.

13 La negazione del Covid, i deliri dei Quanon negli Stati Uniti, sono alcuni degli esempi più estremi di tale deriva.

LE TESI SULLA STORIA DI WALTER BENJAMIN

Una parte di questa riflessione è stata già pubblicata sulla rivista online Overleft (www.overleft.it), con il titolo La speranza possibile. Alla fine ho deciso di riproporlo qui nella sua forma più estesa e con alcune modifiche al fine di accorciare quelle parti che mi sono sembrate più datate rispetto al nostro presente e invece sviluppandone altre. Data la lunghezza del testo, lo pubblico in due puntate: la prima è la pars destruens della riflessione di Benjamin e si conclude con la celeberrima nona Tesi, quella in cui compare l’Angelo della storia e ha come riferimento un quadro di Klee.

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Premessa

I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo, dopo due anni di pandemia che stanno già cadendo in un eccessivo oblio, sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere quest’opera, che si può considerare il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito di tale testo, nelle diverse riletture che ne ho fatto, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita.

Introduzione

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, contraddittoria e oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920.

Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso che va ben oltre lo scritto del ‘20. Bisogna tuttavia considerare che egli si trovava in una condizione di disperazione personale e di isolamento in quel momento. Penso che se avesse avuto il tempo di rivederle, alcune oscurità avrebbe cercato di chiarirle e del resto che si tratti di un lavoro composto in uno stato febbrile lo dimostra il continuo cambiamento nell’ordine delle tesi e le due non numerate ma indicate come Tesi A e Tesi B, aggiunte per ultime. Per di più, le versioni diverse del testo e delle traduzioni rendono ancor più complesso avvicinarsi a quest’opera. Per tale ragione seguirò un mio ordine nel commentarle e non quello delle due traduzioni italiane cui faccio riferimento, peraltro diverse anch’esse nella numerazione. Per alcuni passaggi chiave farò ricorso anche all’originale in lingua tedesca. Per non appesantire la lettura con continui rimandi alle note, indicherò nel testo a quale traduzione mi riferisco, caso per caso.1   

Al grado zero della speranza

Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana ndr).

Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.   

Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, alcuni dei temi intorno ai quali si muove la riflessione, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentrop-Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Egli lo ricorderà quasi in ognuna delle Tesi che il contesto è quello. Nazismo e Fascismo trionfano ovunque, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era entrata in guerra; dall’altro c’è lo smarrimento del fronte antifascista. Portandoci in una nicchia conventuale, Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. Niente però è più salvo della prassi precedente quel momento, compresi certi sodalizi che sono stati anche i suoi. In quei politici e in quei partiti nulla può essere riconosciuto come speranza e occorre avere il coraggio di voltare loro le spalle: è uno scenario che conosciamo benissimo anche noi oggi.

La regola della meditazione conventuale è un togliersi dalla lettera della storia e il farlo implica accettare il prezzo che comporta il rifiuto di colludere con il modus operandi di poco prima; tale prezzo, tuttavia, non è tanto la brutalità degli eventi in sé e neppure la propria solitudine soltanto, ma prima di tutto un affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente. Come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente, la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. Qual è tuttavia la concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere? Lo storicismo; ma si tratta  di un termine convenzionale e tecnico che può essere frainteso e che di per sé non risponde alla necessità impellente di gettare l’allarme in un momento tragico della storia europea. Nella tesi ottava troviamo una sua maggiore concretizzazione:

La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […]. Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)

Lo storicismo assume qui un volto, non ancora del tutto definito, ma alcuni lineamenti iniziano a palesarsi. Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2023?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.

Tesi settima.  Traduzione da L’ospite ingrato.

Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Prima di commentarla tuttavia, è necessario una messa in guardia sull’uso del termine materialismo storico che appare in essa e in quella precedente, come antidoto allo storicismo e il cui compito – assai impegnativo – sarebbe quello di spazzolare la storia contropelo. Opportuno è leggere subito la prima tesi che si trova in nota, per comprendere che forse Benjamin non sta dicendo ciò che superficialmente appare2.

Stalin e Molotov

Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? Cosa significa? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita.3 Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Per farlo bisogna arrivare in fondo a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. E invece è proprio questo che il filosofo suggerisce di fare, in un modo che può apparire paradossale, ma che lo diventa di meno se leggiamo la dodicesima tesi, liberandola da alcuni aspetti datati.

   Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […]. Questa coscienza che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare del tutto il nome di un Blanqui […]. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future […]. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrifico. Entrambi, infatti, si alimentano dell’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.    

La Lega di Spartaco è la speranza precedente che Benjamin non rinnega ma che appartiene al passato, come peraltro la socialdemocrazia cui egli non ha mai riservato alcun credito. L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni, disseminate in modo non sempre consequenziale, ma che alla fine permettono una ricostruzione del suo pensiero. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa in prima istanza identificarsi con tutti i vincitori, facendo propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.4 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti cioè “le tesi”.5 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.

In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.6 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi potremmo dire il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi:

 […] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […].

Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout-court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo. 

Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica, le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci si ponessero al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Dietzgen: “è là gratuitamente”.   

L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. La conclusione ci dice però qualcosa di più e cioè che la natura non è gratis, un concetto con il quale ci troviamo decenni dopo a fare i conti in modo drammatico.7 Che dire però del paradossale elogio di Fourier? Prima di tutto che non si tratta di un paradosso, ma se mai di un uso del medesimo per arrivare a indicare altro. Ciò che importa ed è decisivo nella citazione di Fourier, aldilà delle bizzarrie che lo hanno reso famoso, è l’affermazione finale di Benjamin e cioè che le sue ipotesi, per quanto strampalate, esprimono una filosofia di fondo che è sana e cioè che rispetto alla natura il lavoro utile è quello che fa prevalentemente da levatrice a ciò che si trova già nel suo grembo. La sintesi che possiamo trarre da questo accostamento analogico è che la più strampalata ma sana fantasticheria è di gran lunga preferibile a qualsiasi progressismo impregnato di positivismo e di spregiudicatezza tattica senza etica alcuna. Alla luce di tutto ciò e proprio perché questa critica covava da tempo, si può ora commentare la prima Tesi, la sola che in tutte le versioni si trova sempre al primo posto.

Si dice che esistesse un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […] In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “Materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.

È per tutti i commentari la tesi più oscura ed enigmatica. Il racconto ce la rende più ostica, ma comincia a esserla meno se ci sintonizziamo sullo stile della sua scrittura. Benjamin usa l’apologo e persino la parabola e l’accostamento analogico, lo ha fatto in tutte le tesi; ma lascia sempre un vuoto nel mezzo, in questa tesi particolarmente vistoso. Non mi soffermerò in questo momento sul retroterra ebraico di questo tipo di scrittura. Fra la fine del racconto-aneddoto e la conclusione della tesi c’è uno iato, sebbene introdotto da una frase – Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia – dalla quale non possiamo tuttavia immaginare ciò che seguirà e che a una prima lettura è sorprendente. Cosa c’entra il manichino vestito da turco con il “materialismo storico”? Nominandolo espressamente Benjamin ci avverte che non sta usando una metafora – nella sua scrittura non vi è quasi mai posto per la metafora – bensì una complessa catena di similitudini. Come il nano gobbo seduto nel manichino costituisce il trucco meccanico per ingannare il pubblico, così la teologia, rimpicciolita rispetto ai secoli precedenti, si è insinuata nel materialismo storico, che Benjamin mette fra virgolette, facendone una macchinetta per avere sempre ragione, qualunque siano le scelte compiute, dal momento che sarebbe in linea con il solco deterministico della storia. Questa tesi, nei commentari, viene considerata come la sua radicale critica allo stalinismo e allo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Non vi è dubbio su questo, tuttavia cercherò di leggere le sue parole, oltre quel contesto perché la parte veramente interessante della tesi, è il nesso che egli stabilisce fra il trucco del manichino e la teologia che secondo Benjamin ha inquinato l’illuminazione materialista e profana di cui aveva scritto nel saggio sul Surrealismo del 1929.8 Anche in questa critica c’è da considerare un doppio aspetto: nell’immediato è una critica al Diamat staliniano come forma perniciosa di mistica materialista e spregiudicatezza senza alcuna etica, ma tale giudizio si estende come vedremo fino a comprendervi il falso progressismo nei suoi diversi aspetti.

La tesi nona, commentata e celeberrima quanto mai, suggella e chiude quella che considero la pars destruens del ragionamento di Benjamin e ci permette di andare oltre.   

Tesi nona.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove, davanti a noi, appare una catena di avvenimento, egli vede un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie  e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera.

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903


1 Le traduzioni italiane di cui mi sono servito sono: Angelus novus, tascabili Einaudi a cura di Renato Solmi e un saggio di Fabrizio Desideri: la mia edizione è quella del 1995. La seconda è Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N.3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013: questa edizione riporta anche le tesi finali che mancano nel testo einaudiano. Il testo in originale tedesco è quello dei Manuskript Hanna Arendt, che si trova anche in rete ed è corredato dalle fotocopie del manoscritto di Benjamin con le sue correzioni. Il titolo completo è: Walter Benjamin über den Begrieff der Geschichte. In questa stesura, mancano alcune tesi che verranno aggiunte più tardi e che si trovano invece nelle due traduzioni in italiano. Soltanto la prima tesi è numerata sempre così anche negli originali.

2 Questa dell’uso continuo dell’espressione materialismo storico nelle tesi è una contraddizione o almeno un’aporia non chiarita dal filosofo. Riservandomi di tornare successivamente su questo problema niente affatto minore, mi limito a porre in evidenza come l’espressione abbia almeno due significati diversi, ma si riferisca anche a due oggetti filosofici in diversi. Ecco di seguito la prima tesi nella traduzione da “L’ospite ingrato”: È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […]. In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere. Questa tesi verrà meglio commentata successivamente nel testo.

3 Naturalmente il mio giudizio, così estremo, non è un giudizio da storico. Tuttavia, proprio per rimanere in sintonia con Benjamin e per non sottoscrivere il romanissimo Carthago delenda est, ricordare le alternative che pure furono prese in considerazione, non significa fare la storia con i se, ma rifiutare appunto l’immedesimazione deterministica con il vincitore. Il determinismo assoluto non riguarda il futuro come non riguarda il passato che era pur sempre il futuro di una volta.

4 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, e l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.  

5 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.  Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa.  La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del ’36-’37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati, e specialmente in alcune note al testo, è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.  

6 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.

7 Citerò due passaggi da Dialettica della natura di Engels per la loro assonanza con le affermazioni di Benjamin e anche perché il concetto di lavoro in esse non ha nulla a che vedere con l’espressione lavoro salariato: […]  noi non la dominiamo (la natura ndr) […]  come chi è estraneo ad essa, ma le apparteniamo come carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura, consiste nella capacità, che si eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato […]. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini sentiranno, anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile sarà il concetto assurdo e innaturale, di una contrapposizione fra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il collasso del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare gli effetti naturali più remoti della nostra attività  rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda gli effetti sociali di quelle attività. […] Che cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? […]

L’interrogativo di Engels è retorico. La scrofola è simmetricamente il risultato di quel progresso nell’uso intensivo della coltivazione di patate che genera il regresso della società, come ha scritto Benjamin nel passaggio citato. Il secondo passaggio di Engels è tratto dal nono capitolo:

[…] Perché la mano non è solo l’organo del lavoro, è anche il prodotto del lavoro […] e con l’adattamento alle nuove operazioni, grazie all’eredità rappresentata dallo speciale sviluppo dei muscoli, dei legamenti e, sul lungo periodo, anche delle ossa. Grazie, inoltre, all’impiego ogni volta rinnovato di questi strumenti ereditati, ma soggetti a nuovi miglioramenti con operazioni sempre più complicate, la mano umana ha raggiunto quell’alto grado di perfezione che ha reso possibili la pittura di Raffaello, le statue di Thorwaldsen, la musica di Paganini.

8 La citazione occupa una parte importante nella strategia discorsiva di Benjamin, in tutte le sue opere, ma va pure chiarito in modo preliminare che il suo atteggiamento è lontano dal citazionismo postmoderno. Il filosofo anticipa molti temi tipici del postmodernismo, ma non cede alla lettera del medesimo. Le citazioni di Benjamin sono sempre degli exempla emblematici che permettono all’interlocutore di aderire o dissentire, ma prima di tutto di comprendere e non in astratto, quanto egli afferma, ma di collocarlo in una dimensione di concretezza e verificabilità. Siamo lontani anni luce dal procedimento post moderno la cui filosofia – non sempre espressa – è che la cultura sia solo citazione, cioè auto contemplazione narcisistica del passato e sfoggio di erudizione basato sul wit, parola che si può interpretare in molti diversi modi ma sempre gravitanti intorno alla brillantezza salottiera e discorsiva. Benjamin non ha mai compiuto questo passo, anche se sa vedere molto lontano: egli è un anticipatore del postmoderno, nel senso che ha visto prima di altri molte sue caratteristiche. La forza degli exempla di Benjamin sta nell’essere la concretizzazione di quella immagine che balena per un solo attimo nella storia e che deve essere afferrata e salvata, perché rompe il continuum dello storicismo. La citazione è dunque emblematica se evoca un balenìo del passato da riscattare nell’adesso: Resuscitare Cartagine per esempio, o cogliere nella vicenda storica dello schiavo Spartaco ciò che chiede oggi il proprio riscatto.

DI CHI È L’ERA?

Ezra Pound

A conclusione del lavoro critico su alcuni poeti e poete dell’universo letterario anglo statunitense, in quest’ultima parte viene affrontata una questione che è stata e continua a essere dibattuta da parte dei critici dei paesi di lingua inglse, ma che è  decisiva che chiunque si occupi della loro poesia.

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Nel numero speciale 26 del Wallace Stevens Journal del 2002, viene posta la seguente domanda: Pound/Stevens:Whose era? La domanda è anche il titolo del saggio introduttivo di Marjorie Perloff. Nel numero monografico della rivista ci si domanda, dunque, se il giudizio critico sulla poesia statunitense del ’900 possa essere sintetizzata come l’era di Stevens oppure quella di Pound.1 A proporre per primo il quesito fu Harold Bloom nel libro The poems of our climate, pubblicato a Londra nel 1977 in polemica con un altro libro di Hugh Kenner e intitolato The Pound Era. Nadia Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Note verso la finzione suprema cita anche Frank Kermode, che sembra tenere una posizione intermedia nel senso che elogia molto le Note ma non si pronuncia sull’insieme dell’opera stevensiana; infine, il giudizio sintetico espresso da Northorp Fry, un altro decano della critica nordamericana, secondo il quale Stevens è: uno dei nostri poeti essenziali.2

In primo luogo e proprio leggendo il numero monografico, appare subito come la domanda sia un po’ troppo stretta anche per chi l’ha posta, dal momento che il nome di Eliot compare assai presto ed era inevitabile che ciò accadesse. Forse nell’interrogativo e sotto traccia (che emerge tuttavia qui e là anche in altri saggi), c’è anche il dover fare i conti con il senso di colpa nei confronti di Pound, per l’ostracismo che dovette subire e anche qualcosa di peggio: in certe università statunitensi il nome di Pound fu un tabù impronunciabile per lungo tempo.

Peraltro, se il punto di vista fosse quello europeo e si prendesse la Waste Land come emblema della crisi di un secolo o addirittura adottando il titolo di un libro assai famoso in quegli anni – Il tramonto dell’Occidente di Spengler –3 non vi è dubbio che per un europeo,  il ‘900 potrebbe essere definito come il secolo di Eliot.  

Tradizione e modernismo in Pound, Eliot, Stevens e Moore

Per Pound, le tradizioni sono una fonte continua di scoperta e ispirazione, per Eliot la tradizione era una scelta da compiere. Entrambi si rivolsero all’Europa ma le differenze sono notevoli. Pound sembra più che altro fuggire dagli Usa, trovando nel vecchio continente e in alcune sue regioni bellissime e periferiche – il Trentino e Rapallo –  l’alveo geografico protetto da cui poter spaziare verso ogni tradizione possibile. Il suo percorso mi ricorda, per analogia, la bottega del rigattiere. Pound ha seguito in modo estremo la prima parte della sentenza pronunciata da Borges  – un convitato di pietra sempre presente in questo studio –4 e cioè che per un argentino, come per uno statunitense, ovvero per due artisti appartenenti a nazioni giovani e senza tradizione, quest’ultima può essere trovata ovunque. Borges ha selezionato, reinventato, oppure inventato per selezionare, mentre Pound è stato un amorevole raccoglitore di tutto quanto incontrava nel suo peregrinare letterario. Il suo, tuttavia, non fu mai un atteggiamento di appropriazione, ma di salvaguardia, di custodia, di scoperta e anche di generosità nel mettere a disposizione di altri quanto andava raccogliendo un po’ dappertutto e, in fondo, senza una vera direzione. Del resto, lo sappiamo che nella bottega del rigattiere il kitsch e l’oggetto prezioso vivono l’uno accanto all’altro. La poesia di Pound è fatta di bagliori improvvisi, di intuizioni, di aforismi fulminanti all’interno di partiture complesse che s’avvicinano alla poesia visiva, come accade per certe incursioni – incomprensibili ai più – ma visivamente suggestive, dei caratteri cinesi e giapponesi nei suoi Cantos. Pasolini, durante un’intervista che gli fece e durante la quale Pound parlò peraltro assai poco, esprimendosi per brevissimi accenni distanti e lontani da tutto, sottolineava il dettato arcaico e barbarico della sua poesia, sia per la potenza che ne emanava, sia per una sorta di innocenza originaria, non mediata.5

Sarebbe perciò errato intendere come citazionismo il viaggio di Pound dentro i simboli e i tropi della poesia mondiale. L’amore per tutto quello che lo incuriosiva è un dato che va oltre la necessità di citare e Pound è stato anche per questo il miglior fabbro, espressione quanto mai felice, perché tutti sono passati in un modo o nell’altro dalla sua bottega di rigattiere e tutti se ne sono usciti con qualcosa. Si può dire che egli abbia nutrito, con la sua generosità, la poesia anglo americana di un secolo e basterebbe ricordare gli interventi fondamentali che suggerì a Eliot dopo avere letto la prima versione di Waste land. Si può obiettare a questa ricostruzione che anche in Pound si può rintracciare una tradizione prevalente, visto il richiamo a Dante – il primo miglior fabbro –  ma, ciò è vero con alcune precisazioni. Nel celebre Canto XLV, dell’Usura, egli si rifà a un cristianesimo talmente arcaico, da sfuggire a qualsiasi nuova codificazione.6

With Usura

With usura hath no man a house of good stone/each block cut smooth and well fitting/that design might cover their face,/

with usura/hath no man a painted paradise on his church wall/harpes et luz/or where virgin receiveth message/and halo projects from incision,/ with usura /seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines/no picture is made to endure not to live with/but it is made to sell and sell quickly/with usura, sin against nature,/is thy bread ever more of stale rags/is thy bread dry as paper/ with no mountain wheat, /no strong flour/ with usura the line grows thick/wit usura is no clear demarcation/and no man can find site for his dwelling./Stone cutter is kept form his stone/weaver is kept from his loom/

WITH USURA/

wool comes not to market/sheep bringeth no gain with usura/Usura is a murrain, /usura/blunteth the needle in the maid’s hand/and stoppeth the spinner’s cunning. Pietro Lombardo/came not by usura, Duccio came not by usura/nor Pier della Francesca; Zuan Bellin’ not by usura/nor was ‘La Calunnia’ painted./Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis,/Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit./Not by usura St. Trophime/Not by usura Saint Hilaire,/Usura rusteth the chisel/It rusteth the craft and the craftsman/It gnaweth the thread in the loom/None learneth to weave gold in her pattern;/Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroidered/Emerald findeth no Memling/Usura slayeth the child in the womb/It stayeth the young man’s courting/It hath brought palsey to bed, lyeth/between the young bride and her bridegroom/

                               CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis/Corpses are set to banquet/at behest of usura.

Con l’Usura

Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra/ciascun blocco finemente squadrato e adatto/a dipingerne la facciata,/con l’usura/nessuno avrà un paradiso affrescato sul portale di una chiesa/né harpes  et luz/o luogo dove la vergine ricevi il messaggio/e sia incisa l’aureola/con l’usura non ci sono Gonzaga, eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e vivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/con l’usura, peccato contro natura,/il pane è avanzo irrancidito/secco come carta/niente segala, /niente farina buona/con l’usura il segno diviene greve/con l’usura non vi è confine certo/e nessuno può trovare la dimora in cui vivere/il tagliatore di pietra è allontanato dalla pietra/il tessitore dal suo telaio/

CON L’USURA/la lana non arriva al mercato/le pecore allevate non portano guadagno/l’usura pestilenza/Con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta il telaio. Pietro Lombardo/non venne dall’usura, e Duccio non venne dall’usura/e neppure Pier della Francesca; Zuan Bellin non venne dall’usura/né fu dipinta La Calunnia./Non venne dall’usura Angelico; né Ambrogio Praedis/nessuna chiesa di pietra col marchio: Adamo me fecit./Né venne St. Trophime dall’usura/neppure st.HIlaire,/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo del telaio/nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello;/l’Azzurro ha un cancro con l’usura; il cremisi …./lo Smeraldo non trova il suo Memling/L’usura uccide il bambino nel grembo/trattiene il giovane nel corteggiamento/porta la paralisi nel letto, si sdraia/fra il giovane sposo e la sposa/

                                     CONTRA NATURAM

/Hanno portato le puttane  da Eleusi/cadaveri preparati per banchetto/agli ordini dell’usura.

Ciò che colpisce anche visivamente nel testo è la ripetizione ossessiva del termine usura, poi la ricchezza delle immagini. La parte più interessante sono il lessico e la grafia usate perché la lingua di questo testo non è l’inglese moderno, ma  quello arcaico – rusteth, findeth, per esempio – che si può far risalire a un’epoca in cui il Cristianesimo secondo Pound conservava una propria purezza originaria, non ancora inquinata dalla modernità, che per il poeta inizia proprio con i prestito di denaro a interesse. L’iconografia presente nel testo è più complessa perché spazia fino a Piero della Francesca e cioè in pieno Umanesimo, mentre sembra tenersi a una certa distanza dalle immagini che ricordano il pieno Rinascimento. Pound sogna un Cristianesimo che a rigore di logica dovrebbe essere precedente l’invenzione stessa del Purgatorio, dovuta alla necessità di salvare dalla dannazione assoluta un’intera categoria di professioni che si andavano imponendo: barattieri, banchieri, ecc. Il sogno rimane quello che è ma la potenza dei sui versi che rimane come monito nel tempo della necrofilia capitalistica che ci sovrasta.

Moore. Nei saggi dedicati all’opera d’arte, Karl Gustav Jung afferma fra l’altro che il grande artista è colui che fa sentire alla propria epoca ciò che più manca ad essa.8 È una definizione che calza a pennello per Moore e molto anche per Stevens. La prima natura riscoperta nel cuore di una civiltà che pensava di averla del tutto domata, è proprio la denuncia di un’illusione ottica assai pericolosa. Bisogna considerare, poi, che Marianne Moore morì nel 1972, ma che scrisse il corpus maggiore delle sue poesie in anni che vanno dal 1935 alla metà degli anni ’50, in un momento storico in cui – nonostante le distruzioni di due guerre mondiali – l’attenzione sui disastri ambientali non era ancora all’ordine del giorno. La sua natura e i suoi animali, però, sono tali perché colti nel loro habitat e con le loro caratteristiche di specie. Cani e gatti, uccelli in gabbia e altre specie troppo addomesticate non sono presenti nella sua poesia. Il suo modo di sentire il mondo animale e naturale è altrettanto lontano da certe pieghe ecologiste contemporanee, che cominciarono a imporsi successivamente alla sua morte. Pensando all’oggi, credo che sarebbe addirittura inorridita nell’osservare il processo sempre più irragionevole che attribuisce agli animali tratti antropomorfi che rasentano il grottesco e che sembrano voler trasportare le invenzioni di Walt Disney dal cartone animato alla realtà. Moore invita il lettore all’ammirazione e alla contemplazione del mondo animale, ma la natura per lei non è un giardino fiorito, ma piuttosto un’arena dove il conflitto e il confronto sono all’ordine del giorno; ma non la guerra, che appartiene solo agli umani. La sua profonda ammirazione del mondo animale può certo educare a un’etica del rispetto, ma prima di tutto a quella tipologia di rispetto che assegna a ciascuna specie il diritto di vivere secondo le proprie prerogative di speciazione.

La natura peraltro, è assai presente anche nella poesia di Stevens e in definitiva è proprio tale presenza in entrambi è fra le tematiche  che pongono fra i due ed Eliot una distanza irriducibile. Quanto al suo rapporto con la tradizione, Moore è forse la più eclettica, ma in un senso profondamente diverso dell’eclettismo di Pound. I suoi interessi per la divulgazione scientifica, per esempio, sono pari agli interessi letterari e questo le permette di usare un linguaggio poetico che ha un vasto retroterra nella scienza: l’esattezza di certe immagini viene da questo e Moore è fra i pochi poeti e poete del secolo scorso cimentarsi con linguaggi estranei alla letteratura in senso stretto.      

Eliot infine è il continuatore della tradizione che da Baudelaire passa per Laforgue, ma vi rimane intrappolato perché quella tradizione ha molti decenni alle sue spalle e non è già più la novità densa di futuro che era a metà del secolo precedente e lo stesso vale per l’ipocrita lettore, che Eliot riprende alla lettera come citazione. La dimensione urbana era stata esplorata in tutte le sue pieghe ed Eliot è l’ultimo a farlo e con lui essa diventa una totalità, dalla quale cerca di sottrarsi nei Quartetti dove, specialmente nell’ultimo e cioè in Little Gidding , è la provincia campestre e virtuosa a tornare al centro. Tuttavia, gli squarci di natura esistenti in Eliot si traducono quasi immediatamente in simboli religiosi: la rosa, il roveto ardente, o l’estate di San Martino. Oppure, ripensando ai versi iniziali di Waste land – Aprile è il mese più crudele – la natura è usata per farne immediatamente una metafora che sta per altro.

Quanto ai rapporti fra Eliot e Stevens, essi sono difficili da mettere a fuoco, prima di tutto per la voluta distanza che il secondo ha sempre posto fra sé e il mondo letterario del suo tempo. Eliot, in un’intervista riportata nell’edizione italiana dei Quartetti, a cura di Angelo Tonelli, l’intervistatore d’eccezione, il poeta polacco Milosz, lo sollecita a parlare di lui, ma egli finge di non accorgersene e passa oltre.9 Se si guardano i due percorsi, non vi è dubbio che la loro distanza sia assai grande e il fatto che qui e là si possano scorgere tematiche analoghe, appartiene di più al sentire comune di un’epoca che ad altro. Alcuni punti di partenza possono sembrare comuni – mi riferisco in particolare a Sunday Morning  se messo a confronto con alcune parti della Waste Land – A game of chess per esempio – ma sono somiglianze destinate a venir meno nel prosieguo dei loro percorsi. Stevens, al culmine della crisi di una civiltà, che anche lui sente ma con la quale non collude, si affida alla poesia e a dove essa lo porta, non a opzioni che le sono estranee. Gli esiti più alti del suo percorso si trovano alla fine della sua vita, sono cioè i frutti maturi di un’esistenza poetica che non è scesa a patti con il peso del mondo, ma è rimasta fedele a un’inspirazione originaria, che risponde solo a se stessa. Stevens, l’assicuratore anonimo, l’uomo della provincia americana, è forse l’unico poeta del ‘900, in Occidente, ad avere scommesso su una nuova sacralità della parola poetica, ma una sacralità tutta terrestre. Diverso il suo atteggiamento anche per quanto riguarda il rapporto fra poesia e interpretazione, poesia e critica. Anche Stevens si è cimentato con entrambe le discipline, ma se Eliot ha voluto sempre indicare ai critici cosa voleva dicessero di lui, Stevens fa esattamente il contrario e cioè li depista in continuazione. Memorabile, a mio avviso, è il modo in cui tiene tutti sulla corda, lasciando i critici discutere su un finto enigma: quella della famosa quarta sezione del poema Note verso la finzione suprema.

Harold Bloom


1 Il numero in questione è un’edizione speciale e monografica. I saggi esplorano diversi aspetti della questione e si aprono a valutazioni extra letterarie, come avviene per esempio nel saggio di Alan Filreis sull’atteggiamento di Stevens e Pound nei confronti della Guerra Fredda.

2 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 9. La citazione viene ripresa anche alla pag. 49 nelle note al testo.

3 Il libro fu pubblicato nell’estate del 1918 e suscitò un’enorme impressione, dato anche il momento particolare della storia europea,  alla fine di una guerra disastrosa e di una pace che lo sarebbe stata ancora di più. 

4 In n questo stesso blog si trova un saggio su Borges dedicato però a uno solo dei suoi racconto:  Deutsche requiem.

5 Il link dell’intervista di Pasolini è facilmente reperibile su Youtube

6 Il canto dell’usura fu pubblicato nei Pisan Cantos.

8 Karl Gustav Jung, Scritti sulla letteratura e l’arte. Il testo è facilmente reperibile anche in rete.

9 T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000, introduzione e intervista.

QUALCOSA SI MUOVE IN ISRAELE E A WASHINGTON

Introduzione

Le due lettere del maggiore israeliano – quella di luglio e quella più recente inviata al New York Times:  

Ora è il tempo della guerra, ma i palestinesi non sono il nemico

stanno facendo il giro del mondo. Nessuna illusione che le sue parole possano influire sull’oggi ma l’esempio di Nir Avishai Cohen come quello delle decine di migliaia di disertori ucraini e russi, fanno comunque ben sperare per il futuro. Le considerazioni dell’ufficiale israeliano della riserva, che ha scritto anche un libro dal titolo Love Israel, support Palestine, si prestano però a una riflessione più ampia, anche perché fra la presa diposizione di luglio e l’ultima lettera ci sono differenze e un’ambiguità di fondo che non viene sciolta ma che dimostra comunque un fatto incontrovertibile: il fronte interno di Israele può incrinarsi molto più di quanto appaia in superficie. Riporto per intero la dichiarazione del luglio scorso come è comparsa in rete, poi alcuni stralci della lettera al quotidiano newyorchese.

Mi rifiuto. Io, Nir Avishai Cohen, maggiore in Mill, numero personale 701874, ufficiale AGM della Brigata di fanteria, annuncio a malincuore il rifiuto. Mi rifiuto di continuare a servire nell’IDF, un esercito di un paese non democratico.

È importante per me sottolineare, non sono un volontario, servo in una riserva rispettosa della legge. Sono consapevole delle conseguenze che la mia dichiarazione può avere e sono pronto ad accettare con tutto il cuore, anche sedervi in galera. Un ordine di coscienza mi proibisce di far parte dell’esercito.

Più di chiunque altro oggi penso a mia nonna, Leah RIP, quella sopravvissuta ad Auschwitz ma tutta la sua famiglia è stata uccisa lì.

In questo giorno in cui annuncio il mio rifiuto di servire nell’esercito di un paese non democratico, penso a lei. La sua storia privata, che fa parte della storia nazionale del popolo ebraico, ci ha insegnato l’obbligo di rifiutare.

Non c’è una sola persona nel paese d’Israele che non sarebbe disposta a tornare nella macchina del tempo in Germania del 1933, un attimo dopo che aveva cessato di essere democratica, e urlare nelle mie orecchie tutti i soldati, che non gli è permesso servire l’esercito di un paese non democratico. Questo è un dovere rifiutare. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo se nel 1933 decine di migliaia di ufficiali e soldati si fossero rifiutati di continuare a servire nell’esercito tedesco.

Così, molto prima che qualcuno pensasse che gli orrori di Auschwitz potessero accadere, i soldati hanno dovuto rifiutare.

Ho prestato servizio nell’IDF per 24 anni. Regolarmente come ufficiale di combattimento nella Golani, e successivamente in servizio di riserva come comandante di compagnia, Stato Maggiore Generale e ora come ufficiale di Divisione AGM. Ho rischiato la vita, ho perso i miei buoni amici. Vengo sempre quando mi chiamavano, per tutta la fede di non avere altro paese, che è mio dovere.

Sono stato chiamato ogni anno per decine di giorni di riserva, solo nell’ultimo anno ho scontato 41 giorni del genere. Giorni in cui ho lasciato la mia casa e tutte le mie occupazioni e ho dato il mio contributo alla difesa del paese.

Non è un segreto che da qualche anno ho avuto una critica acuta alle gesta di FDI nei territori occupati, ci ho anche scritto un libro. Ma nonostante questo ho deciso di continuare a servire. Vero, non nei territori occupati ma in difesa del confine meridionale e legittimo d’Israele. Anche se con molta contemplazione alla luce di quanto sta accadendo nei territori, ho continuato a servire. Di tutte le innumerevoli volte che ho indossato una divisa mi sono ricordato di nonna Lea. Mi sono sempre ricordato che è tornata e ha detto che la nostra famiglia deve contribuire alla sicurezza di questo paese, che l’Olocausto non sarebbe avvenuto in quale paese e i suoi militari sarebbero esistiti. Ho deciso che da una parte continuerò a servire nelle riserve e dall’altra farò del mio meglio come cittadino per influenzare e cambiare le politiche governative. Finché il paese è democratico ci ho trovato senso, anche se sono stato criticato per la mia decisione da entrambe le direzioni, destra e sinistra.

Un dato di fatto è che un regime antidemocratico usa l’esercito, la polizia e le altre forze di sicurezza, per i bisogni personali e i desideri dei governanti, non per i veri bisogni della difesa del paese. È giunto il momento di guardare onestamente alla realtà, Israele non è riuscito ad essere un paese democratico, anche quello all’interno delle aree della linea verde. Le leggi vigenti sono solo l’inizio, molte leggi orribili, antidemocratiche, in procinto di essere promulgate. Molti gruppi di popolazione stanno affrontando un vero pericolo. Arabi, donne, persone LGBT saranno le prime a essere ferite all’interno della linea verde. Nei territori occupati aumenteranno le sofferenze della popolazione palestinese e continuerà a versare sangue palestinese in quantità.

La storia dimostra che un regime antidemocratico può richiedere all’esercito di commettere atrocità, certamente un regime dove i governanti sono Smotrich, Ben Gvir e la loro banda razzista e messia. Non molto tempo fa Bezalel Smutrich, che è anche ministro del Ministero della Difesa, chiamato “Erase Havara”, chiamata che potrebbe sicuramente diventare un ordine. Pertanto l’obbligo di rifiutare oggi può prevenire gli orrori del domani.

La storia insegna che quando gli orrori che l’esercito richiederà di fare saranno accompagnati da propaganda velenosa, sarà troppo tardi, i soldati “semplicemente adempiranno agli ordini”. Quindi non c’è scelta, ora è il momento.

In questo momento difficile penso a mia nonna. Penso quale sarebbe il destino della sua famiglia, se nel 1933 una massa critica di ufficiali e soldati si rifiutasse di servire.

Oggi faccio la mia modesta donazione, tutto sommato una maggiore semplice e poco importante. Una donazione sotto forma di rifiuto pubblico di servire nell’IDF.

Guardo il cielo ora e dico a mia nonna orgogliosa, piena di lacrime di tristezza, che non sono pronta ad essere una di quelle che “seguono solo gli ordini”, che ho imparato questa lezione anche dalla sua storia privata, che è la storia di tutti noi. Da oggi non faccio più parte dell’esercito del paese d’Israele, un paese non democratico.

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Poiché la sua lettera al New York Times è facilmente reperibile in rete ed è riportata in molti siti facilmente consultabili, non continuerò a ripetere le fonti delle citazioni che riporto.

Prigionieri di minoranze religiose

La prima considerazione importante mi sembra questa:

Milioni di palestinesi che vivono qui con noi tra il mare e la Giordania non sono nostri nemici. Proprio come la maggior parte degli israeliani, anche la maggior parte dei palestinesi vuole semplicemente vivere la propria vita in pace e dignità. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono prigionieri da decenni di una minoranza religiosa violenta  

La conclusione del ragionamento è che “La guerra si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Poi prosegue così:

Come tutte le innumerevoli volte in cui ho prestato servizio nella riserva, anche questa volta, finché sarò in divisa, non scriverò qui le mie opinioni personali – continua – Ma prima di tacere vorrei scrivere qui alcuni miei pensieri”. E li elenca: “Non c’è nulla al mondo che possa giustificare il massacro di centinaia di persone innocenti”. E poi ; “Adesso è tempo di guerra, la prima cosa in questo momento è proteggere la casa, il Paese. Non confondiamoci, questa non è una “guerra senza scelta”, si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Ora non c’è altra scelta che imbracciare le armi e difendere i cittadini di Israele. Difenderò il mio paese dai nostri nemici. I nostri nemici sono organizzazioni terroristiche assassine controllate da estremisti islamici. Al massacro di israeliani innocenti non deve corrispondere il massacro di palestinesi innocenti. È importante ricordare che il popolo palestinese non è nostro nemico”. Questa guerra prima o poi finirà. Alla fine entrambe le nazioni dovranno fare i conti con i leader.

Sulla ricostruzione storica del confitto ci sarebbe molto da dire, ma è tuttavia a importante  questa presa di posizione anche per quello che dice alla fine e cioè che sono i leader di entrambi gli schieramenti a tenere prigionieri i due popoli.

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Qui di seguito riporto dal sito Terra Madre l’iniziativa delle donne israeliane ed arabe che il giorno 6 ottobre, prima dell’inizio del conflitto, hanno manifestato insieme. Il documento invece è di ieri.

IL GIARDINO DI LIMONI

Il grido delle madri: «Fermatevi e trattiamo per gli ostaggi»

Terra Madre

Manuela Borraccino

18 ottobre 2023

Le attiviste ebree e arabe di Women Wage Peace: «Chiediamo al governo israeliano di iniziare trattative immediate per il rilascio degli ostaggi e di includere le donne nei negoziati con i palestinesi. Non è possibile che ci siano solo uomini a guidare il Paese fuori da questa crisi».


«Scioccate, ferite, in ansia, eppure continuiamo a chiedere un accordo di pace». Comincia così la dichiarazione del movimento di Women Wage Pace (che raduna 44mila attiviste israeliane, ebree ed arabe) redatta nei giorni scorsi, dopo il massacro di 1.300 israeliani da parte di Hamas nei kibbutz di frontiera con la Striscia di Gaza, avvenuto solo tre giorni dopo l’ultima marcia pacifista a Gerusalemme e sul Mar Morto. Una strage, quella del 7 ottobre, durante la quale sono state catturate, tra i 199 ostaggi, anche una delle fondatrici del movimento, la 74enne Vivian Silver, che da decenni è membro attivo di organizzazioni femministe miste israelo-palestinesi (nel kibbutz Be’eri) e Ditza Heiman, madre dell’attivista Neta Heisman (nel kibbutz Nir Oz).

Nel dolore per la mattanza perpetrata da Hamas e per le migliaia di vittime altrettanto innocenti provocate dalla rappresaglia israeliana nella Striscia di Gaza, «come madri ebree ed arabe con diverse opinioni e posizioni, piombate dentro questo film spaventoso e folle», si legge nel comunicato, «chiediamo al governo israeliano di iniziare immediatamente delle trattative per il rilascio degli ostaggi. Facciamo appello alla Croce Rossa e alla comunità internazionale di garantire la loro sicurezza e agire per la liberazione immediata. Chiediamo che Israele impedisca che prenda fuoco anche la Cisgiordania e non permetta agli estremisti di entrambe le fazioni di istigare la regione, come già avvenuto la scorsa settimana». «Questa guerra dimostra oggi più che mai che il concetto di gestire il conflitto è fallito. L’idea di posticipare all’infinito la risoluzione del conflitto si è dimostrata fondamentalmente sbagliata».

Le attiviste fanno riferimento anche alla Risoluzione Onu 1325 del 2000 Donne, pace e sicurezza sull’obbligo (finora disatteso nella maggior parte dei conflitti mondiali) di inserire negoziatrici donne nelle trattive di riconciliazione e in generale tra i decisori. «Siamo nel 2023 eppure non ci sono quasi donne nei circuiti dove si prendono le decisioni in Israele. Questa è una situazione intollerabile che deve cambiare. Chiediamo che il team negoziale per la liberazione degli ostaggi includa delle donne. Non è possibile che ci siano soltanto uomini a guidare il Paese durante questa crisi».

La dichiarazione passa in rassegna l’angoscia, lo sgomento, la preoccupazione, il senso di impotenza che le madri di entrambi i popoli stanno provando da 11 giorni di fronte al nuovo conflitto. «Dobbiamo unirci a tutte le donne del mondo per fermare questa follia. Le nostre parole possono suonare ingenue e irrealistiche, ma questa è la verità: ogni madre, ebrea e araba, mette al mondo i propri figli per vederli crescere e fiorire, non per seppellirli». Per questo le attiviste chiedono al governo israeliano «di considerare i propri passi e le proprie azioni in modo responsabile e morale e prevenire morti inutili di civili e di soldati e, allo stesso tempo, laddove possibile, di impedire danni agli innocenti a Gaza».

Chiedono altresì risposte a queste domande: «Un’invasione di terra, la distruzione di Gaza, costringere un milione di palestinesi a lasciare le proprie case… tutto questo porterà forse a un futuro di sicurezza? E che cosa accadrà il giorno dopo? Non è forse essenziale dare la priorità alla liberazione degli ostaggi? I nostri leader cosa rispondono?». Dopo tutti gli sforzi fatti per stimolare l’adesione al movimento anche di cittadine arabe israeliane, le firmatarie della dichiarazione chiosano: «Dobbiamo rafforzare la solidarietà e unità fra il pubblico ebraico e arabo in Israele e continuare ad agire contro il razzismo e l’odio. Il pubblico arabo, che ha convissuto per anni con il dissidio interno di essere cittadini di Israele e parte del popolo palestinese, ha marciato insieme a noi in questi difficili tempi di crisi per la salvezza dell’intera società in Israele».


Infine la diretta mandata in onda dal Corriere del Ticino sulla manifestazione che negli Usa. In Italia questa notizia è stata data dalla Sette, e da Radio popolare. Di seguito tutti i link per chi volesse approfondire le questioni

10 ore fa — Migliaia di manifestanti di associazioni ebraiche hanno marciato mercoledì a Washington per chiedere il cessate il fuoco immediato fra Israele e …

https://tg.la7.it/esteri/washington-la-manifestazione-gli-ebrei-pacifisti-pro-palestina-500-arresti-19-10-2023-196476

11 ore fa — Decine di ebrei americani manifestano al Congresso per chiedere il cessate a fuoco a Gaza. Le immagini mostrate da media americani mostrano …

https://www.cdt.ch/news/mondo/manifestanti-al-congresso-usa-chiedono-il-cessate-il-fuoco-330757

ELIOT E L’ITALIA: OVVERO PRAZ, ELIOT, MONTALE

Questa parte del saggio fu pubblicata sull’annuario di Poesia Crocetti del 2002.

Eliot si è imposto lentamente in Italia. Non vi è alcuna sua influenza sull’avanguardia dei primi decenni del secolo, giudicata con sufficienza dai poeti più autorevoli del mondo anglo statunitense. Pound definiva il futurismo italiano un:

impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione. 22

Quanto a Eliot, egli fu affascinato dalle affermazioni pirotecniche contenute nel Manifesto Futurista pubblicato da Le figaro nel 1909, ma non le prese mai alla lettera, anche se le userà con ironia e disincanto. La sua reazione anti romantica è più rivolta al tardo romanticismo inglese di poeti come Swimburne e Pater e ostile al sentimentalismo e all’autobiografismo nel linguaggio poetico; ma niente affatto demolitore della tradizione. Inoltre Eliot parte da Laforgue e dietro quest’ultimo ci sta Baudelaire; ma la sua visione della poesia attinge a un vasto patrimonio che si rifà all’antropologia e alle scienze e non soltanto alla tradizione letteraria. Infine il richiamo a Dante è quanto di più lontano si possa immaginare dai futuristi italiani.

Il nome del poeta comincia a circolare dopo il 1920, ma la fonte non è diretta: sono alcune riviste francesi a veicolarlo in Italia. La testimonianza di Montale è preziosa al riguardo. In un articolo del 1947 per la rivista L’immagine dal titolo Eliot e noi il poeta afferma:

Prima di allora [è il 1928 come dirà più avanti nello stesso articolo] non avevo letto di Eliot che una o due delle sue liriche giovanili, del periodo che fu chiamato laforguiano: Portrait of a lady e Prufrock.23

La rivista La Ronda lo ignora. È un nuovo periodico milanese nato nel 1925 (La Fiera letteraria) a occuparsi di lui. Si tratta di un foglio più eclettico e curioso, ma anche per i suoi redattori Eliot rimane un poeta difficile da digerire: Linati lo definisce:

poeta oscuro e critico perfetto.24

La svolta va ascritta all’opera di Mario Praz, il primo che dimostra di possedere gli strumenti culturali per cogliere l’importanza della poesia del poeta di Saint Luis. È il sostrato della poesia eliotiana ad affascinare lo studioso, uomo dai vasti orizzonti. È lui a tradurre Eliot per gli italiani; ma fa anche di più perché, da critico acuto qual è e da stratega delle lettere italiane di quegli anni in rapporto alla cultura europea, Praz diventerà il fabbro di una costruzione che avrà vita lunga e occuperà la scena nazionale, attraversando il primo novecento per approdare al secondo, quando Eliot s’imporrà definitivamente nel nostro paese.

È Mario Praz a proporre al poeta anglo statunitense la pubblicazione in Inghilterra di Arsenio. La poesia uscirà sulla rivista Criterion nel 1928. Il traduttore è lo stesso Praz e non si può non notare la stranezza, perché la prassi più consueta vuole che chi traduce un testo poetico sia un parlante la lingua di ricezione. Se fosse solo una stravaganza la cosa potrebbe non avere alcuna importanza; se non che, la versione inglese sembra fatta per forzare il testo montaliano fino a renderlo il più possibile affine, per atmosfera e stilemi, a una poesia di Eliot. Sebbene non sia il solo ad avere notato la cosa, cercherò di portare qualche prova per suffragare affermato, esaminando alcuni passaggi del testo e della traduzione a cominciare dall’inizio. 25

/I turbini sollevano la polvere/sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi/deserti, ove i cavalli incappucciati/annusano la terra, fermi innanzi/ai vetri luccicanti degli alberghi./Sul corso, in faccia al mare, tu discendi/in questo giorno/or piovorno ora acceso, in cui par scatti/a sconvolgerne l’ore/uguali, strette in trama, un ritornello/di castagnette./

Praz traduce in questo modo:

/Dust, dust is blown about the roof, in eddies/It eddies on the roofs and on the places/Deserted, where are seen the hooded horses/Sniffing the ground, motionless/In front of the glistening lattices of the hotels./Along the promenade, facing the sea you slide,/Upon this afternoon of sun and rain,/Whose even close knit hours/Are shattered, so it seems, now and again/by a snappy refrain/of castanets./

Le peculiarità saltano subito all’occhio. L’attacco dà un’impronta molto decisa al testo grazie alle parole dust, eddies e roof, la cui iterazione è invece inesistente in Montale. È vero che il mulinello implica la polvere e anche il vorticare degli oggetti, ma la scelta operata da Praz di ripetere la stessa parola conferisce alla poesia quella particolare solennità che è tipica di molti attacchi eliotiani.

In The love song of J. Alfred Prufrock, ecco un esempio:

… /The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,/The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes,/

(La nebbia gialla che si gratta la schiena alle finestre,/il fumo giallo che si gratta il muso ai vetri delle finestre,/…) 26

Le citazioni potrebbero continuare a lungo perché l’iterazione è una caratteristica costante dello stile eliotiano.

Il procedimento di Montale va in senso addirittura opposto. Giocando sulla differenziazione dei significanti il poeta italiano sfrutta tutte le possibilità musicali della nostra lingua: mulinelli è parola che gli serve per un’allitterazione con cavalli nel verso successivo e non semplicemente per caricare di ulteriore senso l’uso precedente di turbini. Il testo di Montale è evocativo, mentre la traduzione di Praz è orientata nel senso della precisione e dell’esattezza. A parte l’arbitrarietà di ripetere ben tre vocaboli, anche l’uso del singolare roof, la prima volta, va nel senso della precisione; Montale usa il plurale tetti perché il suo paesaggio, per usare una metafora cinematografica, è visto in piano medio, non in primo piano come avviene in Eliot. Per il poeta anglo statunitense l’immagine o l’oggetto sono individuati e messi a fuoco. Ancora due versi di questa prima strofa:

/in questo giorno/ or piovorno ora acceso …/.

Praz traduce con:

 /Upon this afternoon of sun and rain/.27

A parte la bizzarria di questo giorno che diventa del tutto arbitrariamente un pomeriggio, la versione inglese elimina gli elementi aulici (piovorno), che Montale, un po’ artificiosamente, si porta appresso per poter costruire la rima con giorno, spezzando però il verso, così da renderne più martellante e ritmica la dizione. Anche ammettendo che un equivalente inglese di piovorno si possa trovare solo in un dizionario storico, Praz prende un po’ troppo la palla al balzo, eliminando anche la melodia dei versi. L’or ora montaliano, infatti, serve a dare un ritmo plastico all’alternanza dei diversi tempi atmosferici; insomma, mentre Montale gioca su ritmo, melodia e contrappunto, seguendo il suo istinto musicale che deriva anche dai suoi studi da baritono e dunque nutrito dal gusto melodrammatico così tipicamente italiano. Praz, invece, prosciuga il testo dai suoi tratti retro, rendendolo così più moderno. Nel prosieguo il traduttore ricorre più volte ancora alle iterazioni indebite, come quando usa per due volte le parole waves e moments nella seconda strofa. In questa parte tuttavia, un altro particolare balza all’occhio ed è la traduzione di nembo, che Praz traduce con wirlwind. La parola inglese indica il mulinello, il vortice, uno stato di turbolenza. È vero che tutta la poesia è percorsa dal movimento turbinoso degli elementi naturali che fanno da contrappunto all’immobilità di Arsenio, ma la parola ha pur sempre, in poesia, il suo primato e in questo caso Montale usa nembo.

Il poeta italiano ricorre spesso a parole auliche: abbiamo visto piovorno, ora nembo, figge nell’ultima parte. Anche il ricorso a parole tronche (fremer invece di fremere), si richiama a una tradizione classica, che fa da contrappunto all’introduzione di parole moderne e dal suono stridente: le castagnette della prima strofa e l’acetilene nella penultima. Già nei primi poemetti, i procedimenti iterativi conferiscono drammaticità e caricano di senso il dettato eliotiano e vorrei citare a questo proposito i versi che nel Prufrock si richiamano all’Ecclesiaste:

/And indeed there will be time/For the yellow smoke that slides along the street/Rubbing its back uopon the window-panes;/There will be time, there will be time,//To prepare the face to meet the faces that you meet;/There will be time to murder and create,/…

(E in effetti ci sarà tempo/per il fumo giallo che scivola lungo la strada/grattandosi il dorso ai vetri delle finestre;/ci sarà tempo, ci sarà tempo per preparare/una faccia per incontrare le facce da incontrare;/ci sarà tempo per uccidere e creare/…)28

In Montale, invece, il contrappunto fra parole della tradizione poetica e altre consapevolmente moderne risponde essenzialmente a esigenze linguistico musicali, con rimandi a luoghi ed episodi biografici. Viste da vicino le differenze sono più evidenti delle somiglianze, a meno di non ridurre tutto al comune uso, in entrambi, delle dramatis personae; sebbene, anche in questo caso, le diversità nel modo di farlo siano profonde perché diversi, sono i personaggi e perché l’uso che Eliot fa delle maschere non rimane lo stesso. Confrontiamo, per esempio, l’Arsenio di Montale con Prufrock e con  la Lady del Portrait.

Il personaggio montaliano discende un viale che porta sul lungomare, mentre il cielo è percorso dalla turbolenza tipica delle cittadine mediterranee in primavera. Il paesaggio è luminoso nonostante il vento e l’atmosfera tempestosa. Arsenio è un osservatore solitario, spiritualmente immobile, ma anche i suoi movimenti fisici sono impacciati. La vita gli scorre a fianco, rappresentata da elementi talvolta improbabili e curiosi (l’orchestrina di violini zigani); oppure dall’immagine tipicamente marina dei gozzi in rada. Arsenio continua la sua passeggiata fino a che la pioggia non scroscia improvvisa; anch’essa simbolo di una vitalità che non sembra scuoterlo. Il poeta, infatti, si rivolge a lui, nel finale con questi versi:

…/e se un gesto ti sfiora, una parola/ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,/nell’ora che si scioglie, il cenno d’una/vita strozzata per te sorta, e il vento/la porta con la cenere degli astri./29

Consideriamo ora l’inizio di Prufrock e l’attacco della seconda parte di Portrait of a lady.

/Let us go then, you and I,/ When the evening is spread out against the sky/ Like a patient etherised upon a table;/ Let us go, through half deserted streets,/ The muttering retreats/ Of restless nights in one-night cheap hotels/ And sawdust restaurants with oyster-shells:/ Streets that follow like a tedious argument/ Of insidious intent/ To lead you to an overwhelming question…/ Oh, do not ask, “What is it?”/ Let us go and make our visit.// In the room the women come and go/Talking of Michelangelo.

( Andiamo dunque, tu ed io,/quando la sera è stesa contro il cielo/come un paziente anestetizzato sul tavolo;/andiamo, per certe strade semi deserte, /rifugi borbottanti/di notti inquiete in locande da una notte/e ristoranti con segatura e gusci d’ostrica:/ strade che seguono come una discussione noiosa/ dall’intenzione insidiosa/ per condurti a una domanda ineluttabile …/No, non chiedermi qual è./ Andiamo piuttosto, facciamo la nostra visita.// Le donne vanno e vengono nei salotti/parlando di Michelangelo Buonarroti./) 30

Sebbene il tedio, la proustiana paresse, ma anche lo spleen baudleriano, accomuni queste figure ad Arsenio, molto altro le differenzia. Il monologo di Prufrock ha un interlocutore diretto, il tu che si accompagna al protagonista. La drammatizzazione muove entrambi i personaggi e il poeta diviene un regista di scena, mentre nell’Arsenio di Montale è un io diretto a rivolgersi a lui nel finale. Diverso è poi lo scenario. I personaggi di Eliot si muovono nella città che Baudelaire ha intuito per primo come impasto di sordido e di sublime, di esperienza routinière e di possibilità d’incontri fuori dal comune. Eliot assume questa lezione e ridisegna la materia del poeta francese trasformandola in un inferno trasportato nell’al di qua. Lo vediamo dagli hotels che, nonostante le apparenti affinità sono invece affatto diversi. Alberghi a ore per incontri fugaci quelli del poeta inglese; più consueti quelli di Montale, dove i cavalli incappucciati danno alla scena tratti ottocenteschi, ma di un ottocento diverso da quello industriale e fuligginoso dei bassifondi parigini o londinesi.

Le due maschere eliotiane devono compiere una visita in un salotto borghese, dove impera il vaniloquio. È già presente in Eliot quel sentore di una società di massa intrisa di consumismo culturale e narcisismo salottiero, dove il protagonista è un demi monde che orecchia e ripete; del tutto assente in Montale.

In Portrait of a lady la protagonista è un equivalente femminile di Prufrock; cambia invece il modo della rappresentazione:

/ Now that lilacs are in bloom/She has a bowl of lilacs in the room/And twists one in her fingers while she talks./ “Ah my friend, you do noto know, you do not know/What life is, you who holds it in your hands;”/(Slowly twisting the lilacs stalks)/ “You let it flow from you, you let it flow,/And youth is cruel, and has no more remorse/And smiles at situations which it cannot see.”/ I smile, of course,/ and go on drinking tea.

(/Ora che i lillà sono in fiore/essa ha un vaso di lillà nella stanza/e ne attorciglia uno fra le dita mentre parla./”Ah, amico mio voi non sapete, non sapete/ cos’è la vita, dovreste tenerla in mano;”/ (Attorcigliando lentamente gli steli dei lillà.)/ “Voi lasciate che scorra, la lasciate scorrere,/ e la gioventù è crudele, non ha rimorsi/ e sorride delle situazioni che non vede.”/Io sorrido, naturalmente,/ e continuo a bere./) 31

Introducendo il virgolettato, Eliot non compie semplicemente un’operazione di tipo stilistico. Il monologo di Browning diventa dialogo drammatizzato, in un’alternanza di versificazione, dove gli intercalari fra i dialoghi sembrano quasi delle note di regia. Nel finale il poeta ride dei suoi personaggi e della pantomima messa in scena da questa lady, depositaria di pseudo verità; ma la presa di distanza è già avvenuta. Con Gerontion, Eliot, in un certo senso, uccide il personaggio di Prufrock per poterlo resuscitare spogliato dai tratti di compiaciuta identificazione che restano evidenti nelle prime produzioni. Quest’ultimo poemetto, infatti, annuncia il poema maggiore. La sintesi di questo percorso sarà proprio La terra desolata, dove gli elementi precedenti vengono fusi di nuovo e tenuti insieme da un sentimento tragico della crisi che si è, nel tempo, approfondito. L’ironia e lo scherzo sono presenti nel poema eliotiano, ma non sono più l’elemento dominante. Rimane il mondo infernale, ma si può convenire con Luigi Berti quando, riprendendo un’osservazione di Stephen Spender sulle affinità e differenze fra i due poeti, afferma a proposito della città che:

nella luce di questa poesia è evidente che come Baudelaire vi scorgeva tutto ciò che poteva essere condannato, Eliot, forse più modestamente, vi cerca tutto ciò che può essere salvato.32

Nel 1950, riflettendo proprio su questo percorso, in un saggio dal significativo titolo What Dante means to me (Ciò che Dante significa per me) e ristampato nel 65 nella raccolta di saggi To criticize the critic and other writings Eliot scriverà:

Credo che da Baudelaire imparai per la prima volta un precedente per le possibilità poetiche, mai sviluppate da un poeta nella mia lingua … della possibilità di fondere ciò che è realisticamente sordido e il fantasmagorico, la possibilità di giustapporre i fatti e il fantastico. Da lui come da Laforgue […] capii che il tipo di esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana poteva essere materiale di poesia, e che la fonte di nuova poesia poteva trovarsi in ciò che era stato fin qui considerato intrattabile, sterile, impoetico33

Diverso il procedimento di Montale. Arsenio, pur avendo dei tratti che ricordano le dramatis personae eliotiane, rimane un episodio isolato, quasi estraneo alle atmosfere di Ossi di seppia. Tuttavia, si potrà obiettare che sono Le occasioni, e non l’opera d’esordio, quella che dalla critica è stata più avvicinata alla poesia di Eliot; anche se, come abbiamo visto, la pubblicazione di Arsenio in Gran Bretagna è un passaggio rilevantissimo nel rapporto fra Montale ed Eliot, sempre mediato da Mario Praz.

Vi accenna Mengaldo, ma anche altri hanno sottolineato tale contiguità. Barberi Squarotti si mantiene invece in una posizione più guardinga, limitandosi a osservare il superamento del soggetto. Secondo altri fra cui Eugenio Scarpati, il debito di Montale nei confronti di Eliot:

è culturale prima che poetico. 34

Il poeta stesso, dirà, riferendosi alle Occasioni, di una maggiore oggettività e pulizia, rispetto agli elementi spuri e soggettivi ancora presenti nell’opera precedente. Anche in questo caso, tuttavia, i dubbi rimangono forti. Una prima considerazione che s’impone è di carattere strutturale. Manca in Montale l’intento poematico, presente in Eliot, seppure nella forma aperta e cinematografica della costruzione a sketches. Visto nella sua prospettiva storica il poema eliotiano appare oltretutto più unitario di quanto non vedessero i suoi primi critici, colpiti dalla novità della partitura. Non solo la figura di Tiresia, ma anche la sequenza delle scene e il fitto intreccio di rimandi interni, costituiscono un insieme semantico molto strutturato. Infine, l’uso quasi esclusivo del tempo verbale al presente indicativo e il ricorso frequente alla drammatizzazione servono a cogliere tutto in presa diretta. La stratificazione dei significati non è data dalla memoria soggettiva dell’autore ma dalla compresenza oggettiva di elementi diversi e talvolta disparati; come quando, nel visitare una città gravida di storia, possiamo vedere nella stessa piazza una rovina arcaica, una chiesa del ‘500 e un palazzo in vetro e acciaio.    

Vediamo Le occasioni. Così inizia il primo testo, intitolato Vecchi versi.

/Ricordo la farfalla ch’era entrata/dai vetri schiusi nella sera fumida/su la costa raccolta, dilavata/dal trascorrere iroso delle spume./

La parola chiave di questo attacco è ricordo. Il tempo presente del verbo non è qui in presa diretta, ma introduce il punto di vista della memoria soggettiva; la scena successiva è evocativa, l’oggetto farfalla diventa subito simbolico. Nel prosieguo la memoria affolla la scena di altri personaggi: la madre del poeta, il tavolo ingombro dalle carte da gioco, i bambini che dormono. Siamo dunque in un interno, cui fanno da contrappunto: il faro pulsante dell’isola del Tino, il rombo sordo del mare delle Cinque Terre. La farfalla diviene l’elemento che porta la natura dentro questo tranquillo interno di una casa borghese. La sua presenza si fa minacciosa:

/Era un insetto orribile dal becco/aguzzo, gli occhi avvolti come d’una/ rossastra fotosfera, al dosso il teschio/umano; e attorno dava se una mano/tentava di ghermirlo un acre sibilo/ che agghiacciava./

Questo segno perturbante, che ricorda assai l’Acherontia Atropos di Gozzano,  sconvolge appena lievemente la scena, creando un forte momento epifanico; ma lo fa nel senso soggettivo proustiano non in quello oggettivo eliotiano. La farfalla di Montale assomiglia più alla madeleine. Il finale celebra un tema che appartiene alla poesia di tutti i tempi. La farfalla muore al contatto della luce e precipita su tavolo:

…/e fu per sempre/con le cose che chiudono in un giro/sicuro come il giorno,…/. 35

Il tema è quello della inesorabilità del destino che accomuna cose, animali, esseri umani. La caducità, colta nell’essere minaccioso e fragile di questa farfalla, viene estesa in questo bellissimo aprirsi finale del testo a ogni cosa, vivente o inanimata che sia; ma chi compie questo prodigio è ancora una volta, la memoria, parola chiave di questa parte. È la memoria a ingigantire il volo effimero di questa farfalla che viene associata al ricordo di una giovane morta precocemente – Annetta – che sarà anche la protagonista de La casa dei doganieri:

 /la memoria/in sé le cresce, sole vive d’una/vita che disparì sotterra: insieme/coi volti famigliari che oggi sperde/non più il sonno ma un’altra noia; accanto/ai muri antichi, ai lidi, alla tartana/ che imbarcava/ tronchi di pino a riva ad ogni mese,/al segno del torrente che discende/ancora al mare e la sua via si scava./ 36

L’elemento nuovo che Montale introduce è quello della noia che spegne queste vite, si direbbe, prima che abbiano compiuto il loro corso; questa novità si può collegare al tedio e all’immobilità di Arsenio e delle maschere eliotiane, ma è troppo poco per spingere le somiglianze oltre un certo limite. Non è qui in gioco, naturalmente, il valore di questa poesia e le suggestioni che essa sa riproporre su un tema così alto, ma l’affinità o meno con i procedimenti eliotiani. Piuttosto, è il Gozzano di Farfalle che viene alla mente.

Infine, due poesie intitolate Dora Markus e a un celebre Mottetto.

/Fu dove il ponte di legno/mette a Porto Corsini sul mare alto/e rari uomini, quasi immoti, affondano/o salpano le reti. Con un segno/della mano additavi all’altra sponda/invisibile la tua patria vera./Poi seguimmo il canale fino alla darsena/della città, lucida di fuliggine,/nella bassura dove s’affondava/una primavera inerte, senza memoria./ 38

Non mancano temi eliotiani in questo inizio: la primavera inerte, la lucida fuliggine, i rari uomini quasi immoti. Tuttavia è ancora una volta la memoria a tenere insieme tutto questo, il ricordo di un incontro con questa donna, di cui vi è una labile traccia in una lettera di Roberto Bazlen.

Dora, dal canto suo, ricorda il personaggio della signora nel boudoir di The game of chess (Una partita a scacchi), ne La terra desolata, ma ancora una volta le differenze sono più vistose. Così il testo di Montale:

…/Non so come stremata tu resisti/in questo lago/d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra,/al piumino, alla lima: un topo bianco,/d’avorio; e così esisti!/.

Così quello di Eliot:

…/The glitter of her jewels rose to meet it,/From satin cases poured in rich profusion./ In vials of ivory and coloured glass/ Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,/Unguent, powdered, or liquid – troubled, confused/…

(/lo scintillio le si levava incontro/ da astucci di raso versato a profusione;/ in fiale d’avorio e vetro colorato/dischiuse i suoi profumi stavano in agguato/ sintetici e strani/ unguenti ciprie e liquidi – turbavano e confondevano/…). 39

Sono gli oggetti a essere molto simili, ma è diverso il loro senso. Dora esiste attraverso di essi, come dice il poeta, mentre la signora del boudoir ne è pesantemente gravata. Nel prosieguo il sovraccarico di oggetti preziosi fra i quali la signora si muove descrivono in realtà una prigione dorata. Ed è allora che scatta una delle più commoventi e tragiche correlazioni dell’intero poema. Fra gli oggetti del boudoir vi è un quadro, il cui tema è il mito di Filomela, violentata da un re barbaro e trasformata in usignolo, condannato a cantare in gabbia. La relazione fra la rappresentazione nel quadro e la condizione di prigioniera introduce una drammatica messa in scena in forma di dialogo della nevrosi di cui soffre la donna.

Torniamo alla Dora Markus di Montale:

…/La tua irrequietudine mi fa pensare/agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose:/ è una tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/ e i suoi riposi sono anche più rari./ 40

Anche l’irrequietudine di Dora ha tratti nevrotici, ma essa rimane quello che è: una donna probabilmente mai incontrata, vista attraverso lo sguardo di un poeta che è anche un uomo. Nella seconda poesia a lei dedicata viene evocata la sua terra, la Carinzia, un luogo quasi esotico e lontano, irraggiungibile come forse la stessa Dora Markus. In definitiva il tema di Montale è l’incontro mancato con quella donna, ma non la condizione epocale di incomunicabilità fra uomini e donne in una relazione d’amore.

E veniamo al Mottetto

/La canna che dispiuma/ mollemente il suo rosso/ flabello a primavera;/ la rèdola nel fosso, su la nera/ correntìa sorvolata di libellule;/e il cane trafelato che rincasa/ col suo fardello in bocca,// oggi qui non mi tocca riconoscere;/ ma là dove il riverbero più cuoce/ e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue/ pupille ormai remote, solo due/ fasci di luce in croce./ E il tempo passa./ 41

Il mottetto è nettamente diviso in due parti, sottolineate anche dalla più ampia spaziatura esistente fra la prima e la seconda. La prima scena ci presenta una serie di elementi vitali e primaverili: il susseguirsi delle stagioni e il ridestarsi della natura dopo l’inverno da un lato, l’attività dell’animale domestico ma ancora libero dall’altro. In questo contesto non privo di un sentore di arcadia campestre, s’insinua improvviso un elemento di morte suscitato dal nuvolo che si abbassa. Ancora una volta è il ricordo di due pupille ormai remote a sospendere sia il movimento, sia la primavera. La trasfigurazione finale che muta gli occhi di questa donna in due fasci di luce in croce non allude, nonostante le apparenze, ad alcuna redenzione perché non vi è rientro nella natura secondo il ciclo vita morte rinascita, ma neppure una scelta decisa verso la soluzione cristiana del resto guardata da Montale con scettico agnosticismo se non proprio con rifiuto. La chiusa, un dantesco colpo di maglio, allude alla condizione di transito di ogni cosa, ma s’impone per la sua forte connotazione ritmica e musicale, senza ulteriori apporti di senso. In realtà, considerando il Mottetto nel suo insieme, il poeta gioca sul contrasto piuttosto che sulla correlazione. La morte che si insinua, mediata dalla memoria, non è in dialettica con la vitale descrizione della prima parte, ma semplicemente vi si giustappone. Ciò che rende suggestiva questa poesia è la concentrazione di epifanie in uno spazio testuale così breve; sono momenti che hanno un forte valore intrinseco, secondo i canoni migliori della poesia simbolista, dalla quale non si distaccano. I singoli fotogrammi di questa scena, il lampo finale che dissolve tutto in una luce accecante e il richiamo al tempo lineare che trascorre ci portano in due direzioni precise: da un punto di vista filosofico verso l’esaltazione del tempo come istante epifanico piuttosto che come lunga durata alla Bergson e poeticamente verso il Mallarmè più rarefatto. Senza dimenticare mai, tuttavia, che il verso oggi qui non mi tocca riconoscere, con cui si apre la seconda parte del Mottetto, introduce un punto di vista squisitamente soggettivo.

Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920 riferendosi al processo che porta alla poesia, Eliot lo definisce in questo modo:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.

È veramente curioso, a questo punto, rilevare come un poeta così legato alla biografia e ad alcuni luoghi privilegiati, venga associato a Eliot che critica apertamente l’irruzione di elementi biografici nel linguaggio poetico!

Negli studi di un italianista come Frederik Jones, forse perché più distaccato e capace di vedere le cose da una prospettiva più decentrata, ho trovato una ricostruzione convincente del percorso montaliano. Per lo studioso inglese il punto di partenza del poeta ligure è proprio Gozzano, da cui lo differenzia però

la fede continua e sostenuta nella validità dell’atto decisivo, capace di rievocare associativamente attraverso la memoria, le esperienze passate.

Continua ancora Jones: “… I suoi ricordi esteticamente sono spesso simili a certe evocazioni delle vecchie stampe gozzaniane, ma Montale ha su Gozzano il vantaggio di credere che la rappresentazione del patrimonio esistenziale del poeta possa avvenire in due modi: mediante immagini sia statiche sia dinamiche.

Nel merito più diretto della sua poesia essa:

Deve essere vista come una dialettica della memoria fondata su una religione nettamente immanente di sopravvivenza oltre la morte … Per lui una persona morta può essere immaginata solo come un insieme di atti incapsulati nel ricordo dei vivi … Tale conclusione è molto vicina alla teoria mallarmeana dell’essere ideale, ma in sostanza la sua forte carica emotiva l’avvicina piuttosto alle teorie proustiane della rievocazione memoriale ….

In tutto questo in nome di Eliot non compare mai. 42

Dal 1928 comincia una relazione intensa fra Montale ed Eliot, che culminerà anche in un paio di incontri e di cui Praz sarà l’assiduo tessitore. L’ambiente fiorentino è condizionato da questo sodalizio: l’esordio di poeti come Luzi, Bigongiari e Betocchi avviene in quest’atmosfera. Fino al ‘37 Praz e Montale saranno i soli traduttori di Eliot in Italia e i testi eliotiani suggestionano fortemente il poeta italiano. Negli interventi critici del poeta ligure sul suo interlocutore, Montale insiste sulla musicalità dei versi di Eliot, ma lascia in secondo piano i riferimenti culturali. Senza nulla togliere alla qualità musicale del poeta di oltre Manica, non è tuttavia per questo che si ricordano i suoi versi e comunque il suo rapporto con la musica è differente; le variazioni di Eliot sono jazzistiche, la sua cultura musicale, se vogliamo mantenere questo paragone, è eclettica e risente anche delle sue origini statunitensi. La musica di Montale è quella melodica e talvolta patetica del melodramma italiano e persino dell’operetta e in certe sonorità si possono riscontrare anche echi di poeti come Metastasio. Montale sembra assumere il calco eliotiano, ma non entra nel merito di problemi di poetica e quando lo fa le differenze sono evidenti. Due passaggi mi sembrano alquanto rivelatori. Dice Eliot:

L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel  trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione …

Dice Montale:

Non si dà poesia senza artificio; il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma altresì lavorare la sua materia verbale fino a un certo momento e dare alla propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo oggettivo.”43

Eliot parla d’emozione in senso universale e non biografico, si riferisce a un vasto universo di riferimenti, non parla di effusione del sentimento, ma specialmente non usa la parola artificio. Per lui il correlativo oggettivo è necessario per dare il massimo di universalità possibile e d’impersonalità all’esito artistico, dove la parola va intesa nel senso del rigore della rappresentazione e non come è stato detto troppe volte nel senso della freddezza emotiva. Quando Eliot pensa al duro lavoro sul verso, ha in mente il fabbro e cioè il modo di operare dell’artigiano che se mai è un virtuoso, ma non un artificioso. In questo contesto, l’omaggio che Montale rivolge alla formula eliotiana, appare strumentale e infatti troverà modo di liberarsene anni dopo. Nella Intervista immaginaria. Sulla poesia del 1946 il poeta dirà fra l’altro, a proposito de Le occasioni, che esse erano l’espressione di:

… Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui fui mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del correlativo oggettivo non credo esistesse ancora nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato sul Criterion)…

Questa dichiarazione contiene una mistificazione e una palese inesattezza. Il poeta dice di essere stato mosso dall’istinto nell’andare in una certa direzione: si può credergli, visto che aveva parlato in altro contesto della poesia come artificio? Istinto e artificio mal si conciliano. Quanto all’inesattezza non è vero che nel ’28 la teoria del correlativo oggettivo non esistesse, in quanto essa fu formulata in un saggio del 1919; ma non è neppure vero che Montale la ignorasse! È lui stesso a lasciarlo intendere nella recensione scritta per un libro di Corrado Pavolini del 1929, quando riferendosi proprio al correlativo oggettivo lo presenta come quella:

famosa definizione che tende a fare di ogni lirica moderna un oggetto di poesia (il correlativo oggettivo) secondo la nota teoria di Eliot. 44

A parte l’interpretazione discutibile del dettato eliotiano, se la formula gli era così ampiamente nota nel ’29, è difficile pensare che la ignorasse completamente nel ’28! E comunque Montale se ne scorda nel ’46, mentre se ne ricordava benissimo nel ’31: perché? Forse perché per tutti gli anni ’30 le ali del grande anglo statunitense potevano essere un ottimo usbergo per il giovane (e poco noto in Europa) poeta italiano, mentre nel ’46 le stesse ali, divenute ancora più estese, potevano risultare ingombranti. In questo contesto l’intervista immaginaria che il poeta rivolge a se stesso va vista come un tentativo di dare organicità al proprio percorso, costruendo una propria originalità anche di poetica.

Concluderei questa parte ricordando un intervento di Oreste Macrì, letto in occasione del convegno internazionale sulla poesia di Montale tenutosi nel 1982. Soffermandosi proprio sui rapporti con Eliot lo studioso afferma:

È un momento cruciale questo dell’incontro con la poesia più che con la poetica di Eliot, sul quale Montale proietterà tutte le sue complesse e contraddittorie istanze, alla ricerca di una nuova sintesi superiore abbracciante i dati del lirismo e della prosa, del generico e del particolare del continuo e del salto,… della storia e dell’universale. I primi termini sono considerati dei dati …. L’universale ha gli stessi diritti del particolare; un mito, un simbolo, un rito antichissimi si possono sincronizzare e amalgamare in un contesto contemporaneo … Fu questa la riforma eliotiana, rielaborata da Montale alla buona, a punti di spillo, casualmente, con l’empiria e il buon senso dell’uomo della strada.” 45

La vera fortuna di Eliot in Italia inizia nel secondo dopoguerra, quando aumentano, fino a diventare numerosissimi, gli studi su di lui; specialmente dopo l’attribuzione del Nobel, avvenuta nel 1948. Da un semplice esame della bibliografia si evince subito come sia la sua opera di drammaturgo a tenere ancora banco. Il poeta è in seconda linea e della sua produzione poetica molti studi sono dedicati alle opere giovanili e alla Waste Land mentre quelli dedicati ai Quartetti sono in netta minoranza. Saranno le traduzioni successive di Sanesi, Tonelli e altri a renderli più noti, ma siamo negli anni’80 e ’90.

Un altro filone della critica si occupa di Eliot in quanto esponente di prestigio della cultura cristiana: si pensi ai lavori di Margherita Guidacci, Angelo Romanò e specialmente a quelli di Luigi Berti che insistono su opere meno considerate da altri, quali, per esempio Ash-Wednesday o pièce teatrali molto rappresentate in quegli anni come Assassinio nella cattedrale o Cocktail party.

Le ragioni per cui continua a piacere sono dovute a uno strano melange che riguarda certamente la sua poesia e la sua poetica, ma anche il personaggio che egli sembra incarnare: quello dimesso e scettico, tipicamente moderno, del poeta agli antipodi del vate romantico o d’annunziano.

Filtrata dalla vicenda montaliana, il modo in cui il poeta viene accolto risente ancora di più di quella predisposizione simbolista, tardo ermetica, oppure crepuscolare che continuava e per certi aspetti continua a gravare sulla poesia italiana. La sua diventa da un lato una poetica dell’aridità che fa tutt’uno con la figura dimessa del poeta uomo comune, prototipo di quell’uomo senza qualità che è una figura tipica dell’anti eroe novecentesco. Dall’altro lato una poetica dell’oggetto, che è cosa diversa dal correlativo oggettivo.

La citazione di un brano del saggio di Silvio Ramat sulla poesia di Bartolo Cattafi mi sembra a questo proposito emblematica, non tanto per quanto egli dice sul poeta siciliano ma per il modo di intendere Eliot:

Il mutamento operatosi nel rapporto soggetto-oggetto va posto in relazione a un processo tipico della letteratura novecentesca. È un processo che aveva conosciuto in Eliot e, contemporaneamente in Montale, la sua stagione decisiva, dando luogo in termini di riepilogo critico alla formula eliotiana del correlativo oggettivo.46

Oltre che a dare per scontato il parallelismo fra i due autori Ramat mette l’accento sullo spostamento fra soggetto e oggetto, a favore di quest’ultimo, intendendo con questo il superamento dell’io lirico o il suo decentramento. Non è questo però che interessa al poeta anglo-statunitense; tale dibattito sarà molto presente nella scena italiana. Per Eliot il correlativo oggettivo è un vero e proprio flusso che si manifesta in concrezioni semantiche ricche di rimandi interni, estrema forza sintetica e profondità antropologica, mentre la poetica dell’oggetto è, nelle sue espressioni migliori come è per esempio nei Mottetti montaliani, una sequenza di epifanie isolate le une dalle altre, quasi sempre legate alla soggettività di chi scrive e un’esperienza biografica sempre più o meno presente direttamente nel testo.

Sono questi in definitiva i modi in cui la poesia italiana assumerà la lezione eliotiana. Nei poeti italiani del secondo Novecento, dove sono riscontrabili tracce della sua poetica, è la selezione circoscritta di temi e oggetti corrispondenti ad operare, declinati in senso intimistico e minimalista; oppure assurti a emblemi di romanzi famigliari.

In Giudici, come in altri (perché il problema riguarda un ambito più vasto), si assiste addirittura al trionfo, non della poetica eliotiana, ma delle sue prime maschere, con le quali il poeta sembra identificarsi in toto, forzandone i tratti patetici. Accade così che il poeta proletario, che secondo la definizione di Giancarlo Ferretti sarebbe il protagonista della poesia di Giudici, è in realtà un hollow man piccolo borghese, erede decaduto e sempre più patetico dei protagonisti delle poesie dei maggiori poeti crepuscolari (Gozzano in Piemonte, Corazzini a Roma); oppure del travet che conobbe il punto massimo di celebrazione del suo decoro nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi. 47

Siamo lontani dal crollo di una civiltà: crollano piccoli mondi personali e tutto si sminuzza fino alla polvere. Non siamo più allo specchio infranto, i cui pezzi, però, rimangono lì dove sono come evidenza visibile di una catastrofe: ogni piccolo pezzo diviene una totalità separata dagli altri.

Mario Praz

22 Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la Review of the great English verse conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.

23 Le riviste in questione sono Commerce e Le navire d’Argent. La citazione di Montale si trova alla pagina 27 del testo  T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

24 È il titolo di un articolo scritto da Linati per Il Corriere della sera del 13-1-1926.

25 Così si esprime per esempio Laura Caretti nel saggio dal titolo Eliot in Italia: “Si potrà così notare che Praz abbia in un certo qual modo interpretato in chiave eliotiana il testo di Montale e che sia anche ricorso in più punti alla accentuazione di alcuni tipici mezzi stilistici del poeta inglese.” Pag. 59.

26 Il testo di Arsenio è riportato da Eugenio Montale. L’opera in versi a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, collana I Millenni, Giulio Einaudi editore pag. 81. La traduzione di Praz si trova nel testo già citato di Laura Caretti: T.S Eliot in Italia,  Pag. 58 e 59.

27 Ivi.

28 Da ‘T.S. Eliot. Poesie 1905/1920 per la cura e la traduzione di massimo Bacigalupo. Grandi Tascabili economici Newton Poesia. Newton Compton Editore. Pag. 30-31.

29 Tutte le citazioni tratte da poesie di Montale, oppure le note collegate ai testi sono ricavate Da I Millenni: Eugenio Montale. L’opera in versi. Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Einaudi Editore 1980.

30 I brani citati dalle due opere eliotiane si trovano in T. S. Eliot. Poesie 1905-1920, a cura e traduzione di Massimo Bacigalupo. Newton Compton editore 1995, pag. 30 e 41.

31 Op. cit. Pp. 30-41.

32 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

33 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

34 Da Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale,  Librex editore. Anno 1982. I brani citati sono alle pagine 171 e seguenti per Barberi Squarotti, che intitola il suo intervento Montale o il superamento del soggetto. La citazione di Scarpati è alla pag. 255. Il citato saggio di Pier Vincenzo Mengaldo su Montale si trova in Poeti italiani del 900, Grandi classici Mondadori, 2001, pag. 517 e seguenti.

35 Eugenio Montale, Opera in versi I Millenni, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, 1980, pp-112-13.

36 Ivi.

38 Op.cit. pag.125.

39 T:S: Eliot, Waste Land La terra desolata.

40 Eugenio Montale, op. cit. pag.125.

41 Op. cit. pag.151.

42 Tutte le citazioni sono tratte da La poesia italiana contemporanea da Gozzano a Quasimodo di Frederic Jones. D’Anna editrice, pagine 326-331-332-333. La citazione di Eliot da Il bosco sacro, rimanda a una nota  precedente, la numero 10 dell’introduzione che si trova nel blog..

43 La formulazione così chiara e sintetica della teoria del correlativo oggettivo, si trova nel saggio del 1919 Hamlet and his problem, dedicato alla tragedia shakespeariana. La traduzione qui riportata è di Luciano Anceschi ed è riportata nel testo di Laura Caretti T.S. Eliot in Italia alla pagina 75. Eugenio Motale in La Gazzetta del popolo del 4-11-1931.

La citazione si trova in Intenzioni. Intervista immaginaria . In questo caso l’ho ricavata dal testo di Giorgio Zampa intitolato Eugenio Montale. Sulla poesia, dove l’intervista si trova alla pagina 564.

44 Ivi.

45 Dal saggio di Oreste Macrì in Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale’ Anno 1982, pag.421-22. Mi riferisco all’introduzione, scritta da poeta stesso, al testo T.S. Eliot tradotto da Montale. Collana All’insegna del pesce d’oro. Editore Vanni Scheiwiller, 195

46 Ivi.

47 Giancarlo Ferretti: La letteratura del rifiuto. A cura di Giorgio Barberi Squarotti, Giovanni Getto e Edoardo Sanguineti. Mursia editore. Il saggio in questione si sofferma più volte sulla figura del poeta proletario e va dunque considerato nel suo insieme.

T.S. ELIOT: IL TEMPO E LA STORIA

Apocalypse

La questione del tempo e del luogo, come abbiamo già visto abbondantemente, è cruciale fin dall’esergo eracliteo del Quartetti qui di seguito e nei primi cinque versi della prima sezione citati in precedenza:

Benché la parola sia comune a tutti, la maggioranza degli uomini vive come se ciascuno di essi avesse una saggezza particolare … La via che sale e la via che discende sono una medesima cosa.18 

All’inizio della prima sezione dell’ultimo Quartetto – Little Gidding –  Eliot riprende un tema molto celebrato di Waste land:

Midwinter spring is its own season/Sempiternal though sodden towards, sundown,/

(Primavera cresciuta  a mezzo inverno/è la sola stagione sempiterna/)19

Dall’aprile mese più crudele il poeta trova un approdo in questa immagine, in cui forse si può intravedere anche l’estate di San Martino.

La stagione sempiterna non può essere l’estate, perché la pienezza non appartiene agli umani, è solo un inganno. Nel caso di Eliot si può di certo parlare di una poesia del tempo di povertà molto più che per altri. Una volta indicato il tempo atmosferico e i colori di questo quartetto, autunnale seppure temperato, altrettanto importante è il luogo. Little Gidding, è il nome di un villaggio che fu sede di una delle più importanti comunità religiose inglesi, fondata nel 1600. Durante tutto il secolo, il villaggio fu visitato da personalità illustri del cristianesimo britannico; tuttavia non fu solo questo, ma anche il luogo dove il fuggiasco Re Carlo cercò rifugio prima di essere di essere arrestato e poi decapitato dalle truppe puritane e repubblicane di Cromwell. La storia entra quindi nel testo possiamo vedere nella scelta anche un modo da parte di Eliot per marcare la sua lontananza dalla rivoluzione repubblicana e puritana. Sempre nella prima sezione si chiarisce meglio in che modo: 

If you came this way,/taking the route you would be likely to take/From the place you would be likely to come from,/In you came this way in may time you would find the hedges/White again in May, with voluptuary sweetness./It would be the same and the end of the journey…

(Se tu in questi luoghi fossi giunto,/per una via qualunque, partendo da un luogo qualunque/in qualsiasi stagione e in ogni tempo,/sarebbe stato uguale …)

La comunità di Little Gidding, vista in modo retrospettivo, è per Eliot il luogo che ha riscattato il 1600 dai suoi orrori. Nella conclusione del primo movimento, il paese sede della comunità diventa l’Inghilterra intera, ma potrebbe essere qualunque luogo.

Simboli e riferimenti s’inseguono nel testo: da un famoso motto di Maria Stuarda, si passa a una figura storica del misticismo britannico, Giuliana di Norwick. La storia ha una duplice valenza nella partitura dei Quartetti: mentre la contemporaneità viene vista da Eliot nella sua concretezza e mai elusa, il passato viene rivisitato solo attraverso il filtro della comunità cristiana.20 Credo che in questa asimmetria vada riconosciuto prima di tutto la natura del suo misticismo, che il poeta traduce in una suggestiva raffigurazione rovesciata dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin: quest’ultimo corre in avanti e ha gli occhi rivolti all’indietro, così da vedere l’immane distruzione che il suo procedere si lascia alle spalle. L’angelo di Eliot, corre all’indietro, ma i suoi occhi sono puntati sia sul passato alla ricerca di una prefigurazione di salvezza, sia davanti, così da vedere le distruzioni e le immani tragedie del momento: un angelo Giano quello di Eliot. Il rapporto con l’escatologia cristiana assume una declinazione molto particolare. Le origini statunitensi di Eliot mostrano la grana che sta sotto l’apparenza: la sua educazione avvenne pur sempre in un ambiente prevalentemente protestante. Che Dio è allora quello del poeta? Più che Gesù di Nazareth o quello dei Vangeli, è piuttosto il Dio dell’Apocalisse di Giovanni. Se il tempo storico non può essere redento, è tutta la vicenda umana a non poterlo essere. Eliot è però convinto che si possano rintracciare i segni, seppure intermittenti, di una prefigurazione futura della città di Dio e questo può avvenire solo all’interno della comunità cristiana: l’immagine della Tenda di Dio piantata nel mondo che si trova nelle visioni apocalittiche di Giovanni, può aiutare a comprendere la presenza di queste comunità che sono la prefigurazione di quanto accadrà alla fine dei tempi: Little Gidding è una di esse. Il mondo per Eliot è sempre uguale, la contemporaneità comprende in sé ed è sintesi – come ripete più volte nei suoi versi – di presente, passato e futuro. I tre momenti sono mescolati in un intreccio inesplicabile, che soltanto guardando all’indietro rivela qualcosa. Perciò i segni di questa prefigurazione non possono essere visti nel presente. Il Dio di Eliot è apocalittico sia nel senso proprio del termine e cioè di rivelazione, sia nell’altro senso – come nozione corrente – e cioè di catastrofe apocalittica che riguarda l’intera storia mondana. Eliot scelse l’Europa, non solo l’Inghilterra, perché scelse prima di tutto la tradizione cristiana europea, inscindibile dalla sua poetica, dal momento che ne costituisce il nerbo, intorno al quale ruotano come intorno a un sole: il neohegelismo di Bradley, l’antropologia di Frazer, il folklore britannico, qualche maldestra incursione nel salotto di Madame Blavatskj. È la cultura di un conservatore europeo cristiano, con punte reazionarie, qualche traccia di antisemitismo e di manie esoteriche, che ripete in termini moderni il ciclo dantesco. Dall’immersione nell’inferno metropolitano (Prufrock e i primi poemi) al purgatorio di Waste Land, fino all’ascesa e il tentativo di una nuova sintesi nei Quartetti. Ripercorrendo oggi l’intera sua opera, essa appare datata in tutte le sue parti. Essa s’inscrive in una narrazione del ‘900 che è diventata nel tempo un’icona ma anche un guardarsi allo specchio, per quanto infranto esso sia, tanto da assumere anche un aspetto di manierismo narcisista, che si coglie nelle sue citazioni, che sono citazioni e niente altro. La contemplazione della decadenza, alla fine, è diventata un meta discorso, al quale Eliot cerca di sottrarsi nei Quartetti, esorcizzando però il fatto che in definitiva, il cristianesimo europeo, in tutte le sue componenti, non è stato una risposta alla crisi di civiltà ma un aspetto della medesima: non bastano due guerre mondiali, dove i popoli cristiani si sono scannati come belve a sancirlo?22 Eliot cercherà di fare un passo indietro (o avanti) rispetto alla visione apocalittica che ispira l’ultimo Quartetto – Little Gidding – affermando, al contrario, che era ancora possibile ricreare la comunità cristiana anche nel presente storico. Il tentativo si risolse in una modesta proposta nel momento in cui il poeta pretese addirittura di trasportarla dal piano poetico a quello sociale. L’illusione di ristabilire una neo medioevalista comunità cristiana non poteva che cadere nel nulla.

Little Gidding

18 Ivi.

19 Op. cit. pag.63.

20 È facile notare che, qualora si fosse interrogati su che cosa ricordiamo del ‘600 inglese e quali siano i nomi e le vicende che per primi ci vengono alla mente pensando a quel secolo, pochi storici e forse neppure molti credenti indicherebbero ai primi posti Little Gidding e Giuliana di Norwick. Si ricorderebbero la morte d’Elisabetta, di Giacomo I e quella di Shakespeare, la cui celebrità costruita nel secolo precedente è ormai affermata; si ricorderebbero  di John Donne e di John Milton, di Cromwell e della decapitazione di Carlo. Molti si ricorderebbero Locke e Hobbes e anche di Newton, che muove i suoi primi passi nel secolo. Se proprio si dovessero nominare dei gruppi religiosi probabilmente si citerebbero i Diggers e i Levellers. Tutto questo non viene considerato nell’orizzonte eliotiano e non ritengo ragionevole né esaustiva l’obiezione che alla poesia non si debba chiedere la fedeltà alla storia: prima di tutto perché per Eliot medesimo non è così e tutta la sua riflessione sul correlativo oggettivo lo dimostra.  

22 Credo sia utile ricordare il dibattito che ci fu in merito alla necessità di inserire  un richiamo alle radici cristiane dell’Europa nello statuto che fonda l’Unione Europea. La proposta fu giudicata irricevibile, direi del tutto opportunamente, dal momento che le radici europee, assai meticce e frutto di contaminazioni disparate, o vengono nominate tutte (cosa assai difficile), oppure lasciate alla sensibilità di ciascuna cultura senza ulteriori precisazioni.

T. S. ELIOT: I QUARTETTI

East Coker

Nel secolo della relatività dei concetti di spazio/tempo, Eliot ritrova l’eterno come archetipo e su di esso proietta lo scenario del secolo tragico che sta alle nostre spalle. Versi come:

O Dark dark dark. They all go into the dark/The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant/ The captains, merchant bankers, eminent men of letters,/The generous patrons of art, the statesmen and the rulers,/Distinguished civil servants, chairmen of many committees,/ Industrial lords and petty contractors,/ all go into the dark.

(O tenebra tenebra tenebra. Loro/tutti vanno nelle tenebre, nei vuoti/spazi interstellari, il vuoto/va nel vuoto, capitani uomini/d’affari, eminenti letterati generosi/patroni delle arti, uomini di stato/ e governanti, insigni/funzionari, presidenti/di molti comitati, signori/dell’industria e piccoli/imprenditori,/tutti vanno nelle tenebre, e tenebre./) 7

colpiscono profondamente chi li legge per la loro semplicità, per l’immediatezza del loro impatto sonoro e d’immagine, per gli echi che rimandano. Questo è già stato detto eppure risuona come nuovo, non l’abbiamo mai udito in questa forma, sebbene ci sia familiare. Il letterato o chi è abituato a leggere molta poesia sentirà immediatamente l’eco di riferimenti scontati: dal memento mori, al Gongora di alcuni sonetti. Anche chi letterato non è sentirà in questi versi l’eco di qualcosa di profondo e smisurato. Cosa crea questo effetto? Penso che abbiamo qui a che fare con un procedimento che consiste nell’accostare due concretezze in una similitudine asimmetrica. L’elenco di personaggi normalmente considerati impoetici (presidenti, funzionari, piccoli imprenditori ecc.) si accoppia all’altrettanto concreta indicazione di un orizzonte (la tenebra) come luogo e destino di ciò che è stato nominato in precedenza. Tornando allora alla concretezza dell’elenco precedente, ci rendiamo conto della sua finitezza e storicità; dunque della sua intrinseca limitatezza. Quell’elenco di figure che, in altri contesti, incarnano il massimo della potenza mondana, vengono da questi versi sigillati e ricondotti alla loro piccolezza. Sono due concretezze diverse che si accostano; quella di ciò che è infinitamente piccolo (pur apparendo potente) e quella di ciò che è infinitamente grande. Poste l’una vicina all’altra esse creano un corto circuito mentale ed emozionale insieme, oltre che la forza delle immagini. La precisione di Eliot nell’elencare fa risaltare questi figure e le rende  immediatamente riconoscibili; non abbiamo a che fare solo con il concreto e l’astratto, tanto meno con il generico, ma neppure con qualcosa di spiritualistico e disincarnato. È solo dopo avere dato concretezza a ognuna di queste figure e al destino che le attende che il poeta può liberare la sua poesia fino a estendere la visione a quella che chiamiamo convenzionalmente condizione umana:

And all we go with them, into the silent funeral/

(E noi tutti andiamo con loro/nel funerale silenzioso/) 8

Torniamo ancora una volta per un momento a queste figure che corrono verso la tenebra. In esse riconosciamo facilmente la mondanità del ‘900; non manca nessuno e c’è da credere che se Eliot fosse stato vivo nel pieno degli anni ’90, il suo scrupoloso elencare non avrebbe trascurato operatori di Internet, gnomi della finanza, funzionari della Big Science, guru della Silicon Valley, anchor men televisivi, brokers e riviste di informatica. È la potenza del mondo e dei suoi burocrati e funzionari, che sfilano sotto i nostri occhi; vedendo il loro destino ultimo Eliot li riduce a ombre e li fa rientrare nella condizione che ci vuole sottoposti a una legge più grande dell’umana potenza; ma c’è anche qualcosa di più perché se pensiamo bene a questo elenco e lo riportiamo all’oggi, capiremmo subito come alcune di quelle figure sono già passate in giudicato. In sostanza, la potenza mondana muta più in fretta di quanto non si creda, anche all’interno del suo codice. Con la sua precisa nominazione Eliot dice indirettamente che il poeta troppo attento al mondo o che scambia l’attualità per la storia, può finire in un vicolo cieco e non potrà certo scrivere una grande poesia. Ciò che importa però non è tanto la ripetizione di una verità che il sermone cristiano ha tramandato nei secoli con le modalità che gli sono proprie, ma la rappresentazione scenica, l’effetto di contrasto fra tempo storico ed eternità, tempo umano e tempo cosmico; la percezione di entrambi è immediata e concreta perché incarnata nella storia così come in figure emblematiche.

Eliot ha descritto questo procedimento con l’espressione di correlativo oggettivo, un concetto complesso che è il risultato di un lento distillato di riflessioni.

Se si guarda al testo poetico va detto che con esso si ritorna alla concretezza della similitudine per arrivare alla metafora e all’allegoria. Nel procedimento di Eliot la metafora non è una similitudine cui siano stati elisi i connettivi, perché essa stessa è il punto di partenza; così come lo era in John Donne, cui Eliot deve più che qualcosa, anche se quando si pensa a lui i riferimenti sono solitamente altri, Dante in primo luogo.

La prima sezione dei Four Quartets, intitolata Burnt Norton, ripropone il nesso fra luogo, tempo storico ed eternità. Nell’esplorare tale relazione Eliot si trova nel mezzo di una contraddizione: per lui, nella storia così come nella politica che la produce, non vi può essere redenzione. Il poeta, dunque, deve aprirsi a una dimensione che travalica la vicenda umana. È da questo che nasce una concezione del tempo che Eliot vede come un’unità fra passato e futuro che precipita sempre nel presente:

/Time past and time future/What might have been and what has been/Point to one end, which is always present./  9

(Il tempo passato e il tempo futuro/ciò che poteva essere e ciò che è stato/Tendono a un solo fine, che è sempre presente./)

È una concezione vicina a quella espressa da Jung nei saggi sulla sincronicità; senza per questo ipotizzare alcuna influenza diretta o indiretta, sebbene la questione vada almeno accennata.

La definizione che Eliot stesso ha dato di correlativo oggettivo, si trova un passaggio celeberrimo e molto citato dei suoi scritti teorici. Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920, così scrive:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.” E più oltre così continua: “L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione 10

Se restiamo alla lettera e allo spirito della citazione il correlativo oggettivo eliotiano non ha nulla a che vedere con il ricordo e la memoria in senso soggettivo (e la differenza con Montale, associato spesso ma arbitrariamente a lui, è cruciale), ma neppure con le epifanie joyciane o proustiane.

La memoria soggettiva, volontaria o involontaria che sia, presuppone un soggetto e un dato (oppure un oggetto ricordato), che riguardano soltanto la persona che ricorda. Naturalmente il grande poeta sa rendere universale le emozioni indipendentemente dal punto di partenza, ma qui non è in gioco il valore di un testo in sé, ma la comprensione di un procedimento: che rimane differente, perché il correlativo oggettivo necessita di una soggettività dal ruolo diverso. Il problema sta proprio nel soggetto che seleziona gli oggetti a partire da sé, mentre nel correlativo oggettivo il punto di partenza è dato da una concatenazione di oggetti o stratificazioni che portano in sé dei significati, che sono esposti allo sguardo e che hanno una relativa autonomia da chi li osserva.

Il caso più emblematico di procedimento soggettivo è quello ben noto della madeleine proustiana, un oggetto attraverso il quale il soggetto può accedere a un rimosso, facendolo rivivere; ma la madeleine di Proust sarà sempre la sua, mentre London Bridge o Burnt Norton non sono ricordi personali di T. S. Eliot, ma luoghi continuamente esposti alla vista che in un certo momento appare non semplicemente per ciò che mostra a tutti, ma trasfigurato.

Il correlativo oggettivo è altra cosa anche perché ha prima di tutto a che fare con lo spazio entro il quale sono collocati degli oggetti che portano su di essi il marchio della stratificazione delle età, come accade ai tronchi degli alberi quando vengono tagliati; mentre la madeleine proustiana ha a che fare solo con il tempo, la rimozione e lo psichico.

L’inizio della seconda sezione di Burnt Norton, più precisamente i primi quindici versi, sono un esempio emblematico del modo di operare del correlativo oggettivo eliotiano. Il primo verso è una citazione di Mallarmè, tratta da un testo che è un omaggio a Baudelaire:

/Garlic and sapphires in the mud/.

(/Aglio e zaffiri nel fango./)

In questo modo il poeta stabilisce una genealogia, una catena che instaura una fraternità poetica rivolta ai suoi sodali più vicini nel tempo: i modernisti di cui fa parte anche Laforgue, che ispirò i testi giovanili di Eliot.

Aglio, zaffiro e fango, tuttavia, sono anche tre parole molto concrete; c’è un carro che avanza faticosamente in questi versi, trattenuto da tre elementi che costituiscono la natura organica:

/Garlic and sapphires in the mud/Clot the bedded axle-tree./

(/Aglio e zaffiri nel fango./S’aggrumano sul mozzo confitto./)

Preso nel suo insieme il distico è una concrezione di senso e costituisce, come vedremo, il primo termine di paragone di una similitudine. I versi seguenti indicano una situazione intermedia:

 /The trilling wire in the blood/

(/Il filo vibrante del sangue/)

può essere il segno lasciato dal carro, metafora della condizione umana. Tuttavia questo filo non è soltanto doloroso perché:

/Sings below inveterate scars /11

(/Canta sotto le vecchie ferite/)

L’ossimoro rappresentato in questo sangue che canta, chiude una prima fase.

Il lenimento del dolore, il peso della storia, confluiscono in questo intreccio fra similitudine e metafora. I tre versi successivi diventano il secondo termine di paragone della similitudine: la raffigurazione e rappresentazione del corso degli astri. Anche in questi versi troviamo una condensazione che per forza sintetica richiama il primo distico:  

/The dance along the artery/The circulation of the lymph/are figured in the drift of stars/Ascend to summer in the tree/.12

(/La danza lungo l’arteria/la circolazione della linfa/Han figura nel corso degli astri,/raggiungono l’estate nell’albero./)

La concretezza della dizione (corso degli astri è un’espressione molto comune), richiama sia i segni dello zodiaco sia le costellazioni. Ancora una volta due concretezze asimmetriche creano un effetto di moltiplicazione del senso. Lo zodiaco e le costellazioni diventano il luogo su cui si proiettano le vicende umane; come su una tela simile a quella dove Aracne aveva rappresentato le vicende che riguardavano gli dei. Il soggetto del passaggio alla seconda parte è una danza complessa, attraverso l’arteria in cui circola la linfa vitale. Essa ha il potere di ascendere nell’albero e noi – elemento umano che compare per la prima volta nel testo – ascendiamo più in alto dell’albero stesso. In tale ascesa:

/We move above the moving tree/In light upon the figured leaf/And hear upon the sodden floor/Below, the boarhound and the boar/Pursue their pattern as before/But reconciled among the stars./ 13

(/Noi muoviamo al di sopra dell’albero/In moto/nella luce sopra le foglie/Istoriate/E udiamo sul suolo bagnato/ Lì sotto, il veltro e il cinghiale/Continuare la trama di sempre/ ma riconciliati tra gli astri./)

Ancora una volta torna in questi versi che chiudono i primi quindici una forte concentrazione di elementi concreti e simbolici. Eliot cita Dante, suo primo maestro, ma ciò che importa è quel piano acquitrinoso che segue la legge di sempre. Siamo qui in presenza di una spiritualità impastata con il fango, il peso della storia; non un’entità disincarnata. Il mondo segue la legge di sempre, ma proiettato sulla sfera celeste esso appare riconciliato perché ricondotto a un ordine superiore. Tale ordine, tuttavia, non è semplicemente quello cristiano: non si tratta in sostanza di un’assunzione al cielo. La ciclicità cui si allude in questi versi coniuga la sapienza antica dello zodiaco con il mito cristiano; ma in una mescolanza che la poesia rende inestricabile.

L’inizio della seconda sezione termina dunque con l’indicazione di un luogo, o meglio di due mondi – l’uno terrestre, l’altro celeste – che diventano i due termini di paragone di questo fitto intreccio di similitudini, ma anche di metonimie.

Nel prosieguo, tale luogo della proiezione diviene l’immobile punto dell’universo che ruota, il perno di ogni senso; simile al punto di Lagrange fra la Terra e la Luna, dove le forze gravitazionali s’equivalgono così da creare una sorta di culla astrale. È il punto della rigenerazione, molto vicino al concetto di vuoto per il Tao Te Ching; ma può essere anche interpretato come motore immobile. Più che un dio personale siamo in presenza dell’energia cosmica:

 /And the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless;/ Neither from not towards; at the still point, there the dance is,/ But neither arrest or movement. And do not call it fixity,/ Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,/ Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point,/ There would be no dance, and there is only the dance./

(/Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo, né incorporeo;/Ne muove dà né verso; al punto fermo. Là è la danza,/Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,/Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/Né ascesa né declino./Tranne che per il punto, il punto fermo./Non ci sarebbe la danza, e c’è solo la danza./)

Nel prosieguo della ricompaiono tutti gli elementi che ripropongono la drammaticità irrisolta del rovello eliotiano.

/But only in time can the moment in the rose-garden, The moment in the harbour where the rain beat,/The moment in the draughty church at smoke fall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered./ 14

(/Ma solo nel tempo il momento nel giardino delle rose./Il momento sotto la pergola dove la pioggia batteva,/Il momento nella chiesa piena di correnti d’aria all’ora che il fumo ristagna,/Possono essere ricordati, mischiati al passato e al futuro,/Solo col tempo si conquista il tempo./

È nel tempo, nel momento in cui si manifesta la rosa, ma non si tratta del tempo storico.

La terza sezione dei Quartets, East Cocker, può da sola costituire una sintesi dell’opera. I primi nove versi solenni, già citati, delineano uno scenario di grande suggestione e potenza. Gli echi che rimandano sono tanti, alcuni già ricordati. Il tono, per esempio, ricorda l’Ecclesiaste, ma anche il verso più solenne di John Donne e addirittura una eco dei suoi sermoni. Eppure la sorpresa permane. È vero che abbiamo già udito queste parole e sarà lo stesso Eliot a ricordarcelo in un verso:

/You say I am repeating/ Something  I have said before. I will say it again./

(/Dici che sto ripetendo/Qualcosa che ho già detto. Lo dirò ancora./)

Riflettendo ancora sulla concretezza della similitudine possiamo constatare che l’effetto della concatenazione diviene sempre più rarefatto e sottile; ma sempre legato a quella concretezza iniziale. L’effetto ottenuto da Eliot è lo stesso del gettare un sasso in uno stagno. I cerchi d’acqua diventano sempre più tenui quanto più ci si allontana dal punto d’impatto. Probabilmente la loro espansione è indefinita e se avessimo strumenti di misurazione potremmo verificarlo, ma anche senza di essi sappiamo intuitivamente che così è. La concretezza e la materialità di quel gesto iniziale produce un’espansione che diviene rarefatta. Mutatis mutandis, la forza della similitudine porta con sé le sottigliezze della metafora, ma le porta non astrattamente ma concretamente in sé. La rarefazione non nasce dal nulla o da un puro volo della fantasia, ma ha un ancoraggio preciso che mai viene meno e dunque non perde la sua incarnazione.

A partire da:

/I said to my soul…/

(/Dissi alla mia anima…/)

la sezione riprende il tono solenne dei primi nove versi, ma vi è anche un cambio di scena suggerito da Eliot stesso con la metafora del teatro. L’Io che viene messo in scena qui è paradossalmente impersonale. Eliot non usa noi oppure un altro pronome personale di cui la lingua inglese solitamente si serve per il pronome impersonale perché in questo caso l’io sta proprio per l’umanità intera ridotta alla sua piccolezza. Le similitudini che seguono, piuttosto elementari, si addicono proprio alle dimensioni di questo io-noi. Siamo piccoli in preda a piccoli espedienti di suggestione: siamo sgomenti persino a teatro quando cambia scena, perché avevamo sospeso il giudizio e creduto a quei colli di cartone che vedevamo; così come è sufficiente un treno fermo fra due stazioni della metropolitana per gettarci nel panico. Torniamo ora a quel distico che ci siamo lasciati alle spalle: il nono e il decimo, che chiude la sfilata delle ombre in questo modo:

/And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ 15

(/E tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso/Il funerale di nessuno, perché nessuno è da seppellire./)

Esso fa da cerniera fra i primi nove e il nuovo attacco che abbiamo già visto. È veramente necessario tale stacco da un punto di vista poetico, oppure abbassa il tono senza aggiungere altro al senso profondo di questa sezione? L’immagine del funerale silenzioso era già implicita e concretissima nella sfilata. Eliot pensa alla resurrezione nel verso finale?

La quarta sezione di East Cocker riporta al centro la figura del Cristo come chirurgo e la terra ritorna ad essere la valle di lacrime. Non sono però due Eliot; ancora una volta si ripropone qui il suo solito dilemma. Il poeta vede certamente nella conversione il modo di resistere agli aspetti deteriori della modernità, ma il ricorso al mito cristiano come elemento portante della tradizione occidentale appare a volte come una sovrapposizione alla sua poesia, altre volte come un dei tanti elementi; un mito, appunto, una narrazione non diversa da altri miti. È per questo, in definitiva, che la sua poesia è intrisa di elementi esoterici, spazia indefinitamente anche oltre la simbologia biblica.  

La quinta sezione può essere considerata una dichiarazione di poetica in versi. L’inizio è un richiamo esplicito alla Commedia

So here I am, in the middle way, having had twenty years,/Twenty years largely wasted, the years of entre deux guerres,

(/Così qui mi trovo, nel mezzo della vita, avendo avuto/ vent’anni – /vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres – /)

La consapevolezza della crisi in cui il poeta si trova e che richiama la crisi personale di Dante medesimo, assume qui degli accenti drammatici che hanno perso ogni orpello collusivo, ancora presente in Waste land, dove il sentimento della crisi non si è ancora confrontato con la seconda tragedia secolare: non bisogna mai dimenticare che questa parte dei Quartetti fu scritta nel 1942. Lo sgomento e lo smarrimento sono espressi in versi che sembrano azzerare la sezione precedente dove il chirurgo e cioè Cristo, sembrava ancora poter risanare le ferite della storia. Invece ora sperimenta:

Is a wholly new start, and a different kind of failure,/Because one has only learnt to get the better o f the words/For the thing on no longer has to say,  or the way in which one is no longer disposed to say it. And so each venture/Is a new beginning, a raid on the inarticulate/With shabby equipment always deteriorating…/ In a general mess f imprecision of feeling/Undisciplined squash  of emotions.

(/… una nuova e completa partenza, un genere diverso di /sconfitta,/perché uno ha imparato soltanto le più esatte parole/per la cosa che ormai non ha da dire, e nel modo nel quale /a dirla non è più disposto. E così ogni avventura/è un nuovo principio, un irrompere inarticolato/un equipaggiamento lacero e sempre alterato,/nel generale disordine dell’impreciso sentire,/schiere indisciplinate di emozione …/)

Il ritmo distorto, jazzistico fino all’esasperazione, fatto di cesure che si sforzano di aderire al caos che sta rappresentando sono un’irruzione che disarticola ogni parola possibile.16 Che fare allora? Nell’ultima parte, più pacata, il poeta ritrova il linguaggio solenne dell’Ecclesiaste:

There is a time for the evening under starlight A time for the evening under lamplight

(/C’è un tempo per la sera sotto al luce stellare,/un tempo per la sera sotto la lampada accesa/)

Nella chiusa si compie la metamorfosi dall’uomo che ha attraversato mille esperienze al vecchio:

Old men ought to be explorers/Here and there does not matter/We must still and still moving/Into another intensity/For a further union, a deeper communion,/Through the dark cold and the empty desolation,/The wave cry, the wind cry,  the vast waters/of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.

(/I vecchi dovrebbero esplorare/ non importa qua o là/noi dobbiamo esser quieti e quieti muovere in un’altra intensità/per una più intima unione, per una comunione più profonda/attraverso il rigore tenebroso e la vuota desolazione,/Nell’onda che grida, nel vento che urla, nelle acque immense/dell’Orca e della Procellaria. Nella mia fine è il mio principio.) 17

L’irruzione della storia e di un presente drammatico, si chiude a questi punto con un ritorno circolare su se stessa. Sarà nell’ultimo dei Quartetti che Eliot compirà un passo successivo e in qualche modo definitivo.

Funzionari

7 Da La terra desolata e Quattro Quartetti. Traduzione e cura di Angelo Tonelli, introduzione di Milosz, Feltrinelli 2000 pag. 11.  I saggi introduttivi alle sue opere sono tutti assai interessanti. A parte quelli già citati e che lo saranno nel prosieguo, importanti sono quelli scritti da Roberto Sanesi.

8 Op. cit. pag. 11.

9 Op. cit. pag. 12-13

10 T.S. Eliot, Il bosco sacro, Saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello, Bompiani 2016.

11 T.S. Eliot, Quattro Quartetti, Burnt Norton seconda sezione.

12 Ivi.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Attilio Brilli, è forse il critico italiano che ha più evidenziato che i Quartetti hanno una struttura sia concettuale sia musicale. In alcuni casi il primo tempo presenta due temi contrastanti eppure connessi tra loro. Rimando all’analisi da lui compiuta per approfondire tale tematica sebbene a me sembri che la variazione jazzistica, più che non il riferimento alla partitura di una sinfonia, sia l’elemento musicale più presente nella sua opera. Eliot è un modernista convinto anche quando critica la modernità e non mi sembra un caso, peraltro, che l’ultimo dei Quartetti – Little Gidding – sia stato musicato da Stravinskij e da Sofia Gubaidulina, esponenti dell’avanguardia musicale novecentesca. 

17 T.S. Eliot. Quattro quartetti, Traduzione di Roberto Sanesi, Book editore ed eredi Sanesi, Milano 2002, pag.46.

T. S. ELIOT, GIANO NOVECENTESCO

Introduzione

Il dilemma e l’ambivalenza in cui si dibatte l’intera opera di T.S.Eliot hanno accompagnato decenni di riflessioni sulla poesia, ma sono diventati anche il limite che ci sta sempre più distanziando dalla modernità e dalla post modernità.

Intorno al nome di Eliot, inoltre, si gioca un discorso tutto italiano che riguarda il modo in cui la sua opera è stata recepita da noi e ancor più l’accostamento che è stato proposto fra il poeta anglo statunitense ed Eugenio Montale.

Eliot è stato un personaggio icona delle lettere novecentesche, ma occorre andare un po’ più indietro nel tempo per trovare alcuni presupposti della sua opera.

Fu Hugo Von Hofmannsthal, nella Lettera di Lord Chandos, a proporre per primo un’immagine che s’imporrà negli anni successivi la fine della Prima Guerra Mondiale e che diventerà, con il tempo, uno slogan e un’icona del ‘900: lo specchio infranto e la conseguente moltiplicazione dei punti di vista come metafora della disintegrazione di un mondo e di una civiltà fondati su una solida identità.1 Che tale unitarietà e solidità esistessero davvero, prima di quel tempo, è assai discutibile e infatti tale punto di partenza è anche in parte il frutto di un equivoco, perché von Hofmannsthal fa parte di quella schiera di intellettuali della finis Austriae che colsero per primi la crisi dell’Impero austro ungarico, rimanendone però dentro i suoi recinti. La Gran Bretagna era lontana anni luce da quel mondo, eppure la Waste land è sembrata incarnare, pochi decenni dopo lo scrittore mitteleuropeo, la metafora dello specchio infranto; non solo perché un verso della prima parte riecheggia l’espressione usata da Von Hofmannsthal,2 ma per il modo stesso in cui il Novecento ha percepito se stesso.

Il poema aperto, disincantato, l’uso di registri linguistici diversi, il tono allusivo che chiama il lettore a una complicità un po’ pelosa, sono diventati nel tempo gli emblemi di tante crisi diverse fra loro, per finire nella constatazione dolente, ma più spesso compiaciuta, del relativismo e del nichilismo.

A questo quadro La terra desolata e ancora di più le opere giovanili di Eliot, quali The love song of J. Alfred Prufrock, Portrait of a lady, nonché l’immagine sintetica degli hollow men, hanno dato il loro potente contributo. Così ne parla Attilio Brilli:

The waste land, pubblicata nel 1922 … è forse l’opera del Novecento che ha maggiormente influenzato intere generazioni di poeti … La terra desolata è per antonomasia la poesia dell’angoscia e dell’alienazione. Essa mantiene integro il suo fascino di drammatica testimonianza di un’epoca nella forma frammentaria, ove l’unità è il frutto della cooperazione del lettore … ormai avvezzo e quasi naturalmente scaltrito ad operare all’interno di un sistema di agganci e di allusioni culturali.3

Si può dire che queste poche parole esprimano coerentemente uno degli assi di lettura dell’intero Novecento. La sua influenza è stata così vasta da travalicare i confini delle arti e si può convenire con Czeslav Milosz quando afferma che certe atmosfere dei film di Antonioni e Fellini:

sembrano la traduzione di una poesia di Eliot 4

Eppure, svoltato il crinale del cambio di secolo da oltre un ventennio, è lecito domandarsi se tale lettura, non sia ormai troppo datata. E se è vero che, come afferma Brilli:

pochi poemi hanno influenzato come questo intere generazioni di poeti 5

va anche detto che all’ordine del giorno di oggi non sembra più esserci la modernità in quanto tale, neppure per criticarla; nel suo inferno ci siamo scesi molte volte, il cosiddetto abisso è stato esplorato. Il postmodernismo, peraltro, ha rielaborato in forme parodistiche e paradossali i materiali della modernità, ma di fronte al caos sistemico di oggi, al ritorno delle guerre come modo di soluzione dei conflitti, abbiamo bisogno d’altro per cercare di tornare a significare il mondo in cui viviamo.

Eliot e l’eredità del ‘900.

Eliot ha rivendicato nei suoi scritti teorici la necessità di non leggere la sua opera in modo storicistico o evoluzionistico: non vi è sviluppo in essa, né progressione, a meno di sposare la tesi di un Eliot prima della conversione e di un secondo dopo la stessa. Il poeta di Saint Luis non è Manzoni; anzi, le parti della sua opera in versi più esplicitamente e dichiaratamente ispirate dalla conversione cattolico-anglicana, quali per esempio i Cori de La Rocca, sono testi minori; mentre per l’autore de I promessi sposi avviene il contrario.

Nell’opera poetica di Eliot vi è la presenza costante di alcuni temi sui quali egli ritorna, mantenendo rispetto a essi un’ambivalenza che non verrà mai meno, sebbene nell’Eliot giovane prevalga la messa a punto delle sue dramatis personae preferite: il dandy salottiero, la signora annoiata, i protagonisti del demi monde culturale di massa: The Love song of Alfred Prufrock, Portrait of a Lady. Questi testi vengono successivamente metabolizzati e resi drammatici nella Waste Land e in Hollow men.6

Quando mi avvicinai per la prima volta a Eliot da studente delle scuole superiori, il poeta era in seconda linea, almeno in Italia; a quel tempo egli trionfava come autore di teatro e ricordo una memorabile rappresentazione di Assassinio nella cattedrale cui assistemmo come classe. I Quartetti non venivano mai citati, The waste land sì, ma la lessi per la prima volta da studente universitario. Dovevano passare ancora molti anni e molte riletture prima di imbattermi nei Quartetti. Da allora in poi si rafforzò in me la convinzione che i Quartetti fossero l’opera più importante scritta da Eliot, ma anche quella che permette maggiormente di capire il limite novecentesco  dell’intero suo percorso e non soltanto di una parte di esso.

T. S. Eliot


1 . Allora … tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese né quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia;”  Dopo aver così descritto lo stato unitario del mondo, alcune pagine più avanti così prosegue la lettera: “… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni … Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto.”

Da Lettera di Lord Chandos, introduzione di Claudio Magris, traduzione di Magda Vidusso Feriani, biblioteca Universale Rizzoli 1974. Pag. 37 e 43.

2 /A heap of broken images, where the sun beats,/… (/un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole./) Da La sepoltura dei morti, in ‘T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

3 Attilio Brilli, introduzione a Quattro quartetti. Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

4 Da T. S. Eliot La terra desolata e Quattro quartetti, traduzione e cura di Angelo Tonelli. Introduzione di Czeslav Milosz. Universale Economica Feltrinelli . Aprile 2000, pag.11.

5 Attilio Brilli. Introduzione a Quattro Quartetti, Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

6 I critici cattolici insistono  molto sull’importanza di  Ash-Wendnesday (Mercoledì delel ceneri).