
Patty Smith è tornata lo scorso settembre 2024 a Ostia antica, ormai lo fa ogni anno. A me capitò il primo agosto del 2010 di assistere al suo concerto. Leggere del suo ritorno mi ha riportato ad allora e poi ancora più indietro nel tempo.
Erano bastati pochi minuti, quel primo di agosto, per capire che il concerto in quel meraviglioso anfiteatro nel mezzo delle rovine, sarebbe stato un vertiginoso volo nel passato, uno di quei momenti che portano a ripensare situazioni su cui il pensiero non tornava da tempo. Lei non era e non è cambiata: anche allora aveva recato il suo omaggio a Pasolini, come avrebbe continuato a fare negli anni successivi, andando anche a Casarsa e in altri luoghi pasoliniani.
Quel primo agosto era entrata in scena insieme alla band, quasi impacciata.
Il mio primo incontro ravvicinato con lei era però già avvenuto molti anni prima, durante una breve apparizione in occasione della Mostra del cinema di Venezia, nel settembre del 1977, pochi giorni prima del concerto di Bologna di cui si parlava da mesi e di cui si sarebbe poi parlato per mesi. Ero in sala a Venezia, molto a ridosso del palco, lei giovanissima, con addosso una lunga blusa (identica a quella che portava a Ostia nel 2010), i jeans d’ordinanza e gli stivali. Poi a Bologna, sul palco enorme, era stata letteralmente rapita dal contesto; rappresentava, qualcosa che andava ben oltre l’evento musicale. Intorno a lei s’era radunata l’intera generazione del movimento del ’77 e il concerto bolognese era la replica di un altro tenutosi a Milano: quello di Peter Tosh. In quell’occasione era piombato sul catino del Vigorelli, avvolto nella nube creata del fumo di cannabis e dalla musica ipnotica di Peter, il messaggio di Oreste Scalzone dal carcere. Come poteva, però, quella ragazzina minuta, seppure dalla voce potente e maschile, rauca, ma da bianca, reggere il peso di quello che la generazione del ’77 voleva caricarle sulle spalle? In fondo Patty Smith è una perfetta metafora dei fraintendimenti del ’77, che sarebbero poi esplosi in tutte le direzioni provocando il dissolvimento definitivo delle aspettative maturate nel ’68. Erede del rock degli anni ’70, dei suoi ritmi, del suo timbro, Patty Smith non aveva però la forza scenica dei suoi predecessori. La sua musica non aveva il magnetismo di Jim Morrison, non portava nel suo timbro la disperazione infinita di Janis Joplin, ma non anticipava neppure quella sofisticata e quasi programmaticamente volta al suicidio di Kurt Cobain dei Nirvana, che sarebbe esplosa nel pieno degli anni ’80, dopo le sofisticate incursioni di David Bowie e il rock duro martellante, molto sinistro e anche anonimo di quegli anni.
Lei rappresentava qualcosa che veniva prima – Bob Dylan e Joan Baez – e sarebbe tornato dopo, con Bruce Spingsteeen e infatti, non per caso, la canzone che li unisce anche per i modi diversi d’interpretarne il finale è Because the night. In lei permaneva l’eco delle lotte e delle aspirazioni della generazione del ’68, insieme a una rabbia che diventava più programmatica, senza però sfociare in una nuova stagione d’impegno politico. Per questo, forse, la generazione del ’77 la elesse a sua paladina, a prescindere da lei stessa, che in quel ruolo doveva sentirsi stretta anche allora. È curioso, a pensarci bene, che nel suo ritorno in Italia nel 2010 fosse stato scelto un teatro così particolare, per il suo spettacolo. Il destino di Patty Smith è di essere sempre, almeno in parte, fuori posto e lo è stata anche recentemente quando nel 2016 Bob Dylan le chiese di recarsi al suo posto a Stoccolma per di ritirare il nobel a lui attribuito.
Non le si addicevano gli stadi, ma neppure le accademie e l’eccesso di classicità che un luogo come il teatro di Ostia Antica evoca. Forse un semplice, normale teatro, sarebbe stato più adatto, anche se il pubblico, infondo, si comportò nel 2010 come se fosse altrove. Nessun vero coinvolgimento di massa, nessun gesto eccessivo, anche da parte di chi era lì sulle ali di un’evidente nostalgia. Le poche fila di pubblico, in piedi nel parterre e davanti al palco, non si lasciavano andare a quelle scene di delirio di massa che accompagnavano i concerti anni prima. Troppo diverso il contesto, troppo distanti quei tempi, troppo di tragico e di tragicomico accaduto nel frattempo. Meglio così, la sua musica si era sentita finalmente per quello che è: la testimonianza della seconda generazione del rock, maledetta a metà, tanto da durare nel tempo (e ne siamo davvero felici), di passare indenne attraverso gli abusi perpetuati sul proprio corpo in quegli anni, abusi che avevano travolto Elvis, Jim, Janis, Jimmy e, da noi Demetrio Stratos, che al suo corpo aveva chiesto prestazioni canore al limite delle possibilità umane.
Alla fine è come se ci avesse portato, dell’uragano di quegli anni, la brezza leggera di una eco che si andava spegnendo, ma che lo scenario impareggiabile di Ostia Antica e la luna pienissima che si ergeva davanti al palco e alle spalle del pubblico, ha reso per un’ultima volta luminosa, di una luce tenue ma pur sempre splendente.
Da Roma a Lamezia Terme
Il 10 agosto dello stesso 2010, partii per la Calabria. Da tempo non ci tornavo e improvvisamente sentii di voler di nuovo visitare i luoghi che avevo conosciuto da studente universitario, all’inizio di quel momento storico felice che era iniziato nel 1968 e che anche il concerto di Patty Smith aveva evocato. Il biglietto Roma Acquappesa mi era costato una certa fatica in agenzia, ma poi si era trovata la soluzione con un solo cambio.
Il treno, superata Praia a mare e poi Scalea, s’avvicina a Cetraro e Acquappesa è la fermata successiva. Con lo zaino in spalla mi avvio alla porta.
Nel paese ero stato ospite di un amico e compagno (anche in senso politico), che studiava alla facoltà di economia della Bocconi. Sia lui e prima ancora suo padre, erano entrambi molto conosciuti in paese e il padre in particolare era una specie di autorità senza incarico pubblico. Si era guadagnato quel ruolo durante il ventennio fascista quando finiva in galera ogni volta che un gerarca si faceva vedere lì o nei dintorni. Era, allora una prassi consolidata e in quell’Italia assai simile a quella di oggi, accadeva anche ad altri: quello che accadeva probabilmente soltanto a lui era di finire in galera ogni anno anche il Primo di Maggio, quando esponeva puntualmente la bandiera rossa con la falce e il martello alle finestre di casa sua, per la disperazione della moglie. Lo ricordo ancora oggi come un uomo silenzioso, austero, un contadino dallo sguardo fiero, autoritario e autorevole, ma sempre gentile, stimato in tutto il paese. Era il patriarca, con qualcosa di omerico. Il figlio, per ribellarsi a tanto padre, non era passato dall’altra parte, ma aveva scelto il bordighismo come propria nicchia politica, una corrente ultra minoritaria del comunismo italiano, in rotta persino con Trotzskj e il trotzkjsmo internazionale, chiusa in sé come il suo leader. Le discussioni fra loro erano uno spasso: il mio amico e compagno partiva con una filippica che durava cinque minuti buoni, durante i quali il padre, impassibile, continuava a guardare nel vuoto come se stesse pensando ad altro. Poi, approfittando di un momento d’interruzione nel fluire dell’eloquio figliale, piazzava una battuta che sembrava una sorta di raffica rapidissima e fulminante, che poneva sempre un interrogativo di fondo, che dimostrava come lui sapesse bene tutta la materia e padroneggiasse benissimo tutte le ragioni dei contrasti interni al Partito Comunista Italiano negli anni cruciali che vanno della fondazione nel ’22 all’arresto di Gramsci. Il figlio, non rispondeva subito, si chiudeva a sua volta in un silenzio teso, per poi ricominciare daccapo il giorno dopo.
Il treno intanto avanza, guardo fuori dal finestrino, mentre ripenso a tutto questo riconosco le spiagge, persino quella in cui andavamo insieme, una piccola insenatura con un castello diroccato sulla punta e un isolotto davanti, raggiungibile a nuoto. Il treno rallenta, ma dopo un’ultima esitazione ritorno al mio posto e decido di non scendere. Che altro avrei potuto trovare, oltre a quello che vedo? Che senso aveva bussare a una porta decenni dopo, ammesso che tutto fosse rimasto immobile come allora? I luoghi bisogna imparare anche a lasciarli, oppure a conservarli quieti nella memoria che ce li restituisce pur sempre vivi, seppure di una vita trascorsa. Il treno prosegue sempre più a sud dove peraltro ero stato anni prima con Laura e alcuni amici durante un viaggio interminabile che ci avrebbe portato fino in Sicilia e nelle sue isole. A Lamezia Terme decido che è bene farla finita con la mia sfida alle ferrovie dello stato e il rischio di una multa. Scendo e il luogo non mi sembra dei più accattivanti, ma non potevo immaginare in quel momento che Lamezia sarebbe diventata negli anni successivi una delle porte d’ingresso per la mia seconda vita nella Calabria profonda. Grazie a Teresa e ad altri amici e amiche romane, mi trovai da quell’anno in poi a passare molte estati in Calabria, ma sull’altro versante: Catanzaro, il Golfo di Squillace, Gasperina, la casa di Guglielmo Pepe, la scoperta di una – per me imprevedibile – Calabria precocemente industrializzata, luoghi affascinanti come Gerace e Pizzo Calabro. Poi Reggio Calabria, ma questa è un’altra storia ancora.
Davanti alla Sicilia
Reggio Calabria è stata per alcuni anni che vanno dal 2017 al 2020 un luogo di frequentazione costante. Gli avvenimenti tristi di questi giorni, a seguito della scellerata vicenda del rilascio di Almasri hanno risvegliato un altro ricordo.
Come ogni giorno mi recavo a passeggio sul lungomare assolato, che D’Annunzio considerava il più bello d’Italia. La Sicilia è lì a portata di mano, il pensiero correva a Goethe, ma anche a un libro recente scritto a quattro mani da un autore tedesco e da uno italiano: Mario Fortunato, un germanista che vive e lavora a Berlino e Jan Koneffke, scrittore e traduttore dall’italiano e dal rumeno. Il loro libro mi è molto caro sia perché mi riporta alle atmosfere del Gran Tour di Goethe, sia perché mi riporta a Berlino da cui ormai da troppo tempo e all’amicizia con Franco Sepe. Fu proprio lui a suggerirmi la lettura di questo testo del 2016 dedicato proprio all’incontro fra Roma e Berlino. Cosa c’era di meglio che rileggerne alcune parti proprio qui sul bar di una spiaggia assolata, proprio davanti alla Sicilia e all’Etna in lontananza. Il libro è la ricostruzione di un percorso personale, una sorta di iniziazione che ha come protagonisti il poeta tedesco e un giovane nordico contemporaneo che arriva nella Calabria di alcuni anni fa: fra il viaggio di Goethe e quello del ragazzo nordico ci sono di mezzo i secoli, ma certe descrizioni sembrano potersi scambiare il tempo, seppure con qualche differenza non da poco. Il poeta tedesco aveva vinto strada facendo i suoi pregiudizi da protestante tedesco nei confronti del mondo mediterraneo e aveva pure incontrato Faustina. La storia d’amore fra il norvegese contemporaneo e il ragazzo calabrese è una vicenda amorosa omosessuale, felice come l’altra.
Il tempo scorreva, la lettura piacevole mi accompagnava sì …, ma intanto i canader continuavano a volare e a raccogliere acqua, ogni cinque minuti: il rumore era assordante e tutti gli sguardi erano rivolti alle colline circostanti e alla Sicilia. Smisi di leggere: non riuscivo a provare una vera apprensione, però la frequenza dei voli suscitava un certo allarme. Fumo ovunque, incendi ovunque che nascevano in continuazione. Non ero il solo a levare lo sguardo al cielo, del resto è un evento – questo degli incendi – che accade puntualmente ogni anno, ma la sensazione era allora che qualcosa di particolare stesse accadendo. Abbandonato il libro mi misi allora a sfogliare alcuni quotidiani sui tavoli del bar. La statistica era impietosa, il fenomeno troppo abnorme per essere associato alle consuetudini tristi dell’estate italiana. C’era qualcosa d’altro? E che cosa? La mia attenzione si concentrò su un articolo, in particolare, che metteva in relazione gli incendi con l’aumento degli sbarchi di migranti, superiore anch’esso agli anni precedenti. Un uomo seduto al tavolo di fianco al mio mi osservava.
“Lei non è di qui e si sta domandando cosa stia succedendo …”
“Sì, stavo cercando di capire questo articolo, il solo che metta in relazione incendi e sbarchi …”
“Chi controlla gli sbarchi è lo stesso che causa gli incendi …”
Decido di non dire nulla.
“Fra un paio di giorni sarà tutto finito, vedrà.”
La sera stessa al telegiornale arrivò la notizia che il ministro degli interni Minniti, di un governo di centro sinistra, era corso in Libia per raggiungere un accordo sugli sbarchi. Ora sappiamo molto bene cosa stava scritto in quel patto scellerato: i centri di detenzione, la Libia dei torturatori considerata porto sicuro e tutto il resto, ma allora non si capiva bene. Due giorni dopo però, Minniti arrivò in Calabria a magnificare l’accordo appena raggiunto: il giorno dopo cessarono gli incendi.
Tornai a quel bar, ma lo sconosciuto con cui avevo parlato non lo rividi più.
